In tempi di ristrettezze economiche l’italica arte di arrangiarsi e il buon senso dovrebbero spingere a puntare tutto su ciò che si ha in abbondanza: nel nostro caso, i beni culturali. Con il primato internazionale per numero di siti dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità (54 in totale, di cui 49 a carattere culturale e 5 naturale) e una posizione geografica che fin dall’antichità l’ha arricchita di storia e arte, l’Italia è la culla di un valore inestimabile in termini culturali. Ma potenzialmente anche economici: secondo il report Io sono cultura 2018 della Fondazione Symbola con Unioncamere e Regione Marche, ogni euro prodotto dalla cultura in Italia ne genera 1,8 in altri settori. Per potenziare questo meccanismo servono adeguate strutture di qualità, per attirare turismo culturale a tutto tondo con un’offerta solida e variegata, affinché la ricchezza generata da un bene torni al territorio. L’Italia non può limitarsi a essere la sede passiva di tante meraviglie: i beni culturali necessitano di tutela, conservazione e valorizzazione tramite interventi diretti, come il restauro e la manutenzione, e interventi indiretti, come l’approfondimento e la diffusione della conoscenza di un’opera o di un sito e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Innanzitutto bisogna tutelare e conservare i siti archeologici e i beni artistici, antichi e spesso localizzati in zone geologicamente a rischio. A seguito della crisi economica del 2008, il nostro Paese è tra quelli che in Europa hanno investito meno nel settore culturale: secondo un rapporto del Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economia “La riduzione di tale variabile in percentuale del Pil tra il 2009 e il 2011 in Italia è stata del -33,3 per cento medio annuo”. Per rendere un’idea, la Grecia investita dalla crisi economica, ha tagliato in media “solo” il 14,3% all’anno. Un controsenso, come si evince indirettamente dal fatto che l’Europa riconosce l’importanza del patrimonio culturale come risorsa “per la crescita economica, l’occupazione e la coesione sociale, con il suo potenziale di rivitalizzazione delle aree urbane e rurali e di promuovere un turismo sostenibile”. La colpa non è (solo) della crisi: come ha fatto notare qualche anno fa l’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis “I Paesi che spendono in cultura molto più dell’Italia hanno molta meno evasione fiscale […]. La lotta all’evasione fiscale è preliminare a qualsiasi politica della spesa pubblica degna di questo nome”. D’altronde la fruizione dei beni comuni è un diritto dei cittadini, che, come vale per altri servizi, dovrebbero accedervi in cambio del pagamento delle tasse.
Nonostante gli scarsi investimenti da parte del settore pubblico, i dati del turismo in Italia sono più che positivi: gli arrivi dei turisti internazionali sono in crescita e il nostro Paese è quinto nella classifica mondiale delle mete più gettonate. I musei, tra pubblici (circa il 63%) e privati, sono poco meno di 5mila, e di questi oltre il 70% ha sede in un edificio di interesse storico o artistico. I visitatori di musei, monumenti e aree archeologiche statali sono aumentati di oltre il 7% nel 2017 rispetto al 2015. Queste cifre potrebbero crescere ancora, per esempio adeguando il materiale informativo presente nei musei e la formazione del personale, che oggi è in grado di fornire al pubblico di turisti stranieri informazioni in inglese nel 60% dei casi, ma solo nel 31% circa in lingua francese, nel 13,5% in tedesco e meno dell’1% in arabo, cinese e giapponese.
C’è chi sostiene che si dovrebbero incrementare gli introiti sugli ingressi: meno della metà dei musei e siti italiani, infatti, prevede il biglietto a pagamento. Eppure la National Gallery e la Tate Modern di Londra fanno pagare solo le mostre temporanee (con sconto sulle prenotazioni online); il Prado di Madrid è gratuito in alcune fasce orarie, mentre a Parigi lo sono la maggioranza dei musei e monumenti (Louvre e Pantheon compresi) per i cittadini comunitari con meno di 26 anni: in questo modo lo Stato incoraggia e rende possibile l’accesso alla cultura da parte dei giovani, permettendo inoltre ai musei di essere luoghi di incontro e vivi. In Italia la campagna Io vado al museo prevede venti giorni all’anno in cui i musei sono gratis e un ticket annuale di 2 euro per i giovani tra i 18 e i 25 anni. Nel Regno Unito – dove pure si è discusso sulla possibilità di ridurre gli ingressi gratuiti al museo – è stato calcolato che per ogni sterlina ricevuta in sussidi statali, i musei nazionali ne fanno guadagnare 3,5. Secondo una stima, in Europa nel 20% dei casi le persone non accedono alle attività culturali per scarse possibilità economiche. Aumentare i prezzi di biglietti nei musei non farebbe altro che aggravare questa percentuale.
