Non permettetevi di usare Pasolini per assolvere Montanelli. È un paragone impossibile.

Tutti i personaggi pubblici si rendono prima o poi protagonisti di litigi, polemiche o brutte figure durante la loro carriera, non è una prerogativa solo di alcuni settori dell’intrattenimento né di una particolare categoria di celebrità, è umano. Ci sono però diversi modi di reagire alla figuraccia, allo scontro mediatico che si accende e ti catapulta dalla parte dell’errore: puoi fare un passo indietro e chiedere scusa, magari, o puoi arrampicarti sugli specchi tirando fuori argomentazioni che distolgano l’attenzione dal tema principale, tecnica retorica piuttosto semplice conosciuta anche come benaltrismo, il famoso “E allora il Pd?”. Questo tipo di scappatoia è talmente gettonata nel dibattito pubblico di oggi – basti pensare al recente esempio di Salvini ospite da Floris – da essere stata utilizzata anche per una polemica vecchia di decenni che è tornata in auge di recente, ossia quella che riguarda la statua di Indro Montanelli e l’automatismo che genera qualsiasi presa di posizione contro il giornalista: “E allora Pasolini?”.

Prima di entrare nel vivo della questione Pasolini contro Montanelli, usati come fossero due bandiere da sventolare in uno scontro dialettico per decretare chi merita la medaglia d’oro da intellettuale del Novecento italiano, credo sia il caso di fare un po’ di chiarezza sul concetto stesso di benaltrismo e sui suoi fidi sostenitori. Sarebbe infatti sano per l’intera società in cui viviamo se, superata l’età delle divisioni in colonna – unico momento della vita in cui è concesso ragionare in questi termini – questa sorta di gioco di prestigio logico molto elementare decadesse, così come l’uso della penna cancellina. Nella realtà, però, il benaltrismo costituisce spesso la chiave argomentativa di politici che ricoprono cariche tutt’altro che secondarie. Donald Trump lo utilizza volentieri, per esempio. Non c’è motivo per cui si dovrebbe rispondere a una domanda facendo un’altra domanda se non per rivelare la propria impreparazione sul tema o l’esigenza di evadere dal quesito, ed è la stessa identica cosa che è successa nel momento in cui si è tornati a parlare del passato problematico di Indro Montanelli in relazione a ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti con le proteste del movimento Black Lives Matter. In più stiamo parlando anche di due monumenti completamente diversi: per Montanelli, di una statua celebrativa nel centro di Milano, per Pasolini una stele commemorativa nel luogo in cui è stato ucciso.

Pier Paolo Pasolini è infatti il soggetto preferito da tirare in ballo nel momento in cui si riaccendono le polemiche sulla statua di Montanelli o in generale sulla vita di questo giornalista che, per quanto piena di punti oscuri e buchi di sceneggiatura, sembra un perfetto concentrato di italianità: se nel caso del primo la vita personale diventa un’arma da tirare fuori quando torna utile, nel secondo invece, per qualche oscura ragione, si trasforma in un dato prettamente secondario. Montanelli è il simbolo di un secolo in tutte le sue fasi schizofreniche e contraddittorie, è stato fascista ma anche antifascista, è stato con Berlusconi ma anche contro Berlusconi, è stato borghese ma anche anti-borghese – ospite da Arbasino sosteneva che il suo giornale fosse per il popolo, per la gente semplice, mica per gli intellettuali – e soprattutto, perfettamente in linea con il modo che abbiamo in Italia di affrontare il tema del colonialismo, è stato un valoroso “civilizzatore di neri” ma anche un mite benefattore che ha sposato una bambina di dodici anni per usanza dei tempi, nello specifico il madamato, non perché pedofilo o schiavista. Indro Montanelli, nella sua lunga e articolata vita all’insegna dell’avventura novecentesca, ha raccontato tanto di sé e della storia italiana, e lo ha fatto sempre in modo molto personale. Così personale da essere diventato un esempio di scrittura brillante e unica, ma anche di auto-fiction e inesattezze storiche.

