Il diritto di essere una donna che dà fastidio

Esiste un dogma, socialmente accettato, per cui gli uomini avrebbero il diritto di comportarsi male nelle relazioni con le donne, spesso incolpate di essere “assillanti” o di avere “troppe pretese” quando tentano di vincolare uno schema di reciprocità nella relazione. Le donne vittime di violenza, soprusi verbali o semplici comportamenti narcisistico-stronzi del loro compagno vengono incolpate di aver scelto l’uomo sbagliato, come se la violenza e il sopruso maschile fossero un melone troppo maturo che bisogna stare attente a non farsi vendere dal fruttivendolo sotto casa.

Se il corteggiamento è il retaggio romantico del dominio patriarcale e implica una sudditanza del genere femminile, eterno minore nelle mani dell’uomo, la sua etichetta implica che ci sia uno dei due attori relazionali, la parte femminile, il cui compito è fornire sempre risposte e non porre mai domande, in particolar modo richieste. “Le donne rompono i coglioni” non è solo una maniera poco gentile di indicare stanchezza e mancanza di affinità, ma un preciso manifesto politico di come si dovrebbero svolgere le dinamiche di una coppia tradizionale, monogama (almeno per lei) ed eteronormata. Secondo la saggezza popolare, scriveva Simone De Beauvoir nel Secondo sesso, la gelosia è una faccia dell’isteria femminile, come la frigidità e la follia, una concezione della natura della donna che ha attraversato quasi indenne cinquant’anni di lotte femministe e studi sulla psiche umana, dando vita alla pericolosa e socialmente accettata distinzione fra “donne che rompono i coglioni” e “donne che non rompono i coglioni”. È una narrativa che si basa su un preciso presupposto: l’esistenza di una soggettività secondaria, eternamente suddita, costola dell’altro, con ruolo di complemento e di compagnia, che deve essere incarnato con efficacia e una certa dose di professionalità.

Simone De Beauvoir

Questo presupposto risulta paradossale quando si finisce per notare che quello che era nato come un meccanismo di dominio e di sopruso da parte del genere maschile è oggi parte integrante e fondamentale del discorso delle donne sulle donne, grazie alla sua caratteristica più insidiosa: quella di essere inconscio. La frenesia e la precarietà della vita quotidiana tendono ad accorciare e rendere minimo il tempo che abbiamo a disposizione per decidere con coscienza cosa abbia davvero significato e cosa sia invece frutto di un condizionamento sociale. Si tende ad adottare il linguaggio e i codici di scambio sociale e linguistico dell’ambiente umano che ci avvolge in maniera predominante, in parte per non essere esclusi, come nota Elizabeth Noelle-Neumann nella Spirale del silenzio, in parte per stanchezza e mancanza di tempo ed energie: argomentare ogni eventuale opinione difforme mentre si sprofonda nei piatti da lavare, nelle bollette da pagare e nel lavoro arretrato richiede dosi di pazienza, energia e autoironia particolarmente rare. Frustrazione e paura dell’isolamento sociale, di essere, appunto, etichettate come “rompicoglioni” e bollate come “quelle che non riescono a tenersi un uomo” o accusate di “essere in realtà lesbiche” (come se fosse un insulto), dimostrano come espressioni e definizioni patriarcali e maschiliste, quando non apertamente misogine, siano state normalizzate e inserite nel linguaggio comune, quello delle chiacchiere da bar, dei romanzi da ombrellone e dei saluti ai conoscenti. Evitare contaminazioni, in particolar modo linguistiche, è il traguardo di chi vive sotto la campana di vetro di un certo ambiente, generalmente medio-abbiente e altamente istruito, quello che comprende i professionisti della cultura e i lavoratori intellettuali del terzo settore. Accademici, dottorandi ed esponenti della bolla editoriale usano termini volgari ed espressioni sboccate solo se riflettono la cultura popolare e in contesti umoristici, come le citazioni della serie televisiva Boris.

Elizabeth Noelle-Neumann

Il linguaggio, diversificato e orientato a compiacere una delle due parti, è la dimostrazione della pericolosità degli stereotipi di genere. L’espressione “Rompere i coglioni” contiene la ricetta per la famiglia perfetta: gli uomini non vanno disturbati. Il disturbo è un’attività prettamente femminile, che scoraggia la virilità e il desiderio maschile, deve essere quindi evitato in modo da garantire serenità e prosperità. Fioccano i consigli di lettura su come essere la compagna perfetta: ne parla Oprah Winfrey nel suo show televisivo, rimproverando mogli asfissianti e gelose; ne scrive la giornalista Costanza Miriano, in un tripudio di maschilismo e affettazione quasi folkloristico; non si stancano di riproporre l’argomento nemmeno le riviste femminili, da Cosmopolitan a D di Repubblica.