Un’altra debolezza del settore in Italia è la mancanza di impiegati nel settore: secondo i dati Eurostat l’Italia è al 19esimo posto su 28 per la percentuale di persone impegnate nei settori legati alla cultura, contando anche le mansioni non strettamente culturali. Nel 2018 la percentuale corrispondeva al 3,4% degli occupati totali e di questi meno del 50% era in possesso di una laurea. Se si considerano solo gli impiegati nel settore sotto i 29 anni, l’Italia si piazza al 26esimo posto: stando ai dati del ministero dei Beni culturali, l’età media nel 2015 dei suoi dipendenti era di 54,68 anni e di 57,37 anni per i dirigenti, di cui molti prossimi alla pensione, con un tasso di assunzione degli ultimi tre anni attestato nel 2017 allo 0,013%. Il ministro Alberto Bonisoli ha promesso la copertura di 3.600 posizioni in tre anni, da potenziare, eventualmente, a seguito dei calcoli sugli effetti dalla cosiddetta Quota Cento.
Molte realtà sopravvivono grazie al lavoro dei volontari: se ne trovano in quasi la metà degli istituti museali italiani. Ma l’impegno dei soci del Fai (Fondo Ambiente Italiano) o del Touring Club italiano può – e non è una colpa – non essere allo stesso livello del lavoro professionale di guide turistiche specializzate e studiosi di belle arti; in certi casi, si tratta di giovani laureati del settore che, in mancanza di opportunità lavorative, si fanno le ossa proprio con il volontariato. Questa realtà pone dei dubbi sull’etica di uno Stato che sostituisce il lavoro, formato e retribuito, con la buona volontà degli appassionati – che può essere una grande risorsa, ma non l’alternativa – derogando così ai suoi compiti di rendere fruibili i beni comuni ai cittadini che pagano le tasse, facendo passare il concetto che l’accesso alla cultura sia un lusso da riservare alle occasioni speciali e non un diritto quotidiano di tutti. Le donazioni dei cittadini al Fai rendono possibile la conservazione e l’apertura al pubblico di monumenti e luoghi di cultura che nel resto dell’anno restano chiusi: nel 2017 una trentina tra musei e siti archeologici statali risultavano parzialmente chiusi, di cui alcuni per la maggior parte dell’anno, e più di dieci per tutto l’anno. Inoltre, il 35,6% dei musei espone meno della metà delle sue collezioni e quelli che possiedono oltre 50mila pezzi hanno i mezzi per esporne in media l’8%, con rare rotazioni dei beni esposti.
Un altro punto debole del sistema culturale italiano sono le infrastrutture obsolete. Dalle poche didascalie in braille (in un quinto dei musei sono presenti materiali e supporti informativi specifici, come percorsi tattili o pannelli per i non vedenti ) alle chiusure per incuria, arrivando ai periodici crolli negli scavi di Pompei e Ercolano (che pure è tra i siti più visitati in Italia), sono molti i modi in cui non viene garantito l’accesso a siti archeologici, musei e luoghi di cultura. Davanti alle immagini della cattedrale di Notre-Dame in fiamme, mette i brividi pensare che, secondo i dati Istat del 2015, solo il 17% dei musei italiani ha dichiarato di aver avuto adeguamenti sismici, il 30,7% di essere stato inserito nel piano di protezione civile comunale, mentre il 34,8% non è dotato di un piano di sicurezza e di emergenza.
Il Paese più ricco di beni culturali al mondo, di cui non garantisce pienamente la fruibilità, deve superare la convinzione che vede la cultura come un lusso, da riservare ai periodi di prosperità economica: gli investimenti ripagano in benessere, sul piano culturale come su quello economico. Comunicazione, digitalizzazione (con nuovi siti web e supporti informatici e interattivi per la visita al museo), burocrazia più efficente e competitività internazionale nel turismo sono tra gli strumenti su cui puntare. Queste iniziative sono una priorità governativa già dal 2013, ma per il momento solo sulla carta. A questo si aggiunge il fatto che solo il 32% dei musei italiani (e solo il 19,9% di quelli con meno di mille ingressi annui) usufruisce di contributi pubblici. Si aspettano i risultati concreti delle promesse sulla legge di bilancio 2019, in cui gli stanziamenti per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali sono più dello scorso anno e comprendono, tra le altre cose, quattro milioni per la digitalizzazione del patrimonio culturale, un milione per la riqualificazione e valorizzazione dei patrimoni Unesco materiali e immateriali, due milioni per iniziative legate a Matera Capitale Europea della Cultura 2019, tre milioni per Parma Capitale Italiana della Cultura 2020 e nuove diposizioni in materia di prevenzione incendi in istituti e luoghi di cultura. È poi confermato il “bonus cultura” – nonostante lo scetticismo del ministro Bonisoli – per i neomaggiorenni, su cui c’è un dato indicativo: nel 2018 meno dell’1% del bonus è stato speso in visite a monumenti e musei (il dato positivo, comunque, è che è stato speso prevalentemente in libreria).
Se l’Europa ritiene che la partecipazione culturale abbia “un impatto significativo sulla qualità della vita delle persone, contribuisca largamente al loro benessere e le aiuti a integrarsi nella società”, lo Stato italiano dovrebbe iniziare a preoccuparsi seriamente di fronte al dato per cui in oltre il 30% dei casi il motivo della mancata partecipazione degli italiani alle attività culturali, dal cinema ai musei e siti archeologici, sia dovuta alla “mancanza di interesse”.