Non è infatti verificato, se non tramite i suoi racconti postumi, che questa bambina africana di dodici anni – o quattordici, dipende dal racconto –  sia esistita davvero e che una volta rivisto il giornalista anni dopo lo abbia chiamato affettuosamente “Papà!”. Non è chiaro se si chiamasse Destà o Fatima, così come non è chiara la storia raccontata da Montanelli sulla sua intervista a Hitler fatta dopo aver urinato dietro a un cespuglio in piena guerra mondiale; ma oltre alla questione fake news ante litteram diffuse da Montanelli, quando si chiamavano semplicemente balle – cosa non proprio allineata con il codice deontologico dei giornalisti – ci sono diversi dettagli della sua biografia che lo collegano a movimenti terroristici anti-comunisti sponsorizzati dagli americani. Montanelli non ha mai nemmeno avuto timore di esporre la sua vicinanza al generale nazista Priebke, concludendo una missiva al criminale di guerra con parole come “Auguri signor Capitano”. Per non parlare della sua finta carriera da partigiano antifascista e di tutti i suoi giochi di cerchiobottismo in bilico tra una corrente e un’altra, in base a dove convenisse di più al giornalista schierarsi. Insomma, nonostante esistano diversi punti piuttosto controversi sul personaggio, compreso quello della pedofilia sbandierata con orgoglio a più riprese fino a poco prima della morte – quindi nel 2000 e non nel 1936 quando era una “questione di contesto” – la sua figura continua a essere difesa a spada tratta senza mettere in discussione nemmeno per sbaglio l’aura di intoccabilità che lo avvolge, non solo come essere umano ma anche come giornalista, specialmente quando si parla della sua statua.

E qui entra in gioco Pasolini, dal momento che parlando delle controversie sessuali di Montanelli non si può certo non tenere conto di ciò che ha fatto un intellettuale che viene osannato nonostante fosse anche lui colpevole di pedofilia e di corruzione di minore. “Se togliamo la statua di Montanelli, perché lasciamo quella di Pasolini?” è la stessa piroetta logica che accompagna paragoni tra una statua di bronzo di un personaggio ottocentesco del quale probabilmente quasi nessuno conosce più il nome e il Colosseo: se tocchiamo i simboli del colonialismo allora dobbiamo anche abbattere quelli dei feroci giochi perversi con cui si intrattenevano i romani duemila anni fa. Sono abbastanza certa che se chi pensa queste cose si fermasse un attimo a riflettere sul fatto che imbrattare o rimuovere la statua di un colonialista o schiavista non equivale né legittima l’abbattimento di tutti i monumenti che esistono sulla Terra ma che è un’azione mirata a colpire uno specifico simbolo (e che è peraltro un’usanza vecchia di millenni), allo stesso modo potrebbe ricredersi sull’equivalenza Montanelli-Pasolini in termini di peccati morali per salvare il primo e screditare il secondo. Anche perché, e qui penso risieda il nodo centrale della questione, non è solo sui peccati morali che dovrebbe concentrarsi il dibattito, dal momento che è impossibile trovare una persona sulla Terra che non abbia mai commesso degli errori. Errori con diverse gradazioni di gravità, certo, ma pensare che tutti gli scrittori e le scrittrici, così come gli artisti e le artiste della storia dell’umanità, abbiano una biografia candida e priva di qualsiasi difetto morale è quanto meno demenziale. Giustificare i trascorsi biografici di un qualsiasi personaggio pubblico non aggiunge nulla all’eredità che questo ha lasciato, così come insabbiarli o fare finta non siano esistiti.

Il punto semmai è capire nel presente in che modo sono stati affrontati i “lati oscuri” della propria esistenza e quanto questi abbiano influenzato il loro valore artistico: se uno scrittore ha commesso un crimine che nel Settecento non era considerato tale è inutile pensare di metterlo in carcere nel 2020; allo stesso modo però, non è detto che certi idoli e miti del passato non siano semplicemente invecchiati male. Forse la prova per capire se un intellettuale sia effettivamente così degno di questo titolo è interrogarsi su quanto si discuta delle sue opere col passare degli anni e quanto della sua vita privata: nel caso di Montanelli, per esempio, è piuttosto raro sentire un’argomentazione in sua difesa che comprenda nello specifico una sua opera letteraria; e la storia all’università, come ha notato qualcuno, si studia su altri testi, non proprio sul suo Storia d’Italia.

