Il 27 aprile del 1965, con la pubblicazione di Addio alle armi di Ernest Hemingway, esordì una delle collane di maggior successo della storia dell’editoria italiana, gli Oscar Mondadori. Si trattava del progetto editoriale più ambizioso e innovativo che l’Italia avesse conosciuto fino a quel momento e fu premiato da uno straordinario riscontro in termini di vendite: 210mila copie durante la prima settimana, per poi arrivare a quasi 400mila nei due mesi successivi.
L’idea alla base della collana era rendere il libro un prodotto alla portata di tutti, ma per riuscirci l’editore Alberto Mondadori, figlio del fondatore Arnoldo, coadiuvato dal poeta Vittorio Sereni, responsabile della direzione letteraria, intuì che limitarsi a intervenire sul prezzo, come già facevano le edizioni economiche di Feltrinelli, BUR o della stessa Mondadori con la collana BMM (Biblioteca Moderna Mondadori), non era sufficiente. La necessità di creare nuovi spazi di mercato induceva la casa editrice di Segrate a trasformare il libro in un prodotto di largo consumo: economico sì, ma anche facilmente reperibile, accattivante nella grafica e assimilabile ad altri prodotti di successo, come le riviste.
Quello che gli Oscar Mondadori si proponevano di fare non era solo sottrarre lettori alla concorrenza, ma crearne di nuovi, trasformando la stessa concezione culturale del libro, da prodotto diretto ai soli intellettuali, o al massimo strumento di formazione nelle famiglie borghesi, a oggetto ludico, di intrattenimento popolare, come il cinema – il cui biglietto costava l’equivalente di un Oscar – capace di entrare nella vita di ogni cittadino, a qualunque categoria lavorativa appartenesse, affiancando alla lettura di quotidiani e riviste anche quella di “capolavori della letteratura e le storie più avvincenti”, come si poteva leggere sul manifesto di presentazione della nuova collana.
Per raggiungere questo risultato l’idea rivoluzionaria fu quella di non limitare alle sole librerie la diffusione dei libri, ma di distribuirli con cadenza settimanale anche nelle edicole, molto più diffuse e presenti nella quotidianità dei potenziali lettori, sovrapponendone l’uscita a quella delle riviste che il lettore era abituato a comprare. Una trovata, la periodicità, che permise all’editore di contare sugli sgravi fiscali riconosciuti alle pubblicazioni settimanali e che fidelizzò il lettore, indotto anche dalla numerazione delle uscite, sulla copertina e sul dorso del libro, ad acquistare l’Oscar settimanale per completare la collezione e costruirsi la propria personale biblioteca.
L’aspetto stesso degli Oscar rivelava l’ambizione di renderne accattivante l’acquisto da parte di un pubblico più abituato alle edicole che alle librerie: le copertine erano sempre illustrate a colori, con dipinti realizzati da Mario Tempesti che ricordavano vagamente lo stile già visto su La Domenica del Corriere, e riportavano personaggi o momenti del racconto. Era talmente evidente la volontà di avvicinare ai libri il pubblico dei rotocalchi, che il personaggio sulla copertina del primo numero, Addio alle armi aveva una eccezionale somiglianza con la star hollywoodiana Rock Hudson, protagonista dell’omonima trasposizione cinematografica del 1952, o come riporta Gian Carlo Ferretti “sulla copertina dei Malavoglia padron ‘Ntoni assomiglia più a un vecchio playboy davanti alla sua barca che a un povero pescatore siciliano”. L’assenza di bandelle e la presentazione in terza di copertina del romanzo oggetto dell’uscita successiva – espediente utilizzato sui fumetti – rispondevano all’esigenza di rendere anche esteticamente l’oggetto più accessibile e familiare per un pubblico che spesso doveva vincere il timore reverenziale provato fino a quel momento per i libri.
