Quando nel 1978 il Partito comunista italiano dichiarò una guerra insensata alle discoteche - THE VISION
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C’è una famosa teoria che viene citata quando si parla della caduta dell’Unione Sovietica secondo cui la musica rock avrebbe favorito la fine del comunismo. Il senso di libertà, ribellione e anticonformismo veicolato dalle poche canzoni in grado di superare la Cortina di ferro avrebbe giocato un ruolo fondamentale nell’ispirare una nuova coscienza politica nella gioventù sovietica. All’epoca a spaventare la dirigenza comunista erano i messaggi trasmessi dalla musica che elogiava il consumismo e l’amore libero. Non è facile capire quanto il rock abbia effettivamente contribuito alla disgregazione dell’Urss, ma quello che è certo è che i partiti comunisti di tutto il mondo ebbero un rapporto a dir poco complesso con la musica popolare. In Italia, per esempio, alla fine degli anni Settanta il Pci decise di dichiarare guerra al genere che avrebbe dominato le hit parade italiane almeno per due decenni: la disco music. 

Nel 1978 arrivò nelle sale italiane La febbre del sabato sera, con protagonista John Travolta. La musica disco si era imposta negli Stati Uniti già da qualche anno: nel 1974 il settimanale Billboard aveva cominciato a pubblicare una classifica dedicata al genere e nel giro di pochi anni erano uscite diverse hit, da You’re The First, The Last, My Everything (1974) di Barry White, a Love To Love You Baby (1975) e I Feel Love (1977) di Donna Summer, fino a I Will Survive (1978) di Gloria Gaynor. Dietro molte di queste canzoni c’è la mente dell’altoatesino Giorgio Moroder che, nonostante fosse tra le più geniali menti musicali dell’epoca, nel nostro Paese era praticamente uno sconosciuto. Nell’Italia delle canzonette sanremesi e del cantautorato impegnato, la musica da discoteca in un primo momento non aveva preso piede, con la sola eccezione di Barry White. Nell’ultimo lustro degli anni Settanta, a dominare le classifiche italiane erano ancora artisti come Mina, Domenico Modugno, Lucio Battisti, Claudio Baglioni o Umberto Tozzi. Come scrivono Andrea Angeli Bufalini e Giovanni Savastano in La storia della disco music, a cambiare le cose fu proprio l’uscita del film La febbre del sabato sera, che sbancò il botteghino e le classifiche: alla fine dell’anno, Stayin’ Alive era al primo posto dei singoli più venduti in Italia, superando Una donna per amico di Battisti, e altre due canzoni dei Bee Gees erano fra le prime cinquanta, insieme a diversi brani tratti dal musical Grease, con protagonista sempre John Travolta.

La febbre del sabato sera (1978)

Le vicende di Tony Manero sul dancefloor e il fenomeno del “travoltismo” non impattarono soltanto sul panorama musicale italiano, ma innescarono una serie di proteste e prese di posizione molto feroci da parte di politici e intellettuali di primo piano. Anche negli Stati Uniti c’era un certo risentimento nei confronti della disco music, considerata responsabile del declino del rock: il 12 luglio 1979, su iniziativa del conduttore radiofonico Steve Dahl ingaggiato dalla squadra di baseball dei White Sox, migliaia di persone si radunarono allo stadio di Comiskey Park di Chicago, dove una cassa piena di dischi venne fatta esplodere nell’intervallo di una partita, causando scontri e disordini. L’obiettivo polemico di Dahl non era soltanto la disco in sé – che a suo dire gli aveva fatto perdere il posto in una radio rock – ma anche la cultura che questa promuoveva, considerata troppo vicina alla comunità gay e alle minoranze etniche. In Italia la contestazione contro le discoteche arrivava non solo dagli amanti della musica o dalla destra democristiana e bacchettona, ma anche dalla sinistra, che vedeva nella gioia della danza l’anticamera del disimpegno politico.

