Durante il lockdown, tra le polemiche sui Ferragnez ingrassati con Photoshop e chi si è improvvisato personal trainer sui social – parallelamente a chimico esperto in lievito di birra homemade, oltre che virologo – a un certo punto sembrava che la piattezza del proprio sedere stesse diventando più grave di una pandemia globale. Senza nulla togliere ai benefici di una sana attività fisica, soprattutto in una situazione di reclusione forzata per quanto necessaria, forse avremmo dovuto domandarci da dove venisse quella latente preoccupazione.
Nel 2019, Nutrimente ha condotto un sondaggio su un campione di 1500 italiani: su ogni 10 per 6 lo sport era sinonimo di ossessione e stress già prima della pandemia. Di questi, quasi la metà erano “gym-a-holic” – dipendenti dalla palestra – e dedicavano all’allenamento oltre 10 ore alla settimana. Per queste persone la più grande preoccupazione era di non riuscire a bruciare abbastanza calorie per rimettersi in forma in vista dell’estate. Il superamento del limite di tempo pianificato per l’allenamento è tra i comportamenti che indicano una dipendenza da attività fisica. Gli altri sono il rifiuto di prendere sufficienti periodi di riposo, cura o recupero soprattutto in caso di traumi o infortuni, il senso di colpa provato quando non ci si allena, la necessità di allenarsi sempre di più con sintomi di astinenza, agitazione, stanchezza e tensione quando non si va in palestra e, soprattutto, la dipendenza psichica, che si manifesta quando viene dedicato allo sport una quantità di tempo tale da interferire con tutte le altre attività quotidiane. La cosiddetta sindrome da sovrallenamento è in minima parte dovuta al funzionamento del sistema ormonale: l’esercizio eccessivo fa sì che il corpo produca endorfine, ossia gli ormoni che bloccano il dolore, diminuiscono l’ansia e danno euforia. La riduzione improvvisa della quantità di esercizio fisico può quindi tradursi, così come accade con le sostanze stupefacenti, in gravi attacchi di depressione. Ma se la dipendenza da esercizio fisico è un problema crescente, questo ha a che fare con la costante ricerca del corpo atletico imposta dalla nostra società, ed è provocata soprattutto dall’espansione della “cultura” del fitness e del suo mercato.
Gli introiti complessivi del business del fitness – che in Europa rappresenta uno dei settori più floridi – nel 2019 ammontavano a 28,2 miliardi di euro, con una crescita rispetto all’anno precedente del 3%. Solo il mercato italiano, a livello europeo, vale 2,3 miliardi di euro e le attività sportive non agonistiche sono praticate da più di 18 milioni di italiani: un giro d’affari di circa 10 miliardi di euro l’anno. Non è quindi una sorpresa che, col tempo, sia stato sviluppato, in piena ottica capitalistica, un marketing ad hoc che propone strumenti, strategie, programmi e altri metodi finalizzati alla perdita del peso o all’incremento della massa muscolare. Le palestre sono solo la parte più piccola della più ampia fitness culture, che istiga all’acquisto di una vasta gamma di prodotti per la pratica sportiva. Un esempio, è il mercato dell’abbigliamento sportivo che, in Italia, dal 2018 dovrebbe avere un tasso di crescita, in media, del 3% l’anno.
Un altro business collegato alla fitness culture è quello dell’industria alimentare: avere un’alimentazione finalizzata all’allenamento, anche con uso di integratori e talvolta farmaci senza il controllo medico, è infatti un altro sintomo della dipendenza da esercizio fisico. E anche quello degli integratori proteici a uso sportivo è un business globalmente in crescita, insieme a quello dei cibi ipocalorici.
