Durante il lockdown siamo stati incitati su più fronti a sfruttare il tempo a disposizione, in un diluvio di consigli, da come fare il perfetto allenamento in casa a come far lievitare focacce come esperti panettieri. In molti hanno cercato nuovi hobby o hanno rispolverato i buoni propositi mai realizzati. Se da un lato per molti è stato positivo avere cose nuove da fare e a cui appassionarsi per dare un senso a giornate vuote, per chi era incline al perfezionismo l’ossessione di dover intraprendere delle nuove attività – unita all’ansia di dover essere produttivi a tutti i costi – si è rivelata deleteria per il benessere psicofisico. L’ossessione per il perfezionismo può essere a tutti gli effetti un’arma a doppio taglio: da un lato carica d’ansia e frustrazione e dall’altro ostacola proprio quella produttività che tanto insegue. Se è vero che vivere costantemente in ansia è una sofferenza, infatti, si potrebbe pensare che, se i risultati sono ottimi e si raggiungono in modo soddisfacente tutti gli obbiettivi, forse ne vale la pena. Ma non è così: il perfezionismo stesso può bloccare creatività e produttività, lasciandoci incagliati in una spirale di frustrazione.
Secondo gli psicologi Paul Hewitt e Gordon Flett, ci sono tre tipologie di perfezionismo: quello autodiretto, che è il desiderio “irrazionale” di essere perfetti; quello eterodiretto, che spinge ad applicare il meccanismo “se chiedo qualcosa a qualcuno, mi aspetto che sia fatto in modo perfetto”; e quello socialmente imposto, che spinge a inseguire la perfezione per non deludere gli altri, cioè l’ansia di soddisfare sempre le aspettative altrui, da cui scaturisce spesso un costante senso di inadeguatezza. Tutte e tre, secondo gli studi dello psicologo sociale Thomas Curran, sono sempre più diffuse: se nel 1989 era il 9% dei ragazzi che mostrava livelli rilevanti di perfezionismo socialmente imposto, nel 2017 era salito al 18%.
Nella nostra società il perfezionismo è celebrato come un marchio del successo, come una sorta di garanzia di qualità, eppure i perfezionisti sono sempre insoddisfatti e frustrati e, secondo la psicologia, sul piano clinico questa caratteristica può essere correlata a problemi come la depressione, l’ansia o i disturbi alimentari. Non a caso, infatti, a una sempre maggiore diffusione del perfezionismo – confermata anche da uno studio della Dalhousie University e della York St John University, per il quale i giovani di oggi vi sono più inclini rispetto alle generazioni precedenti – corrisponde il propagarsi dei disturbi mentali, compreso l’aumento del tasso di suicidio; circa il 30% degli studenti universitari, inoltre, soffre di sintomi depressivi, un dato nettamente più alto rispetto al resto della popolazione. Secondo le ricerche questo sarebbe legato alla paura di deludere le aspettative altrui: l’errore non è ammesso, perché c’è sempre qualcuno più bravo di noi pronto a superarci.
Il successo sembra la chiave della felicità, ma questa ossessione produce frustrazione, che può inibire la capacità di focalizzarsi, di portare a termine compiti e di essere soddisfatti da ciò che si fa. Il perfezionismo, in definitiva, è un freno alla produttività, perché da un lato provoca ansia e dall’altro impone di dare a tutto la massima importanza, impedendo di attribuire le giuste priorità alle cose da fare. Sono tre gli aspetti che interferiscono con la capacità di attribuire il giusto peso ai compiti e alle cose. Innanzitutto si è riluttanti a definire “non importante” un compito; se qualcosa va male, fosse anche insignificante, il perfezionista prova una frustrazione e un’irritazione tali che non può ignorarle: automaticamente classifica tutto come meritevole della sua piena attenzione e del suo impegno. In secondo luogo, per il perfezionista non strafare equivale a fare meno del dovuto: gli standard, in termini di qualità e quantità del lavoro svolto, sono eccessivamente elevati, come se l’unico modo per evitare di deludere gli altri fosse superare sempre le loro aspettative e come se ogni minimo errore potesse avere conseguenze catastrofiche. Infine, il perfezionista è eccessivamente frustrato quando non mantiene al 100% le proprie abitudini, perciò quando inizia una nuova attività finisce per imporsi di fare più di quanto fisicamente possibile o per procrastinare l’inizio della nuova attività finché non sarà sicuro di poterla fare come prefissato. Il perfezionismo impedisce finisce così per bloccare quella sana flessibilità che caratterizza il benessere mentale: se l’autodisciplina sfocia nell’ossessione, si può addirittura essere trattenuti dall’agire.
