Il controllo ossessivo e maniacale di tutto ciò che ingeriamo, che ci porta a volte fino al punto da ridefinire le nostre relazioni sociali e le scelte che compiamo quotidianamente, si chiama “ortoressia” – dal greco “orthos”, corretto, e “orexis”, appetito. A oggi, l’ortoressia, di cui si parla molto sui media, non figura ancora nel DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), che fornisce la seguente definizione dei disturbi legati all’alimentazione: “I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione sono caratterizzati da un persistente disturbo dell’alimentazione o di comportamenti collegati, che determinano un alterato consumo o assorbimento di cibo e che danneggiano significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale.”
Secondo l’indagine “Nutrimente”, promossa dal Ministero della Salute, le “fissazioni” più comuni di un soggetto a rischio ortoressia sono la cosiddetta pianificazione dei pasti – per cui si dedica gran parte delle giornate, in particolare la domenica, a definire come si mangerà la settimana successiva, calcolando alla perfezione le dosi di pranzo e cena o “il tempo trascorso [per non dire perso] al supermercato” – e la ricerca ossessiva degli alimenti più salutari presenti sugli scaffali. Che si trovi in ufficio, in vacanza, in viaggio per lavoro, il soggetto ortoressico manifesta le sue nevrosi soprattutto quando è costretto ad andare in un supermercato o in un ristornate “normale”, sprovvisto o meno fornito di un determinato tipo di prodotti, e si impone di cercare disperatamente quello che possa soddisfare i suoi bisogni. Non ultimo, “il pensiero ossessivo del cibo” porta a un’unica e martellante domanda ogni qual volta si presenta il rischio di sgarrare la regola: “mi farà male?”
Guardando ai dati del fenomeno nel nostro Paese, dei 3 milioni di italiani che soffrono di disturbi alimentari, circa il 15% soffre di ortoressia, con una netta prevalenza degli uomini (11,3%) rispetto alle donne (3,9%). Come sostiene Donatella Ballardini, Presidente dell’Associazione Nazionale Specialisti in Scienza dell’Alimentazione (ANSISA), “Questa differenza è da attribuire alla diffusione attuale, nella popolazione maschile, di modelli salutistici legati alla forma fisica e all’allenamento sportivo, che suggeriscono un elevato controllo del cibo per il raggiungimento della forma e della performance ideale,” controllo che passa attraverso un processo di disintossicazione. La carne, il latte, i carboidrati; gli zuccheri, i lieviti, il glutine: moderni demoni alimentari da combattere con alternative free.
Di fronte a un palinsesto televisivo dominato da programmi di cucina ricca e tradizionale, forse anche come risposta a questa direzione mediatica, pressoché immutata dal boom del dopoguerra a oggi, si contrappone un regime alimentare dove vige un’unica regola: l’esclusione. L’abnegazione, il rifiuto di tutto ciò che, per moda o perché l’ha detto un guru dell’alimentazione o il tuo personal trainer viene connotato come nocivo, dannoso, e quindi da eliminare.
Le cause che trasformano questa scelta – a monte anche condivisibile rispetto a determinati fattori salutari o ambientali – in nevrosi sono diverse e a volte sono il corollario di diete che sono veri e propri regimi e promettono miracoli in breve tempo. Il soggetto ortoressico è portato a controllare compulsivamente tutto ciò che ingerisce, e i suoi comportamenti tendono, di conseguenza, a ricordare aspetti dell’anoressia nervosa o del disturbo ossessivo-compulsivo. Questi due disturbi condividono infatti tratti perfezionistici e di controllo maniacale: l’aderenza alla dieta diventa sinonimo di autodisciplina, mentre la trasgressione viene interpretata come un fallimento del proprio auto-controllo.
L’obiettivo diventa il raggiungimento di una forma fisica perfetta, di un’ideale di bellezza portato all’estremo dai canoni dettati dai social, dove influencer del cibo, forti di un’ampia utenza e della potenza comunicativa e visiva del mezzo, si fanno portavoce di vere e proprie filosofie alimentari e ci propongono, diete miracolose a base di super food, concentrati e altri elisir di lunga vita. E i corpi esposti dietro l’hashtag #healthyfood diventano la prova tangibile del loro successo. A volte sembra che non si voglia mangiare sano per stare bene, ma per essere più belli e desiderati. Un esempio è il blog The Blonde Vegan, dove la blogger statunitense Jordan Younger ha raccontato per anni ai suoi oltre 300mila follower i vantaggi della sua dieta crudista, fino a fare poi marcia indietro e a dichiarare pubblicamente di essere affetta da ortoressia nervosa. La blogger Sonia Sae porta avanti invece la sua battaglia insieme alla sua Jumanji, una volpe del deserto a cui ha voluto applicare la sua dieta vegana. Freelee The Banana Girl, una 37enne blogger vegana australiana, popolarissima Youtuber di salute e fitness, ha da poco deciso di trasferirsi nella giungla sudamericana per abbracciare uno stile di vita più salutare e a contatto con la natura. Vedremo cosa succederà.
