Fino alla seconda guerra mondiale era normale trovare nelle Esposizioni Generali spazi come il “Villaggio dàncalo” di Torino nel 1884. L’idea, in quel caso, era quella di ricreare per i visitatori l’ambiente originale della regione dell’Africa orientale. Per farlo si era ricorsi a un cospicuo numero di comparse, fatte arrivare apposta dalle colonie, senza neanche spiegargli quale sarebbe stato il loro compito: interpretare dei “tipici” abitanti di quei luoghi. Alcuni così avevano addirittura finito per doversi fingere principi afar, rappresentanti del gruppo etnico nomade che vive principalmente in quella zona dell’Etiopia. Rappresentazioni del genere, stereotipate e smaccatamente razziste, qualche decennio dopo vennero sfruttate in larga misura dal fascismo per mostrare agli italiani la portata del dominio coloniale del regime.
Nel 1940, anche la Mostra delle Terre italiane d’Oltremare a Napoli ospitava una ricostruzione di un intero “villaggio indigeno” – abitato da eritrei, etiopi e somali deportati – e un padiglione libico, con tanto di palme e minareto. Peccato che la mostra, per cui era stato creato un quartiere apposta tra Bagnoli e Fuorigrotta, ebbe vita molto breve. Esattamente un mese e un giorno dopo la sua inaugurazione, l’Italia infatti entrò in guerra e tutta l’esposizione venne chiusa in fretta e furia. Tra quelle persone c’erano soprattutto uomini, ma anche donne e bambini: tutti erano stati scelti perché parlavano un po’ di italiano ma nessuno di loro poteva uscire dalla zona della mostra o confrontarsi con l’esterno. Con le leggi razziali già in vigore, erano sostanzialmente degli internati. L’unica attività permessa a chi era rimasto bloccato nel finto villaggio era continuare a recitare la parte che gli era stata assegnata all’inizio, stavolta nei video propagandistici che il regime continuava a produrre per legittimare le politiche razziali, che non potevano essere più girati in Africa perché la guerra era ormai arrivata anche là.
L’isolamento forzato di queste persone in tale straniante realtà durò fino al 1943, quando vennero spostate in blocco nelle Marche, a Villa Spada. Il luogo era un agglomerato di case circondate da alte mura a tre chilometri dal comune di Treia ed era stato pensato inizialmente come campo di internamento per donne “di dubbia condotta morale e politica”, salvo poi venire chiuso dopo un incendio. Qui arrivarono in 58: qualcuno nel frattempo era morto, e c’erano state anche un paio di nascite. Il ministero dell’Africa italiana accordò a tutti un “regime di semilibertà che permetteva di andare a comprare merci nei paesi vicini, ma con l’obbligo di rientro serale”. Sessanta persone di origine africana iniziarono quindi a entrare timidamente in contatto con la piccola realtà di un paese italiano di meno di diecimila abitanti. E qualcuno organizzò persino partite di calcio a squadre miste con i nuovi arrivati.
Tutto cambiò dopo l’8 settembre e la firma dell’armistizio. Villa Spada aveva una stanza piena di armi inutilizzate e i partigiani, che ne avevano un disperato bisogno, decisero di organizzare un’azione per impossessarsene, contando sull’appoggio di chi Villa Spada la abitava già da un po’. Il partigiano e storico Gualtiero Simonetti racconterà: “Il tenente Giulio (nome di battaglia di Jule Kačič, medico jugoslavo) comandante la banda di Valdiola, era venuto a conoscenza che a Villa Spada, a circa tre chilometri da Treia, c’era un deposito di armi custodite da un piccolo nucleo di carabinieri che avevano anche la sorveglianza di famiglie etiopiche trasportate a Napoli, prima dello scoppio della guerra, per la Mostra d’Oltremare, e di qui internate nelle Marche, dove erano confinati anche studenti somali iscritti nelle nostre università. Queste informazioni erano state portate da due negri [sic!] riusciti a sfuggire alla sorveglianza dei carabinieri e a raggiungere le formazioni partigiane del Monte San Vicino. Il tenente Giulio ne parlò al Comando di Roti, e insieme si convenne di assalire nottetempo Villa Spada, liberare i prigionieri e impossessarsi delle armi”. L’assalto a Villa Spada avvenne nell’ottobre del 1943 e a seguito dell’accaduto, alcuni degli internati e degli ascari che li vigilavano decisero di scappare per sposare la lotta contro il fascismo. Tra loro c’erano anche alcune donne.
Le Marche avevano ospitato diversi campi di prigionia con molti detenuti stranieri di diverse nazionalità. Dopo l’armistizio, questo portò alla nascita di brigate miste, formate da chi era fuggito da certi luoghi. Etiopi, somali ed eritrei si ritrovarono quindi a combattere non solo al fianco degli italiani ma anche di francesi, britannici, jugoslavi e russi. La più famosa delle brigate multietniche della zona fu sicuramente la Banda Mario che nelle sue fila contava, oltre ad almeno dieci africani fuggiti da Villa Spada, anche sovietici, slavi e britannici. Nonostante le palesi differenze, tutti erano accomunati dall’amore per la libertà. Il comandante di questo gruppo era nato a Capodistria e si chiamava Mario Depangher. Nel 1932, era stato in confino a Ponza con Sandro Pertini e poi a Ventotene prima di venire definitivamente internato a San Severino Marche. Nei giorni seguenti all’armistizio, aveva già attaccato un deposito di munizioni con un primo gruppo di antifascisti. Qualche tempo dopo, si trovò a capo di una brigata che portava il suo nome e si contraddistingueva per essere, come disse un soldato inglese componente del gruppo: “A very mixed bunch”.