“Niente è fuori dalla tua portata se lo desideri davvero” è un mantra che si sente spesso ripetere riguardo al lavoro – nonché il nocciolo del sogno americano – per cui siamo portati a credere che, se non otteniamo il lavoro dei nostri sogni, è perché non ci siamo impegnati abbastanza e non ce lo meritiamo. In realtà, sappiamo bene che, specialmente per quanto riguarda il mondo del lavoro in Italia (e soprattutto in alcuni settori), una certa dose di fortuna e qualche conoscenza ben piazzata – che non guasta mai – contano quanto (se non più di) merito e preparazione. L’ossessione per la meritocrazia è strettamente correlata a questo discorso. Negli Stati Uniti, dove il mito del sogno del selfmade man continua a far danni insieme a un sistema scolastico estremamente impari e competitivo, si trasforma in una vera e propria trappola. I ragazzi, tra l’inizio dell’asilo e la fine del liceo, passano attraverso 112 test selettivi, per essere categorizzati in classi, gruppi, classifiche, in cui la gara per puntare alle migliori università – e quindi sperare in un miglioramento del proprio status sociale – comincia nella prima infanzia. Ma questo non riguarda solo l’America: in moltissimi Paesi del mondo ormai la performance guida le vite dei cittadini fin da giovani.
Secondo gli studiosi, all’origine della diffusa ossessione del perfezionismo ci sono cause complesse, riconducibili a fattori ambientali e culturali, come insicurezza e la cosiddetta sindrome dell’impostore, cioè la paura di non essere mai abbastanza, quell’ansia di dover costantemente dimostrare di essersi meritati quel che si ha per paura di essere “smascherati”, che è anche la paura più diffusa persino tra i dirigenti. A pesare su tutti questi fattori è innanzitutto il modello basato sulla competizione sfrenata tipico del mondo in cui viviamo; fanno la loro parte anche i social media e le vite irrealisticamente “perfette” che ci presentano, che ci spingono a vedere solo persone di successo, a sentire il bisogno di essere accettati socialmente e di veder riconosciuto il nostro valore in continuazione. Un problema sta proprio nell’apparenza: se si sa fin da subito che una cosa sarà difficile, non ci si stupirà né ci si abbatterà trovando difficoltà nell’affrontarla. Ma se una cosa sembra facile e si trovano poi difficoltà nel farla, l’autostima subisce un duro colpo: ci si è posti degli standard troppo elevati. Questo oggi succede perché, in un mondo incentrato sull’apparenza, in cui le vite degli altri ci vengono presentate sempre come invidiabili e i loro successi sembrano essere arrivati senza sforzi, non ci rendiamo conto di quante difficoltà abbiano incontrato, e quante volte abbiano fallito, quelli che ora hanno successo. Un ruolo importante, infine, ce l’hanno i genitori che, quando troppo critici, possono influenzare lo sviluppo del perfezionismo, che nasce e si consolida proprio negli anni della formazione; per questo è fondamentale che i figli vengano supportati incondizionatamente.
Il perfezionismo non patologico è positivo quando motiva a realizzare nuovi progetti e spinge a migliorarsi sempre. Ma può trasformarsi in un ostacolo proprio al raggiungimento dei propri obiettivi a causa della paura del fallimento, che può tradursi nella tendenza a procrastinare o a rallentare il lavoro in tutti i suoi aspetti, a partire dai più semplici, come l’invio di una mail, riletta anche dieci volte per verificare che non contenga errori. Il perfezionismo è mosso dalla volontà di eccellere, ma può portare all’auto-sabotaggio, come strafare quando non è necessario o continuare a rimuginare su una decisione. Ci si può sentire così paralizzati dall’ansia da non sapere nemmeno da dove cominciare. In particolare gli artisti possono sperimentare questa situazione, che in realtà però colpisce tutti.
Il perfezionismo è considerato spesso alla stregua di una virtù, ma non lo è affatto: il perfezionista vive in un circolo vizioso di impegno eccessivo fino all’autolesionismo, che, oltre a essere controproducente, è spesso fonte di dolore, perché ogni nuovo compito viene vissuto come un’opportunità di fallimento, di delusione e di auto-rimprovero. Per questo i perfezionisti autocritici spesso rispondono all’ansia rinunciando in partenza all’attività per la quale si sentono inadeguati, e questo è uno dei motivi per cui avanzano poco nella carriera: non se la sentono di assumersi responsabilità che vadano al di là del loro ruolo. Questo tipo di perfezionismo, paradossalmente, preclude esperienze, soddisfazioni e successi in nome di un illusorio ideale irraggiungibile, anche per questo dovremmo imparare a riconoscerlo. Un conto è il desiderio di migliorarsi, un altro quello di misurarsi con lo standard inarrivabile di una perfezione che, in realtà, non esiste.