Il progresso tecnologico, poi, accompagna e alimenta la gym culture, la diet culture e il loro mercato. Sempre più persone, infatti, piuttosto che rivolgersi a dietisti o a insegnanti esperti e certificati, preferiscono usare delle app per tracciare il proprio introito calorico giornaliero, costruendo piani alimentari e di allenamento fai-da-te. Altrettanto spesso, gli esercizi e la dieta da seguire vengono proposti o addirittura realizzati dai e dalle fitness influencer, la cui presenza è ormai dominante soprattutto su Instagram. Solo cercando #fitspo – abbreviazione di “fitspiration” – ci si ritrova davanti a più di 70 milioni di post che raffigurano corpi scolpiti, selfie post-workout e foto “before and after” che testimoniano i progressi dell’allenamento. I personal trainer, così come gli altri tecnici dello sport, sono lavoratori qualificati, con una formazione specifica sull’anatomia e la fisiologia del corpo. Tuttavia, come riporta il Guardian, sempre più spesso le palestre stesse cercano altri tipi di risorse nei loro PT: vogliono, per esempio, che siano fotogenici e, soprattutto, che abbiano un grande seguito sui social. Non è casuale che, come mostrano i dati di Unioncamere-InfoCamere, le imprese che operano nel settore del fitness siano aumentate di 5mila unità solo dal 2014 al 2019 – guarda caso, proprio dall’avvento di Instagram.
Uno studio recente ha rilevato che il 90% dei consigli forniti dagli influencer sui social media non solo è falso ma è anche pericoloso: alcuni fitness influencer sono infatti artefici di tecniche di marketing fuorvianti e ingannevoli, nonché dannose per la salute dei loro follower. È il caso, per esempio, di Cassey Ho, un’istruttrice diventata famosa grazie ai video postati su YouTube, criticata per aver consigliato una dieta che in molti hanno considerato al limite del digiuno per l’eccessivo scompenso calorico previsto. Ciò di cui la community non si accorge, è che quel che viene spacciato per “motivazione”, quella sana spinta interiore necessaria a stare meglio e sentirsi bene nel proprio corpo, pone l’accento non tanto sulla salute ma soprattutto sull’aspetto esteriore.
Una ricerca ha rilevato che le immagini “fitspo” rappresentano per lo più l’ideale magro e atletico per le donne o l’ideale muscolare per gli uomini. Il cosiddetto “bikini body” che, non per niente, è il nome del piano di allenamento lanciato da una delle prime fitness influencer di Instagram, Kayla Itsines, venduto al modico prezzo di 50 dollari – 85, aggiungendo anche la “guida nutrizionale”. E forse, la ragione del suo successo e, in generale del successo di programmi più o meno fai-da-te, sta proprio nel permettere, a chi sceglie di acquistarli, di allenarsi a casa propria in maniera autonoma, evitando l’iscrizione in palestra o la scelta di un personal trainer e un dietista che hanno costi maggiori, e per un motivo: sanno fare bene il loro mestiere. Questo è in realtà un meccanismo subdolo, che saremmo in grado di riconoscere in televisione, nelle riviste e nelle pubblicità che da sempre propongono un prototipo estetico preciso per poi spingerci all’acquisto di tutto ciò che è necessario per raggiungerlo. Su Instagram, tuttavia, acquisire questa consapevolezza sembra più difficile, perché veniamo martellati costantemente con contenuti emotional, per cui piano piano le nostre autodifese si abbassano.
Inoltre, chiunque sia in possesso di un profilo Instagram assume un’immagine in un certo senso pubblica. E molte delle nostre decisioni sono mosse quasi esclusivamente dalla necessità di produrre contenuti da sottoporre alla nostra community più o meno virtuale per essere accettati. Il rischio è essere fagocitati dalla rappresentazione di se stessi, e diventare in tutto e per tutto il proprio utente. Per quanto riguarda l’aspetto fisico, dunque, il tempo e il denaro che molti investono sui loro corpi spesso è mosso dal desiderio di alimentare il proprio avatar, lavorando sulla propria immagine non per trovare il proprio benessere fisico, ma per trasformarla in contenuto da mostrare ai propri follower. Inoltre, le donne – come aveva già riportato uni studio del Journal of Health Psychology risalente al 2008 – provano cattivo umore, depressione e ansia dopo soli 30 minuti di visione di riviste di fitness che promuovono un “ideale atletico”. I social, e Instagram in particolare, non hanno fatto altro che far aumentare esponenzialmente queste sensazioni.
