Avrebbe compiuto settantuno anni il prossimo 17 ottobre e chissà quante cose sarebbe ancora stato capace di produrre Philippe Daverio, personaggio poliedrico e ultimo divulgatore dell’arte in tv, venuto a mancare ieri. Inconfondibile nella sua mise “clownesca”, come l’aveva definita lui stesso in un’intervista, originale e abile comunicatore, ha attraversato il mondo dell’arte come uno dei suoi più efficaci messaggeri.
Nato nel 1949 a Mulhouse-Mülhausen, in Alsazia, Daverio frequentò l’Università Bocconi senza mai laurearsi e si impegnò coi suoi studi e con le gallerie omonime, due a Milano e una a New York, a rilanciare l’arte del Novecento a livello internazionale. Docente di storia e mercati dell’arte in diverse città, dal 1993 al 1997 fu assessore alla cultura a Milano nella prima giunta leghista di Marco Formentini, nomina che destò inizialmente molto scandalo e che anni dopo Daverio commentò affermando: “Non sono io ad aver sposato le idee leghiste. Era la Lega ad aver sposato idee daveriane”. Rimase poi molto legato alla città anche grazie ai compiti non poco facili di cui si occupò durante il suo mandato: la ricostruzione del Padiglione d’arte contemporanea, distrutto da una bomba, il difficile rapporto col Piccolo Teatro di Giorgio Strehler a causa di alcuni ritardi, la ristrutturazione di Palazzo Reale, che trasformò in un museo, e l’apertura della Sala delle Cariatidi.
Daverio amava definirsi uno storico dell’arte, anche se, pur avendo una vasta cultura, propriamente non lo è mai stato, e in più di un’occasione si è descritto come “un antropologo culturale del pettegolezzo” per quella sua capacità di ricercare “i rumori che stanno negli edifici, i bisbigli che stanno nei dipinti, i sussurri fra le righe di una poesia e i silenzi fra le note di una musica”. Interessato al mondo dei santi, con cui intendeva l’insieme di esseri umani – poeti, pittori, filosofi – il cui operato riverbera nell’attuale, era convinto che chiunque avesse il diritto di avvicinarsi all’arte così come aveva fatto lui, senza per forza avere pezzi di carta che attestassero le sue conoscenze.
Proprio con questo spirito, nel 1999 si presentò per la prima volta al pubblico televisivo di Rai 3, all’inizio come inviato speciale di Art’è, poi come conduttore di Art.tù. Dal 2002 al 2012, scrisse e condusse poi Passepartout, una striscia dedicata all’arte e alla cultura in onda ogni domenica dalle 13:20 alle 13:50. Con i suoi inconfondibili occhiali dalla montatura tonda, l’accento alsaziano e il caratteristico farfallino, Daverio ha ci ha accompagnati alla scoperta del nostro stesso patrimonio culturale, cambiando radicalmente il modo di fare divulgazione culturale. Già dai primi anni Novanta la Rai cercò di allineare i propri contenuti a quelli proposti da Mediaset, assimilandone i modelli produttivi e iniziando quel processo di omologazione ormai imperante. Sul terzo canale però, ci furono tentativi di innovare i linguaggi e i generi, con esperimenti di programmi di pubblica utilità e satira politica.
Ogni settimana Passepartout indagava un tema preciso, scelto a partire dalla vasta ricchezza artistica dell’Italia o collegandosi a notizie di cronaca e mostre in corso. Il dadaismo, le cattedrali, l’arte contemporanea: tutto. Un programma il cui pregio stava nello stile diretto e non accademico – ma non per questo meno stimolante o banale, anzi – con cui lo storico dell’arte raccontava dipinti, sculture e monumenti, cogliendone con una veloce occhiata la storia, il contesto e le intenzioni che celavano. La colonna sonora che accompagnava le sue parole e le grafiche del regista Mauro Raponi, contribuivano poi a sostenere il suo personaggio, la striscia gli veniva cucita addosso alla perfezione, enfatizzandone l’aura di narratore con i tipici primi piani.
