Quando Pier Paolo Pasolini pubblica Teorema, l’Italia, accodandosi al resto del mondo, è impegnata a gridare nelle piazze, a sovvertire lo status quo e a fare le sue rivoluzioni. È il 1968: la radio passa Janis Joplin e Orietta Berti, le trincee di lotta sono sparse per tutto il Paese e il popolo vede all’orizzonte i miraggi di un cambiamento epocale, mentre i padri del capitalismo stanno per invadere la scena economica, politica e sociale. In questo disordine veloce e caotico, Pasolini sente la necessità di fermarsi e analizzare con sguardo disincantato ma dall’interno gli effetti di quella trasformazione generale nata dal miracolo del boom economico.
Teorema è un’opera controversa, che conferma il modus operandi del suo autore ostinatamente controcorrente e orgogliosamente anticonformista – quando l’anticonformismo non andava ancora di moda. Non è un romanzo, nemmeno un racconto, né la sceneggiatura dell’omonimo film che uscirà in quello stesso anno. “È quello che nelle scienze si chiama ‘referto’”, scrive lo stesso autore nella prima parte del libro, ovvero uno scritto dallo stile essenziale e scarno, che ha come scopo la diffusione di un teorema, appunto. Data una tradizionale famiglia borghese, a contatto con un elemento X, divino e misterioso, quest’ultimo modifica in maniera irreversibile i connotati di ogni suo componente, i quali si distruggono assumendo una nuova forma. L’elemento X è un Ospite dalla bellezza sensuale e ambigua, e non è altro che la personificazione dell’idea del sacro, intesa come Caos primigenio, l’irrazionale, ciò che sfugge al calcolo. La sua missione è distruggere l’idea che ogni componente della famiglia ha di sé, rivelando allo stesso tempo, tutta l’illusione materialista sulla quale si fonda la propria inutile vita.
Il padre Paolo, la madre Lucia e i figli, Odetta e Pietro, sono personaggi rigidi, dall’animo infiacchito, che colmano con ostinazione il loro vuoto esistenziale con soluzioni effimere: ricercano il potere, curano la bellezza, si fanno scudo di un umorismo amaro e sono deboli, spenti, vigliacchi. “Si tratta di una famiglia piccolo borghese, piccolo borghese in senso ideologico, non in senso economico”, ci tiene a precisare Pasolini. Ma quando l’Ospite giunge per turbare le loro esistenze, annunciando il suo arrivo con un telegramma e stabilendosi in casa per un periodo di tempo imprecisato, nessuno resiste al suo potere magnetico. Ognuno cade in un vortice confuso e onirico. Diventano tutti vittima di una frenesia nevrotica e allucinata, un’ansia affannosa che può solo consumarsi attraverso un rapporto sessuale con l’Ospite. Il sesso è il solo linguaggio possibile tra due parti così diverse tra loro. Ciò che ne deriva però non è un senso di appagamento, non c’è nessuna soddisfazione, nessuna apoteosi. Con l’atto sessuale, l’Ospite distrugge definitivamente quel Velo di Maya con cui si imbelletta la cultura della classe borghese: i personaggi prendono coscienza dell’involucro materiale e ipocrita con cui rattoppano le loro vite, scoprendosi distrutti di fronte a un vuoto abissale, finalmente rivelato. Riuscito nel suo intento, l’Ospite lascia la famiglia nella desolazione più totale e tutti i personaggi si avviano verso un destino tragico: il tilt da lui provocato non ammette reversibilità e di conseguenza, ritornare a uno stato di apparente normalità è impossibile.
Il potere di Teorema non sta tanto nella vicenda in sé, ma nel suo valore simbolico, come in tutta la poetica di PPP. È l’atto di denuncia con cui l’autore vuole mostrare il degrado sociale e antropologico causato dalla classe borghese: il capitalismo e il mito del progresso sono diventati le sue nuove divinità e le preghiere con cui cerca salvezza sono il motore della macchina del consumo. La sua freddezza calcolatrice e iper-razionale sta distruggendo il sentimento primordiale e indecifrabile che l’umanità ha sempre provato di fronte all’assoluto, quel senso di meraviglia, terribile e splendido insieme, che nasce davanti a ciò che è incomprensibile. Pasolini lo chiama “genocidio culturale”.
