La struttura portante della cattedrale di Notre-Dame, che nella notte tra lunedì 15 aprile e martedì 16 è andata a fuoco per più dieci ore, è salva. È un sospiro di sollievo in una nottata lunghissima, che molti hanno seguito con apprensione. La conta dei danni non è ancora cominciata, così come non sono ancora chiare le dinamiche dell’incendio, che con molta probabilità è stato causato dai lavori di ristrutturazione cominciati nell’estate del 2018. Le autorità hanno dichiarato che tutte le opere sono state tratte in salvo dai più di 400 vigili del fuoco intervenuti in una situazione molto difficile: le fiamme sono divampate nel sottotetto, a più di 90 metri di altezza, rendendo impossibile il ricorso ad altre soluzioni se non alle gru. Allo stesso modo non si poteva intervenire con i Canadair, invocati dagli esperti improvvisati su Facebook o dal presidente degli Stati Uniti, perché con la quantità d’acqua gettata da questi mezzi c’era il rischio di causare danni irreparabili alla struttura già compromessa dalle fiamme. In alcune ore cruciali si è temuto che l’intero edificio potesse crollare, e le immagini catturate da un drone restituivano una situazione spettrale, quasi apocalittica, con l’intera pianta a croce avvolta dalle fiamme. Tutto il mondo ha assistito inerme alla caduta della guglia, la parte più celebre della cattedrale insieme ai due campanili della facciata, fortunatamente illesi. Anche se si tratta di una parte non originale ricostruita nell’Ottocento, è stata comunque un’immagine scioccante che rimarrà nella storia.
Tutti noi ci siamo sentiti impotenti mentre guardavamo per ore uno dei simboli della civiltà europea bruciare, mentre quello che sembrava un minuscolo zampillo d’acqua cercava di spegnere le fiamme che avvolgevano l’edificio. Oggi, grazie al lavoro dei pompieri, non piangiamo un vuoto lasciato da un monumento, ma festeggiamo perché è ancora in piedi, anche se è innegabile che in quelle ore qualcosa si è mosso nella coscienza di tutti. Questo evento ci ha colpiti nel profondo perché un monumento non è mai un luogo neutro: è un simbolo, o meglio ancora un testo – come vuole la semiotica – che ci racconta chi siamo. E ci ha colpiti anche perché è stato il fuoco a cercare di distruggerlo, con una dinamica che ricorda i grandi incendi del passato, come quello di Roma o il rogo della biblioteca di Alessandria.
Il paragone è corretto: possiamo considerare Notre-Dame una sorta di grande biblioteca d’Europa, che è al tempo stesso luogo di culto, di sedizione, di potere e di liberazione. Nei momenti in cui abbiamo pensato che avremmo potuto perdere per sempre Notre-Dame, ci siamo sentiti sgomenti, come se insieme alla cattedrale avessimo potuto perdere un’identità.
La cattedrale è stata costruita tra il 1163 e il 1344, in pieno Medioevo, un’epoca che a torto oggi usiamo come termine di paragone per indicare un periodo oscuro e dominato dall’ignoranza. Vale la pena ricordare che il Medioevo è durato mille anni ed è quindi sciocco concepirlo come una sorta di monolite ideologico. Soprattutto durante il cantiere di Notre-Dame, era in realtà un periodo di grande fermento e vitalità culturale. Proprio allora l’Europa era unita da un punto di vista culturale: c’era una lingua comune, il latino, e una cultura condivisa, gli intellettuali viaggiavano in tutto il continente, i libri circolavano di mano in mano, nascevano le università come aggregazioni spontanee di persone che amavano il sapere.
Allo stesso modo, la storia di Notre-Dame non può essere divisa dalla storia rivoluzionaria, un altro momento in cui in tutta Europa si è creato un sentire comune. Durante la Rivoluzione prima e la Comune poi, la cattedrale venne saccheggiata e devastata, per poi diventare l’ambientazione di uno dei più famosi romanzi francesi, Notre-Dame de Paris, del socialista Victor Hugo, che con questo testo voleva denunciare le disuguaglianze e le disparità sociali. Dopo la Restaurazione, ritrovò la sua funzione politica nel 1944, quando ospitò i festeggiamenti per la liberazione di Parigi dal nazifascismo. Dalla religione, alla cultura, alla rivoluzione, questo luogo è la perfetta sintesi della storia europea, e per questo ci ha fatto così male vederne la caduta, che è facile strumentalizzare in questo momento di spaesamento in cui molti non ritrovano più i “valori della civiltà Occidentale” che sembravano garantiti per sempre.