Invece di perdersi in inutili equilibrismi intellettuali, Daverio era capace di condividere immagini potenti, che germogliavano nella nostre mente producendone altre, inedite e inaspettate. Aveva l’abilità di concentrare in ogni puntata analisi storiche e artistiche, dettagli poco conosciuti e di arricchirli con tutto ciò che nei secoli vi era gravitato attorno, come leggende, aneddoti o letture alternative. “Ciò che facevamo noi era un po’ diverso perché noi facevamo ricerca e portavamo i nostri telespettatori in un’operazione in cui loro stessi diventavano ricercatori, dove si aprivano delle porticine chiuse e ci si rivolgeva alla loro curiosità”, spiegava Daverio, parlando degli altri divulgatori più famosi della televisione, il duo Piero e Alberto Angela. “Avevo messo per anni dietro di me una scritta cancellata, che sembrava un’opera di un’artista invece non lo era, sulla quale rimaneva solo una frase: ‘devo insegnare ai curiosi’. Era il tentativo di tirare su il livello del telespettatore e non giù il livello della comunicazione”. La sua capacità retorica, scherzava, nasceva dall’esperienza nel consiglio di Milano, dove l’aveva affinata per riuscire a catturare e mantenere alta l’attenzione.
Con Passepartout veniva recuperava la funzione della televisione come mezzo educativo, utilizzandolo per la diffusione di una cultura capace di risvegliare lo spirito e l’interesse civico. Mescolando tempi didattici e mercantili, lo schermo faceva perdere all’arte quella sua aura elitaria, trasformandola in parte integrante della quotidianità degli spettatori, arricchendoli in maniera democratica. Daverio promuoveva instancabilmente “lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” e la tutela “del paesaggio e del patrimonio storico e artistico”, con l’intenzione di tramandare per valorizzare, oltre che per conservare. Sosteneva infatti che la spiegazione della necessità di guardare il Novecento attraverso l’arte fosse sintetizzata nella frase “Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”, incisa in trenta lingue sul monumento nel campo di concentramento di Dachau. In questa visione, l’arte permette di avere contezza del mondo e dei suoi fenomeni, di produrre conoscenza e di cogliere i parametri culturali necessari per capire l’altro da sé. L’accumulazione di sapere diventa quindi origine della solidarietà.
Daverio sognava un’Europa “nella quale le opportunità per tutti fossero paritetiche e le culture storiche rispettate ed esaltate. La forza di oltre quattrocento milioni di cittadini comuni proprio in questo consiste”, come asseriva nel manifesto di Save Italy, il movimento fondato per sensibilizzare all’adozione di azioni concrete per la tutela e la valorizzazione dell’immensa eredità artistica del nostro Paese. “La loro sicurezza e la loro prosperità non possono che essere il risultato d’un cammino comune”.
Nel settembre 2011, dopo una sentenza della Cassazione del 2009 che obbligava alla Rai il riordino della gestione dei programmi, affinché fossero realizzati con operatori interni al servizio pubblico, Passepartout venne chiuso per motivi burocratici. Nonostante fosse già terminata la produzione della nuova stagione (che avrebbe mostrato agli italiani anche uno spaccato della Cina, di cui sapevano poco o niente), la trasmissione fu eliminata dal palinsesto, probabilmente per mancanza di fondi. Prodotto fino ad allora dalla Vittoria Cappelli Produzione, se internalizzato sarebbe risultato troppo costoso e fuori dai parametri richiesti. “È improvvisamente mancato Passepartout, nel pieno della sua salute. Lo compiangono la redazione tutta e centinaia di migliaia di affezionati suoi seguaci”, scrisse Daverio in un ironico elogio funebre per spiegare le sorti che gli erano toccate.
Lo storico dell’arte passò poi a Il Capitale e a Emporio Daverio su Rai 5, con cui proponeva un viaggio artistico culturale attraverso varie città italiane, e si dedicò alla professione di docente e scrittore, con numerosi bestseller pubblicati e collaborazioni con le grandi testate giornalistiche italiane. Fu anche direttore del mensile Art e Dossier, ma la chiusura di Passepartout segnò la fine di una delle trasmissioni più importanti della televisione italiana. In una programmazione fatta di reality, giochi a premi e fiction, la striscia domenicale era stata capace di superare gli schemi tradizionali di divulgazione e di fare della curiosità il più importante strumento con cui navigare il mondo. Daverio era riuscito a insegnarci che a guardare la vita e l’arte dalle prospettive più strane e segrete, quelle lontane dalle idee già formate e accettate, si possono vedere cose incredibili, capaci di farci cambiare e di cambiare il mondo.