Nel manifesto di presentazione degli Oscar la voglia di modernizzare l’immagine del libro e dello stesso lettore intellettuale traspare sin dalla presentazione: gli Oscar Mondadori sono definiti “Libri-transistor che fanno biblioteca […] per gli italiani che lavorano: per gli operai, per i tecnici, per gli impiegati, per i funzionari, per i dirigenti, per gli studenti, per la famiglia, per tutti i membri attivi ed informati della società”. E a maggiore conferma che il modello di lettore borghese che legge nel suo studio dovesse essere superato, il testo continuava indicando i luoghi della lettura: “A casa, in tram, in filobus, in metropolitana, in automobile, in taxi, in treno, in barca, in motoscafo, in transatlantico, in jet, in fabbrica, in ufficio, al bar, nei viaggi di lavoro, nei weekend, in crociera”. Si trattava di una concezione fortemente innovativa che poneva il libro in un nuovo contesto e disegnava un modello inedito di lettore “ideale”, liberato da qualsiasi parvenza elitaria.
Fu un’operazione coraggiosa, che raccolse un successo che andava ben oltre le aspettative. In una lettera a Carlo Cassola, Alberto Mondadori confidò di puntare a tirature minime di 40mila copie: La ragazza di Bube, capolavoro di Cassola, già pubblicato in edizione economica da Einaudi, ristampato fra gli Oscar arrivò a superare le 446mila in sei anni.
Secondo una ricerca ISTAT presentata nel 2017 a Milano durante Tempo di Libri, dal 1965 al 1973 il numero di lettori passò dal 16,3% al 24,4%, un incremento che non si verificherà più con la stessa forza negli anni successivi: ed è lecito pensare che gli Oscar, lanciati proprio quell’anno abbiano contribuito in maniera determinante a questo risultato. Ma se da un punto di vista numerico i nuovi tascabili Mondadori rappresentarono un indubbio successo, la mancanza di note critiche e l’inserimento nello stesso catalogo di libri qualitativamente molto distanti tra loro – con il rischio di promuovere come classici, presso un pubblico in gran parte sprovvisto di strumenti critici, opere minori – sollevarono anche autorevoli voci dissonanti. Fra chi considerava spregiudicata e pericolosa l’iniziativa di portare i libri ai lettori senza aspettare che entrassero in libreria, spiccava Alberto Moravia, che in una lettera indirizzata a un convegno sul tema, organizzato a Teramo dal Sindacato scrittori nel 1966, si disse preoccupato che, in assenza di correttivi, i tascabili avrebbero finito per danneggiare tutti: editori, scrittori e lettori.
Nel suo messaggio Moravia, seppur con evidente paternalismo, si diceva conciliante con la nuova formula di pubblicazione: “Gli italiani sono un popolo infantile e facilmente infatuabile, ma se, come spero, la voga dei tascabili non è come quella del lascia e raddoppia io sono senz’altro favorevole ai tascabili”, si legge sul relativo Bollettino del Sindacato, nel pezzo “L’industrializzazione della letteratura”. Ma nei correttivi che richiese si scorgeva tutto il disappunto nei confronti della trasformazione in atto nel “mercato del libro”. Se aumentano i lettori che si avvicinano alla letteratura, infatti, la loro capacità critica è ritenuta insufficiente e rischia di allineare scrittori diversi su un unico piano, produttori di un bene di consumo il cui successo è decretato dal riscontro di pubblico e non più dall’intrinseca letterarietà dell’opera. Moravia riteneva necessaria l’eliminazione della periodicità, perché un libro “ha bisogno del suo tempo”; e invocava inoltre la revisione delle percentuali fra gli autori per favorire quelli di maggior peso, e l’esplicitazione delle differenze fra un libro “che va a formare le biblioteche” e un tascabile “che poi si butta via”.
Alle critiche dell’autore de Gli indifferenti si aggiunsero quelle di altri colleghi. Goffredo Parise definì addirittura “comica” e “volgare” la corsa alle edicole, mentre in generale le conclusioni del Convegno di Teramo condannavano “la corsa confusa, ansimante e a sghimbescio” delle case editrici verso i profitti garantiti dai tascabili. Sebbene traspaia da queste reazioni la volontà di difendere una rendita di posizione e il riconoscimento del proprio ruolo elitario di scrittore di fronte a quello nuovo di “autore per il mercato” che si andava delineando, non si può negare che in qualche modo si trattasse di un tentativo di sottrarre il libro alle dinamiche commerciali che il boom economico aveva imposto in tutti gli altri settori e che le preoccupazioni di Moravia poi non si siano effettivamente poi manifestate a vari livelli.