È proprio questo il problema nell’interpretare quanto successo: pensare che Notre-Dame, o la storia dell’Occidente, sia qualcosa di immutabile, di finito, e vederla bruciare (un’esperienza visiva anacronistica, perché sembra impossibile che oggi con tutti i mezzi e le tecnologie che ci sono a disposizione, un’opera millenaria vada in fumo) ci ha fatto subito temere il peggio, facendoci pensare pensare che non avremmo mai più rivisto gli splendori della chiesa come la conosciamo. Ma se Notre-Dame è un testo, la semiotica ci insegna che le possibilità di interpretazione sono potenzialmente infinite.
Molti sui social hanno pianto la morte, fortunatamente mai avvenuta, di Notre-Dame postando selfie e fotografie scattate durante i propri viaggi, come a voler preservare per sempre l’immagine della cattedrale come in una cartolina. Non c’è nulla di male in questo rito catartico collettivo, ma ci dice anche che cosa non va nel nostro modo di vivere i luoghi e di interpretare i simboli. Una modalità passiva, a tratti consumistica, che si traduce nell’incapacità di vedere nelle fiamme che hanno avvolto la chiesa non solo la devastazione, ma anche una possibilità di risemantizzazione di un luogo che non è mai stato una semplice chiesa. Si può dire, esagerando, che ogni monumento è potenzialmente esposto alla sua distruzione, nonostante la sua funzione, rimarcata anche dal piano etimologico, sia quella di essere “a monito” o “a ricordo”. Molte volte nella storia si è fatto scempio volontariamente o casualmente dei monumenti, e dopo ogni caduta si è andati avanti con una nuova apposizione di significato.
Dopo il suo incendio, questa chiesa non sarà solo più il setting de Il gobbo di Notre-Dame della Disney (forse il suo significante più diffuso nel 2019, come dimostra l’illustrazione di un Quasimodo piangente mentre abbraccia la facciata della cattedrale, che è tra le immagini più condivise in queste ore), ma anche il grande processo catartico della nostra storia che va a fuoco per ore mentre noi osservavamo impotenti la diretta streaming all’ora di cena. L’uomo distrugge da sempre ciò che lo circonda secondo un’assurda pulsione di morte: osservare Notre-Dame in fiamme ci ricorda che non siamo invincibili e che quello che costruiamo può essere a sua volta distrutto per una semplice fatalità.
L’unica analisi che si può fare allo stato attuale delle cose è che l’uomo, nella sua smania di conservare il patrimonio artistico, il passato, l’originale (cosa che fa sorridere i filologi e gli storici), non è infallibile. Che l’idea della Notre-Dame da cartolina sempre uguale a sé stessa è un’idea ingannevole, perché tutto cambia in continuazione, indipendentemente dalla nostra volontà. E se cambiano l’aspetto esteriore e il segno (considerato anche che per ricostruire la chiesa ci vorrà qualche decennio, quindi per molto tempo la vedremo con un aspetto completamente diverso) cambiano anche i significati.
Il filosofo tedesco Walter Benjamin parlava di “aura” in relazione alle opere d’arte del passato, una “capacità di levare, rispondere con lo sguardo” che si realizza soltanto nel momento in cui si è in compresenza dell’opera. Secondo Benjamin, la riproducibilità tecnica ha causato la “perdita dell’aura”: quando guardiamo una fotografia di Notre-Dame, non è come trovarsi di fronte all’opera vera e propria. L’aura, diceva Benjamin, è “un singolare intreccio di spazio e tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina”. Con il suo incendio, Notre-Dame ci è parsa più vicina che mai. E ha riacquistato un’aura che sembrava perduta, fagocitata dalla sua visione a senso unico di landmark turistico o scenografia di musical.
Per questo non bisogna farsi prendere dalla disperazione per quanto accaduto a Notre-Dame, ma dalla speranza che questo monumento assolva alla sua funzione: ricordarci chi siamo, da dove veniamo e che cosa possiamo diventare.