Oggi esistono testimonianze fotografiche che mostrano i partigiani europei insieme ai loro compagni africani. In uno scatto si vede anche il prete guerrigliero don Enrico Pocognoni, quasi a testimoniare come l’unità di intenti superasse anche le diverse confessioni religiose e le inevitabili difficoltà nel comprendersi tra individui di diverse origini. All’interno della Banda Mario venne a formarsi un linguaggio comune, un “esperanto partigiano” che era espressione del riuscito incontro tra persone dal background molto diverso. Al sito de Il Fatto Quotidiano, lo storico Matteo Petracci ha spiegato la straordinarietà di questo meltingpot: “Molti giovani italiani che hanno partecipato alla banda Mario erano stati cresciuti ed educati secondo il fascismo, quindi con un determinato atteggiamento verso il diverso, verso lo straniero. Eppure non hanno avuto nessuna difficoltà, grazie all’empatia, a riconoscere in quegli etiopi, quei somali, quegli eritrei, un fratello e un compagno di lotta. È una questione di atteggiamento, sono gli elementi esterni che ci permettono di mutarlo”. Questo clima di unione traspare senza dubbio dalle foto, in cui si riconoscono russi, croati, etiopi, serbi e croati. Il collettivo Wu Ming non a caso ricorda come uno di questi scatti sia stato impresso su una serie di magliette, corredate dalla scritta “Antirazzisti per costituzione”.
Nel libro Partigiani d’oltremare, il già citato Matteo Petracci ricorda tra le varie azioni la battaglia di Valdiola. In quel caso, la banda Mario riuscì a respingere gli oltre 2000 soldati italo-tedeschi che, dopo l’attentato di via Rasella a Roma, volevano rastrellare la zona tra Apiro, San Severino e Matelica. Il ministero dell’Interno della Repubblica di Salò scrisse nero su bianco quanto fosse preoccupato del gruppo, soprattutto dei molti stranieri e africani che lo componevano e che vennero da lui definiti “particolarmente feroci”. Era il 24 marzo del 1944.
Il primo luglio dello stesso anno la banda entrò a San Severino Marche aprendo la strada ai polacchi. Alla fine del mese, Villa Spada venne sgomberata e, nei successivi due anni, gli alleati si occuparono del rimpatrio di chi era sopravvissuto alla guerra. Non tutti ce l’avevano fatta. Grazie agli sforzi di Petracci, si è scoperto che i resti di “Carletto” Abbamagal, il primo africano che morì nell’impresa, si trovavano proprio nel cimitero di San Severino Marche. Nello stesso luogo, oggi è stata apposta una lapide in suo ricordo. C’è scritto: “Nato ad Addis Abeba, morto sul Monte San Vicino. Etiope partigiano del Battaglione Mario di San Severino Marche. Insieme ad altri uomini e donne provenienti da tutto il mondo, caduto per la libertà d’Italia e d’Europa”. Carlo Abbamagal morì il 24 novembre del 1943. L’auto in cui viaggiava insieme al comandante Mario e ad altri due uomini venne fermata da una pattuglia di altoatesini della Wehrmacht sulla strada tra San Severino Marche e Frontale d’Apiro. Non riuscì a scappare e il suo corpo esanime venne tumulato a San Severino, senza che nessuno ne sapesse niente fino alle ricerche di Petracci. Al suo capo, Mario Depangher è stata intitolata una via del paese.
Mentre lavorava per far riemergere questa storia, Petracci entrò in contatto con una donna somala che da anni faceva ricerche sul periodo vissuto in Italia dal padre. Il 7 dicembre 2011, ricevette una mail dal Regno Unito: la mittente era Shukri Aden Shire, figlia di uno dei più carismatici prigionieri di Villa Spada. Aveva riconosciuto suo padre, Aden Shire in una delle foto che Petracci diffondeva su internet nella speranza di saperne di più. Tornato in Somalia, Shire aveva deciso di battersi per la libertà anche nel suo Paese ed era arrivato a essere ministro, prima di finire nel mirino del sanguinario dittatore Mohammed Siad Barre. Negli ultimi due anni, Shukri Aden Shire è venuta nelle Marche per ricordare il padre nel giorno della Liberazione d’Italia e solo la pandemia l’ha fermata nel 2020.
Aden Shire, “Carletto” Abbamagal e gli altri africani della Banda Mario non sono però gli unici casi di partecipazione nera alla Resistenza. Dopo essere stato portato in Italia dai militari del Reggimento Sabrata, l’undicenne libico Italo Caracul divenne la mascotte della Brigata Garibaldi, mentre lo studente dell’Università di Roma Isahac Menghistu fu il primo eritreo a essere condannato al confino fascista nel 1936, perché aveva “esternato accaniti sentimenti antitaliani”, gioendo per la decapitazione del tenente Tito Minniti durante la guerra d’Etiopia.
La giornalista Stefania Ragusa ha raccontato la storia di queste persone su Africa Rivista, e a The Vision dice di essere in linea con la posizione di Petracci, che si è sempre detto felice di aver riesumato questa vicenda proprio in questo periodo storico (il libro uscì dopo il raid di Luca Traini proprio nelle Marche). “A prescindere dai pareri, bisogna avere la forza di ricordare avvenimenti storici che abbiano più forza delle mere opinioni. Raccontare certe vicende è un’altra strada per la militanza: visto che i ragionamenti logici spesso non vengono capiti, tanto vale che le persone si confrontino con la realtà dei fatti,” spiega Ragusa, “I confini oggi sono ancora più sfumati e bisogna far emergere un cultura del meticciato che caratterizza in realtà questi tempi, nonostante i rigurgiti razzisti”. La storia della Banda Mario ci ricorda quanto alcuni ideali come la libertà siano in grado di unire le storie più diverse e quanto si sbagli a voler credere solo a quello che ci fa comodo.