Pier Paolo Pasolini ha vissuto la sua intera esistenza nel conflitto sociale e morale – stando agli standard etici del Novecento – che gli costava la sua omosessualità e il suo rapporto morboso, affezionato, problematico con i giovani del popolo che pagava per avere del sesso in cambio. Queste sue usanze gli sono costate la reputazione, la tessera del Pci, la dignità in molti casi e forse, secondo alcuni pareri, anche la vita, dal momento che la storia della sua morte è ancora avvolta nel mistero, nonostante venne assolto sia per quanto riguarda le oscenità dei suoi libri sia per alcune vicende che lo coinvolsero. Ma una cosa è certa, e chiunque abbia mai letto un romanzo come Ragazzi di vita può confermarlo: Pasolini, da grande scrittore quale era, ha incanalato tutto il tormento della diversità – in un’epoca in cui era additata come crimine – nella celebrazione di quei ragazzini poveri e disgraziati che popolavano le borgate da lui descritte. Nel modo in cui li ha raccontati, ultimi e dimenticati, Pasolini ha reso loro una dignità umana e artistica che probabilmente nessun altro sarebbe stato in grado di tirare fuori dal contesto orrendo in cui si ritrovavano, nonostante le controversie che riguardano il rapporto tra questi giovani romani e lo scrittore. Non si può leggere un romanzo di Pasolini o guardare un suo film senza notare la presenza di questo elemento estetico e narrativo che avvolge tutte le sue opere, e non si può nemmeno escludere la parte più torbida e moralmente condannabile. Ma il bianco e il nero del suo racconto, comprese le parti più basse e misere, compongono una dimensione eterna e incancellabile, molto più vivida e forte di quanto una qualsiasi statua celebrativa per un qualsiasi ragazzo di vita potrebbe essere. Possiamo cancellare ciò che ha fatto Pasolini di sbagliato nella sua vita? Certamente no, così come non possiamo farlo con nessun altro, nemmeno con noi stessi; e comunque non avrebbe senso. D’altro canto però, è disonesto e ridicolo mettere a paragone le esperienze di vita di due uomini completamente diversi solo perché hanno in comune un dettaglio puramente giuridico che li associa.

Indro Montanelli non si è mai assunto la responsabilità di un atto deprecabile come quello di sposare una bambina di dodici anni ma anzi, lo ha sempre rivendicato come cifra virile della sua personalità, senza aggiungere nulla a questo racconto se non l’arroganza di sapere di essere comunque nel giusto e di rivendicare un diritto alla prevaricazione. Pier Paolo Pasolini, così come tantissimi altri scrittori e scrittrici che hanno sublimato i loro errori e i loro difetti in arte, ha regalato al mondo un ritratto di una realtà che sarebbe rimasta taciuta se non ci fosse stato lui a raccontarla. Il fatto che oggi una generazione rifiuti il valore simbolico di Montanelli non ha molto a che vedere con un processo postumo al valore intellettuale di questo personaggio, ma piuttosto al ruolo storico irrisolto che rappresenta.

Il valore di Pasolini o di qualunque altro artista, uomo o donna che sia, non può essere determinato dal candore morale che incarna, dal momento che sarebbe ipocrita credere che i nostri idoli letterari, cinematografici o sportivi siano del tutto privi di qualsiasi vizio o incapaci di commettere crimini. Il compito dell’arte, da che mondo è mondo, è proprio quello di renderci comprensibile e visibile ciò che c’è di più sbagliato e assurdo nell’essere umano, altrimenti Euripide non avrebbe scritto nessuna Medea. Personalmente, non credo che i libri o i film o qualsiasi altro testo si fruisca in base al curriculum di chi lo ha scritto, così come credo che ci sia una grande differenza tra una semplice statua in un parco e un intero corpus letterario, giornalistico e televisivo che testimoni ciò che ha lasciato Indro Montanelli. Rimuovere una statua è un gesto simbolico, bruciare un libro è un gesto stupido, e questo vale sia per Montanelli che per Pasolini che per chiunque passi dalla storia culturale di un’epoca. Chi si sente minacciato dalla deturpazione di una statua dovrebbe sapere che l’eredità intellettuale di un personaggio si tramanda con le sue opere, non con il bronzo, e forse questo può anche dare la misura del perché a nessuno è venuto in mente di andare a Ostia a gettare vernice su un monumento che è stato costruito là.

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