La ricerca di denaro, lo sviluppo tecnico-scientifico, l’industrializzazione massiccia – la tecnocrazia, in sostanza – distruggono la cultura arcaica e contadina, quella saggezza dal sapore preistorico e senza tempo, traboccante di misticismo e primordiale sacralità. Non a caso, l’unica nota positiva in tutto Teorema è il personaggio di Emilia, la serva, lontana dalla logica borghese e figlia di quel mondo contadino che viene risucchiato a vista d’occhio. Secondo l’intellettuale, sta scomparendo un’umanità consapevole del fatto che alla base della propria esistenza risieda un mistero ultimo che sfugge alla ragione. Si tratta di un cambiamento dalla portata devastante, le cui conseguenze sono ben tratteggiate nella famiglia borghese al centro del teorema: apatica e inebetita, incapace di emozionarsi, che trascina la propria esistenza fiaccamente, riempiendola di oggetti inutili ottenuti grazie al denaro. Per queste ragioni l’Ospite vuole distruggere la borghesia attraverso ciò che la stessa borghesia sta annientando.
Teorema è anche una sfida nei confronti dall’universo artistico e intellettuale dell’epoca e sembra essere ancora attuale. Intervistato da Jean Duflot, Pasolini afferma: “Io sono sempre più scandalizzato dall’assenza di senso del sacro nei miei contemporanei”. Il vero problema, quindi, è proprio la mancata percezione dell’assenza del mistero nel mondo contemporaneo, la carenza di meraviglia e immaginazione, e questo, nell’ottica dell’autore, è visto come una malattia sociale. Il lamento di Pasolini si basa sull’analisi dell’idea di progresso e di ciò che esso causa: il nuovo rapporto tra l’uomo e la Natura; la minaccia di una globalizzazione che annienta ogni differenza positiva; l’alienazione come unica risposta alla macchina della produzione. La domanda che si pone l’autore è la stessa posta da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo. Fin dalle prime pagine, i due filosofi, reduci dal nazismo, si chiedono perché all’avanzare del progresso tecnico-scientifico si assiste a un evidente regresso etico-morale.
Se i lumi della ragione hanno come scopo quello di salvare l’essere umano dalla paura aprendo le porte a un progresso potenzialmente infinito, il dominio sulla natura e lo sfruttamento dell’uomo sono solo alcune delle immediate conseguenze negative. Sia chiaro, Pasolini non contesta gli effettivi miglioramenti delle condizioni di vita – possibili solo grazie al progresso – cosa per cui è stato spesso criticato; ciò che non riesce ad accettare è il suo prezzo, quel conformismo generalizzato che cancella le differenze antropologiche e ci rende schiavi con un’insoddisfazione perenne.
Il momento storico in cui Pasolini scrive Teorema è quello in cui il mondo che l’autore vorrebbe salvare ancora resiste, seppure a fatica, ma oggi – con la rivoluzione tecnologica – quel mondo sembra sempre più lontano e irraggiungibile. Egli sente la necessità di parlarne perché si accorge che il cambiamento non è destinato a fermarsi, ma viaggia con una velocità crescente. Ciò che denuncia è solo l’inizio di una trasformazione radicale in cui oggi riusciamo a cogliere i risultati più complessi. Nella guerra tra quei due mondi, si può comprendere solo adesso che la vittoria della tecnocrazia ha sbaragliato ogni possibile resistenza e, di conseguenza, Teorema sembra essere rivolto proprio al nostro presente, a questo terzo millennio “illuminato”. Comprendere il senso di rabbia di Pasolini nei confronti della modernità non significa abbracciare a tutti i costi rituali ormai sorpassati legati a religioni più o meno dogmatiche, ma coltivare dentro di sé un profondo senso di sacro e di gratitudine nei confronti dell’esistente. In un’intervista a Louis Valentin, egli dice: “Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza, con un appetito insaziabile”.
L’eretico, lo scandaloso, l’intellettuale eccentrico insegna a nutrirsi di profondità, a cercare la bellezza e dilatare la qualità del tempo, più che la quantità, provando l’autenticità delle emozioni e l’intensità affettiva dei rapporti umani. “Bisogna aver ancora un caos dentro di sé per poter generare una stella danzante” non è solo la didascalia di selfie imbarazzanti scattati in bagno e postati su Instagram, ma è il desiderio – alla base del pensiero di Nietzsche in Così parlò Zarathustra – di amare ogni singola scintilla dell’esistenza, ogni respiro di vita. È proprio a questo Caos che si riferisce Pasolini: riconoscerne la sua esistenza, interfacciarsi al mistero dell’incomprensibile – a questo nostro Ospite – ci sorregge dal vuoto e ci aiuta a superare il Teorema.
Questo pezzo è stato pubblicato la prima volta il 17/12/2018.