Steve Dahl, Chicago, 12 luglio 1979

Il Pci aveva alle spalle una lunga storia di diffidenza nei confronti della cultura pop. In particolare, gli intellettuali e i politici comunisti rifuggivano tutte le forme di massificazione della cultura, segnate a loro dire dall’intorpidimento intellettuale. Per Togliatti, “l’uomo che riduce tutta la sua vita libera, giorno per giorno, a quello schermo [della televisione] e a quell’altoparlante [della radio], non è più un uomo libero”. La musica, così come ogni altra forma di evasione e di piacere, era vista come una distrazione borghese, pregiudizio che si intensificò soprattutto con la disco music, i cui testi erano incentrati sulla sensualità, il divertimento, l’edonismo fine a se stesso. Il giornalista Giaime Pintor, figlio di Luigi Pintor e vicino ai gruppi della sinistra extraparlamentare, sulle pagine di Linus descriveva gli avventori della discoteca come dei “trentenni con pancetta che si sbracciano e sgambettano mal imitando John Travolta, ‘travolti’ dalla crisi di rigetto del presente. Tanti piccolo-borghesi che si scatenano, piccoli mister Hyde del ballo sconnesso”. Per Il Manifesto, invece, la disco music era una forma di propaganda atlantista e La febbre del sabato sera “l’ultima astuzia delle multinazionali”, accostata alle religioni e alla droga come oppio dei popoli.

Palmiro Togliatti

Su ogni pubblicazione di sinistra, dai fogli di partito ai quotidiani nazionali, la condanna al clubbing e ai suoi avventori era senza appello: i discotecari erano ora “borghesi annoiati” ora “fascisti”. Come scrivono Bufalini e Savastano nel loro libro, la contestazione da sinistra alla disco music assumeva anche una particolare connotazione omofoba in anni in cui sia il partito comunista che la maggior parte della sinistra extraparlamentare manteneva una linea ostile nei confronti delle rivendicazioni omosessuali. Per esempio, nella prefazione al libro Disco Music (guida ragionata ai piaceri del sabato sera), pubblicato nel 1979, Enrico Ruggeri, critico rispetto ad alcune posizioni omofobe della sinistra dell’epoca, ironizzava su quanto fosse facile trovarsi avvinghiati sulla pista “a un impiegato di banca in stivali e hot pant” anziché a una bella ragazza. Quando nel 1978 il Fuori! (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano) di Torino si aggiudicò la gestione di una discoteca in città, dalle pagine di Lotta Continua si accusava il gruppo di aver tradito la rivoluzione perché aveva deciso di trasmettere musica disco anziché rock, considerato l’unico genere che era possibile cooptare con valori marxisti.

Il ballo, attività frivola e disimpegnata, veniva ideologicamente distinto dalla danza, arte degna e popolare, come si faceva notare sulle pagine della rivista femminista Effe nel 1979. Ma in fondo, il successo dei sofisticati corsi di danza contemporanea e delle hit dei Bee Gees sulla pista da ballo – scrivevano le autrici – rispondevano allo stesso bisogno, alla stessa “realtà di desiderio […], all’emergenza di un bisogno di liberazione, di scarica, di riappropriazione di modalità di relazione interpersonale non mediate dal linguaggio, dall’analisi”. Anche ciò che raccontava il tanto vituperato Saturday Night Fever non era altro che la storia di riabilitazione e liberazione di un proletario oppresso. Come disse Lucio Dalla, “il mondo che appariva nel film di Travolta era interessante almeno quanto la fabbrica. C’erano emarginati veri”. Ed emarginati spesso erano anche gli avventori delle discoteche, ben diversi dall’immagine che veniva descritta dagli intellettuali di sinistra come di borghesi ricchi e annoiati: per la maggior parte delle persone, l’appuntamento al club era un modo per sfuggire all’alienazione del lavoro, per divertirsi, per esprimere se stessi.

Non c’è dubbio che dopo il 1977 l’Italia sia scivolata nell’era del disimpegno e del riflusso. Ma il fatto che questa data sia corrisposta all’esplosione della disco music e che, anziché interrogarsi sulle proprie responsabilità, i partiti e i movimenti di sinistra abbiano incolpato un genere musicale e chi lo ascoltava sembra anticipare tante pseudo analisi politiche del presente. Anziché cercare di comprendere le ragioni del successo della discoteca, si preferì puntare il dito contro le masse, e in particolare contro i giovani, ritenuti incapaci di scegliere liberamente e per questo responsabili della degenerazione morale dell’intero Paese.

 “Domani la Storia non si permetterà (magari) di definire gli Anni Settanta come il decennio del terrorismo, della discoteca e del dibattito?”, si chiedeva Alberto Arbasino sul Corriere nel 1980. Oggi, all’appello manca il terrorismo – per fortuna –, ma anche il dibattito. E pure la discoteca non si sente tanto bene.

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