Le conseguenze della fitness culture vanno oltre la semplice frustrazione: l’ultima revisione del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) classifica l’esercizio fisico compulsivo tra i disturbi da dipendenza comportamentale. La fitness addiction è inoltre 3,7 volte più comune tra le persone con disturbi del comportamento alimentare (Dca). Sia chi è affetto da Dca che chi soffre di dipendenza da attività fisica presenta comportamenti compulsivi, potenzialmente pericolosi, spesso collegati ad ansia ossessiva per il peso e/o l’immagine. In particolare, i fitness addicted, e più nello specifico gli uomini, sono sempre più affetti da bigoressia – anche detta vigoressia o complesso di Adone – un disturbo generato dalla preoccupazione di avere un aspetto troppo magro e la conseguente ossessione per la massa muscolare, anche a scapito della propria salute. Una ricerca dell’University College di Londra del 2017 ha inoltre mostrato che un maggiore utilizzo di Instagram è associato a una maggiore probabilità di sviluppare ortoressia, una problematica che non rientra tra le classificazioni dei disturbi alimentari, ma che è molto diffusa e rappresenta l’ossessione per il mangiare sano.
La fitness culture, e tutto ciò che le gravita attorno, quindi, non sembrerebbe affatto avere come obiettivo il benessere psico-fisico. Se per Michel Foucault la cura di se stessi era un segno di libertà, oggi è stata trasformata – con un espediente retorico non troppo fine – nell’ennesimo strumento capitalista. Alla luce di queste informazioni possiamo esercitarci per evitare di cadere in questi meccanismi, ad esempio chiedendoci un po’ più spesso: stanno cercando di vendermi qualcosa? E per farlo mi stanno facendo sentire in difetto di qualcosa? Questi fenomeni, infatti, ci inducono a comportarci in un certo modo e ad acquistare beni attraverso la vergogna, il disagio e la costrizione, che non hanno nulla a che vedere con l’autodeterminazione o il libero arbitrio. La soluzione, certo, non è smettere di frequentare le palestre o avere un’alimentazione scorretta e disordinata. Ma quando si arriva a rinunciare a una cena tra amici, ai pranzi in famiglia, a una pizza o a un gelato, o a una birra in compagnia perché essere in forma è molto più importante di tutto il resto, il semplice piacere di allenarsi inizia a diventare un limite. Senza contare, poi, che non nessun medico o fisioterapista ha mai consigliato di ammazzarsi di squat o sollevare pesi “per tenersi in salute”: ci sono decine di altre attività che permettono di raggiungere lo stesso risultato e che sono anche molto meno rischiose per il corpo.
Durante il lockdown ci chiedevamo se la nostra società sarebbe uscita migliore dall’esperienza della pandemia. È bello che in Italia e in Europa la cultura dello sport sia così diffusa, ma il fatto che sempre più spesso venga distorta e sfruttata a nostro scapito dovrebbe farci aprire gli occhi e spingerci a interrogarci sulle motivazioni profonde alla base di questo fenomeno. Prendersi cura di se stessi significa nutrirsi in maniera conforme al proprio metabolismo e alla propria attività, fare pratiche rispettose del nostro corpo, della nostra psiche e dei nostri limiti e soprattutto la cura del Sé dovrebbe tradursi nella cura della collettività, che infatti è uno degli obiettivi più nobili dello sport, quello sano per davvero. Sarebbe bello vivere in una società in cui avere la tartaruga o il sedere come l’emoji della pesca non fosse indice di ammirazione e invidia o propedeutico all’essere accettati dagli altri esseri umani, ma lo fossero l’altruismo, la gentilezza o l’intelligenza emotiva.