L’asticella che pone l’ortoressico è puramente salutista. Vengono condannati infatti tutti quei cibi ritenuti responsabili di malattie – prima fra tutte il cancro – senza quasi mai considerare che anche alcune delle proposte “alternative”, quelle eticamente corrette o ritenute più salutari, stanno a loro volta causando danni irreversibili agli ecosistemi del pianeta. Il caso più eclatante è quello dell’avocado.
Il problema, dunque, è molto più ampio. Nel saggio sul tema Homo dieteticus, l’antropologo Marino Niola definisce l’ossessione del mangiar sano “una religione senza Dio”, una “pratica fisica, ma anche morale, che riguarda salute e salvezza, corpo e anima,” fatta di “rinunce spontanee, penitenze laiche, sacrifici che hanno a che fare più con la coscienza che con la bilancia.” Per l’ortoressico è importante sentirsi parte di una comunità, di questa nuova religione in cui gli adepti sono chiamati a redimere i propri peccati culinari. Anche le multinazionali, ovviamente, si adeguano a questa nuova tendenza, proponendo linee di prodotti che possano rispondere più o meno goffamente a queste esigenze e, di conseguenza, intercettare i futuri trend dell’alimentazione.
Se nell’ultimo periodo avete affrontato una conversazione su questo tema, vi sarà facile capire di cosa stiamo parlando. Nessuno oggi si esime dal dare consigli su cosa è giusto o no mangiare, su quale alimento dovremmo assolutamente evitare per il nostro bene o sul perché faremmo meglio a eliminare dalla nostra dieta cibi che contengono nichel, grassi idrogenati o farine raffinate. Anche la tavola diventa un banco di prova dove mettere gratuitamente a disposizione il proprio sapere, per riscrivere le regole della buona alimentazione e per dettarle agli altri. Perché questa rinuncia si eleva a superiorità etica e morale, nel momento in cui viene condivisa da una comunità che si identifica in queste stesse regole.
Come spiega la psicologa Anna Brytek-Matera, chi soffre di ortoressia nervosa spesso sceglie la nutrizione sana – o quella che ritiene tale – come trincea dietro cui nascondere il proprio complesso di superiorità, che lo porta a disprezzare gli altri. Il complesso di superiorità, sotto l’influsso del narcisismo, porta il soggetto nevrotico a enfatizzare l’immagine di sé e ad amplificare a dismisura l’autostima, e spesso rappresenta l’altro lato dell’insicurezza. L’alimentazione in sé diventa quindi un pretesto, una bandiera, una maschera. A conti fatti, questo atteggiamento, spesso affonda le sue radici in una conoscenza sommaria e superficiale degli elementi nutritivi, ed è per questo che può sfociare in conseguenze fisiche anche pesanti per chi ne diventa vittima. Mantenere un’alimentazione equilibrata e corretta è molto più difficile di quanto si pensi, bisogna documentarsi, studiare, rivolgersi a degli specialisti: non basta acquistare prodotti senza grassi o senza glutine o senza lattosio o senza zuccheri – anche perché spesso il marketing è mendace.
Uno dei paradossi dell’ortoressia, infine, risiede nel fatto che gli stessi comportamenti alimentari che si adottano per controllare la propria vita nella direzione del benessere arrivano a controllare e a imprigionare il soggetto stesso, che non si rende conto che se una volta al mese, prima di andare a lavoro, compie l’eccezione di mangiare una brioche non gli verrà per forza il diabete mellito a sessantanni. Con il passare del tempo, e l’irrigidirsi di queste regole autoimposte, finisce per diventare impossibile andare al ristorante con gli amici o accettare un invito a cena; l’attenzione alla qualità del cibo prevale su tutto il resto, come una vera e propria nevrosi ingestibile, finendo per provocare forti stati d’ansia e influenzare tutti gli ambiti della vita di chi ne soffre.
“L’uomo è ciò che mangia,” lo diceva già il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach nell’Ottocento, ma oggi, per una serie di questioni socio-politiche ed economiche estremamente complesse, il cibo pone le basi per una vera e propria nuova filosofia dell’essere, chiamandoci a operare una scelta doverosa. È giusto che ciascuno di noi si informi e agisca in base alle sue convinzioni, senza però cadere nel tunnel del disturbo mentale. Questa nuova ossessione alimentare si inserisce all’interno del più ampio dibattito sul cibo e sull’importanza che l’alimentazione riveste nella nostra vita con risvolti positivi e negativi. Essere attenti a quello che si mangia è una pratica virtuosa ed è la prima regola dello star bene sin dall’antichità, ma fino a che punto ha senso spingersi e quando una giusta intenzione si trasforma in un’ossessione che finisce per limitarci?