È proprio negli anni in cui gli Oscar arrivano in edicola che si verifica l’ingresso nel mercato dell’editoria di dosi massicce di pubblicità e marketing, elementi che rischiavano di snaturare il libro, portando a un surplus di produzione, improntata soprattutto sulla vendibilità del prodotto finale: una deriva che avrebbe mortificato la letterarietà per esaltare aspetti maggiormente commerciabili, quali trama e facilità di lettura a discapito della complessità delle opere e che avrebbero poi portato a influenzare lo stile degli autori. Anche se Arnoldo Mondadori aveva sempre considerato la diffusione del libro “innanzi tutto un fatto commerciale”, il successo economico degli Oscar Mondadori accentuò nell’industria editoriale la ricerca costante della narrativa di consumo.
Gli editori avevano già conosciuto in quegli anni il fenomeno del best seller stagionale, che aumentava gli introiti e diminuiva le spese di deposito, ma che doveva essere costantemente rinnovato: si pensi alle 400mila copie vendute da Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, uscito nel 1958 per Feltrinelli o a Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, che pubblicato da Einaudi nel 1962 in sole 10 settimane vendette 200mila copie. Con la commercializzazione della narrativa in edicola inaugurata dagli Oscar aumentarono la produzione di libri destinati a essere consumati e a non restare nel tempo, sostituiti da prodotti analoghi. Il caso limite è rappresentato nel 1981 dalla commercializzazione in edicola da parte di Mondadori della collana Harmony, nella quale mancava ogni “esigenza estetica” e rispondeva, per dirla con Alberto Cadioli, alla “richiesta di un’omogeneità dei prodotti offerti”. Ma anche nella produzione considerata più “alta” i cataloghi si riempirono di titoli pensati ad hoc per il mercato.
Malgrado ciò, l’allargamento della platea dei potenziali lettori resta il compito meritevole cui gli Oscar assolsero in maniera eccellente: le librerie nelle case degli italiani si arricchirono di decine fra i più importanti titoli della letteratura contemporanea – fra gli italiani Buzzati, Calvino, Cassola, Ginzburg, Morante, Pavese, Pasolini, solo per citarne alcuni, furono pubblicati in questa collana. Anche se è probabile che la cadenza settimanale impedisse a gran parte degli acquirenti di leggere realmente tutti i libri acquistati (probabilmente con l’obiettivo di disporre della “collezione completa”), i loro figli e nipoti hanno finito per ritrovarsi in casa, decine di anni dopo, quegli stessi volumi, magari un po’ scollati e ingialliti ma ancora leggibili, ma dai contenuti sempre preziosi. L’introduzione nelle famiglie italiane di un gran numero di possibili letture di alta qualità ha insomma aiutato anche le generazioni successive, svolgendo una funzione culturale non meno importante di quella commerciale.
Una conclusione cui già nel 1963 era giunto Umberto Eco, che l’aveva così illustrata a Luigi Silori durante un’inchiesta sulla nascente industria editoriale per la trasmissione Rai L’Approdo: “Si pensa che, con il presente boom culturale, un’industria editoriale, pubblicizzando massicciamente certi volumi, in fondo raggiunga dei successi di vendita per ragioni puramente snobistiche, che non hanno nulla a che vedere con la cultura. […] Se ad esempio in Italia accade che sessantamila persone di colpo comprino l’Ulisse di Joyce, possiamo legittimamente sospettare che quaranta/cinquantamila di queste persone lo abbiano acquistato unicamente per motivi snobistici”, argomentava il giovane cofondatore del Gruppo ’63, che però poi si diceva ottimista: “Un libro è un prodotto che non esaurisce la sua funzione in un consumo immediato, costituisce un fatto, un valore culturale che rimane: ecco dove la cultura, in fondo, anche quando diventa oggetto di mercato, ha una possibilità intima di sottrarsi al dominio mercantile e di prevalere”.