Il fatto che la narrazione delle relazioni personali sia cucita su misura delle esigenze maschili non è soltanto una questione di scelta di termini poco felice, ma è un preciso problema politico, da affrontare come una questione sociale e non prettamente linguistica. Come notava ancora Simone De Beauvoir nel Secondo sesso, le dinamiche di potere nella sessualità etero sono rese palesi dalla loro narrazione: la donna viene “presa” dall’uomo. Della sua volontà non vi è traccia, almeno non nel linguaggio comune.

Che il linguaggio influenzi la forma e la qualità dei pensieri e che abbia il potere di interpretare la realtà è una tesi discussa su vari livelli di complessità: dall’ipotesi di Sapir-Whorf per i dottorandi in Filosofia del Linguaggio, che riguarda il potere del linguaggio di interpretare la realtà e modularne la nostra percezione, partendo dall’assunto che come comunichiamo agisce attivamente su cosa comunichiamo, allo studente elementare beccato in flagrante che scopre l’utilità del rigirare la frittata grazie alla forma passiva: “Mi è stato suggerito” invece di “Ho copiato” sposta l’asse della responsabilità con un minimo sforzo linguistico. Come attesta il modo in cui vengono raccontate molestie sessuali, femminicidi e stupri, con la frase “in fondo se l’è andata a cercare” appesa fra le labbra di chi racconta l’abbigliamento della vittima e parla di eventuali stati depressivi o alterati dell’aggressore prima di condannare l’atto senza se e senza ma, esiste un drammatico strappo fra quella che ci viene presentata come la raggiunta e armoniosa parità dei sessi e quello che davvero si potrebbe sperare di chiamare parità. Il caso del femminicidio di Tenno ne è un esempio; in nome di una storia d’amore descritta come romantica e tormentata, si racconta con indulgente tristezza la morte di Alba Chiara e di Mattia, tralasciando un dettaglio non certo irrilevante: entrambe le morti sono il risultato di una scelta e di un’azione della parte maschile.

Quanto le dinamiche di genere siano influenzate dal semplice raccontare i rapporti e le relazioni con l’altro sesso è invece un tema sottovalutato ed etichettato come soggettivo. Questo atteggiamento un po’ blasé per cui sì, forse c’è qualcosa di illegittimo nel modo eteronormato in cui etichettiamo le donne in base a come si rapportano con gli uomini e sempre da una prospettiva maschile, ma in fondo chissenefrega. Nonostante l’ondata di proteste e di #metoo sollevate dopo il caso Weinstein, l’opinione maggioritaria è che i movimenti femministi abbiano perso da tempo qualsiasi ragione a tirare su barricate e ad alzare la voce, figuriamoci poi per qualcosa di tanto effimero e soggettivo come le parole.

La concreta possibilità dell’isolamento e di una maggiore frustrazione fa scaturire una forma di costrizione sociale per cui finiamo per lasciarci raccontare e per raccontarci di nostra spontanea volontà come complemento del maschio. Questa tendenza è evidente tanto quando si fatica a comprendere la necessità di parlare di femminicidio e non di “momento di rabbia” del marito o dell’amante, quanto quando fra amiche ci si raccontano le reciproche disavventure amorose davanti a una bottiglia di vino e fioccano utili consigli come “non chiedergli troppo, poverino”, “lasciagli fare l’uomo della coppia” e, ovviamente, “non rompergli i coglioni”. Il punto di vista adottato è quello dell’uomo, è con la parte maschile che si empatizza, scegliendo di adattarsi ai suoi bisogni e alle sue pulsioni prima ancora di chiederci quali siano le nostre e a cosa significhi per noi che ci sia un “uomo della coppia”, in una posizione egemonica e di favore.

Nanni Moretti in  “Palombella Rossa”, 1989

Lo spettro che si aggira per l’Europa e che ha soppiantato il comunismo è quello di Nanni Moretti in Palombella rossa: “Le parole sono importanti!” Non è un caso che non si parli mai di “uomini che rompono le ovaie” e che ogni tentativo di neutralizzare il linguaggio e renderlo libero da condizionamenti di genere venga ostacolato e bollato come folkloristico, se non totalmente demenziale. Accettare inconsciamente un certo tipo di linguaggio di genere e una certa dinamica di narrazione significa accettare che i generi sono solo due, strutturati in una precisa e saldamente istituzionalizzata gerarchia, che non esiste la fluidità di genere e che l’identità sessuale è sempre e solo biologica e destinata alla binarizzazione.

Segui Sofia su The Vision