Quando Umberto Eco ha ricevuto dall’Università di Torino la sua quarantesima laurea ad honorem, non sapeva che di lì a poco si sarebbe scatenato un acceso dibattito culturale tra i suoi oppositori e sostenitori. Nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale, il 10 giugno del 2015, il rettore Gianmaria Ajani aveva appena terminato la cerimonia di conferimento della laurea in Comunicazione e Cultura dei Media e passato la parola a Eco per la sua ormai celebre lectio magistralis. L’aver arricchito la cultura italiana nei campi dell’analisi della società contemporanea era uno dei numerosi motivi alla base di questo riconoscimento e la lezione che seguì voleva essere un’osservazione lucida dei media attuali, riservando particolare attenzione al ruolo dei social network come mezzi di informazione e di comunicazione.
Nel suo intervento Eco sottolineava l’elemento positivo racchiuso nella possibilità di una rete di connessioni globali, annullando le distanze e dando vita a un passaggio più veloce dell’informazione, grazie alla condivisione di idee e notizie. Se ci fosse stato internet ai tempi di Hitler, spiegava citando Jean-Marie Le Clézio, non sarebbero esistiti i campi di sterminio, perché la notizia si sarebbe diffusa così rapidamente da costringere le potenze mondiali a un intervento tempestivo. Ma, se si prende in considerazione il fatto che i social network sono diventati ormai dei mezzi di informazione e considerando la loro natura democratica, il problema risiede, come ha dichiarato il professore nell’incontro con i giornalisti seguito alla lectio magistralis, nel fatto che permettono agli imbecilli di avere “Lo stesso diritto di parola di un premio Nobel”. È ciò che tutti abbiamo pensato almeno una volta accedendo ai nostri account social: che sia stato su Facebook, Instagram o Twitter, ognuno di noi ha potuto toccare con mano quella che Eco definisce “L’invasione degli imbecilli”. Ben lontano da visioni catastrofiche, l’intellettuale voleva solo tracciare i contorni della comunicazione contemporanea, facendo luce su come questa “invasione” sia un pericolo per la collettività, perché alimenta sensazionalismi, diffonde bufale e, nei casi peggiori, si abbandona a fenomeni di violenza verbale e hate speech.
Puntuali come un orologio svizzero, le critiche alla sua lectio magistralis si sono abbattute sulle parole di Eco, ingigantite e decontestualizzate. Alcuni lo hanno accusato con operazioni sineddotiche – ed errate – secondo cui gli imbecilli di cui si parla sarebbero, per estensione, quella stessa massa che con l’acquisto dei suoi libri ha contribuito alla fama e al riconoscimento culturale di Eco. In quest’ottica, il suo discorso sarebbe stato l’atto irriconoscente di chi denigra e disprezza chi ha contribuito a portarlo all’apice della propria carriera. Non è mancato neanche chi ne ha fatto un discorso politico: i social network sono l’espressione del sistema democratico nel mondo virtuale in quanto danno diritto di parola a chiunque, premi Nobel e non. Di conseguenza, le parole di Eco sarebbero state un attacco all’articolo 21 della Costituzione e, per estensione, alla democrazia. Una grande parte dell’opinione pubblica ha quindi accolto con un senso di fastidio più o meno leggero chi si è permesso di bacchettare il “popolino”, dall’alto della sua statura intellettuale.
Suona ovvio che un’analisi critica del genere sia stata fatta proprio da chi di linguaggio e comunicazione se ne è occupato una vita intera: non solo scrittore e saggista, Eco era infatti anche linguista, filosofo e semiologo. Ciò significa che un discorso di questo tipo era del tutto legittimato dai suoi studi e dalle sue competenze in materia. Partendo da queste premesse metodologiche, gli imbecilli a cui si riferiva non rappresentano né il piatto su cui si è impegnato a sputare a fine carriera, né tantomeno un attacco alla democrazia. La fenomenologia degli imbecilli è simile a quella dei webeti, cioè la folta schiera di utenti ignoranti che invadono il profilo Facebook di Enrico Mentana, scatenando le sue “blastate”.
Per prima cosa, gli imbecilli sono tuttologi affermati, persone che hanno conoscenze e competenze in tutti i campi dello scibile umano e persino in quelli in cui la scienza, per ora, sospende il giudizio. Combattono muniti di arroganza e presunzione e la loro trincea preferita è la sezione commenti, dove abbaiano e si sbizzarriscono, sviluppando quasi una dipendenza compulsiva da tastiera. Non sventolano una bandiera politica precisa, né sono accomunati da uno specifico grado di istruzione. Spopolano ovunque e animano continuamente un dibattito il cui motto è: “Noi abbiamo sempre ragione”. Il loro è un atteggiamento che manca di senso critico, guidato dall’emozione e dall’indignazione: ha una natura magnetica, perché nascendo e facendo leva sul sentimento, riesce ad attirare una grande quantità di persone che vogliono sfogare le loro frustrazioni.
Il rischio prodotto da questo meccanismo è la diffusione esponenziale di notizie riportate in modo sbagliato o di bufale fabbricate ad hoc: gli immigrati negli hotel a cinquestelle che ricevono 35 euro al giorno dallo Stato mentre i terremotati italiani affrontano il gelo dell’inverno nelle tende; i vaccini contro il morbillo e la rosolia che causano autismo e altre gravi patologie; il suicidio di un ragazzo di Livorno e il caso Blue Whale; la Momo Challenge e l’induzione al suicidio via WhatsApp. Chiamarle notizie è irrispettoso nei confronti di chi lavora quotidianamente per fare informazione attendibile. Queste sono semplicemente la benzina sul fuoco con cui viaggia la psicosi collettiva, facendo la fortuna economica di una parte del sistema informativo e quella elettorale di diversi partiti. Sono alcuni tabloid esteri sensazionalistici i maggiori responsabili di questo caotico circolo di notizie, da cui spesso attingono le stesse testate italiane. Ed è a questo che Eco pensava quando parlava dei “suoi” imbecilli, che abboccano alle notizie false, non le filtrano e le diffondono. I giornali e la rete, sosteneva l’intellettuale, dovrebbero creare un servizio adatto alla verifica dei dati, eppure questa caratteristica del web spesso non è adeguatamente sfruttata, né dai lettori né dai giornalisti.
L’ignoranza degli imbecilli galoppa veloce e la credulità seriale può trasformarsi in un attimo in qualcosa di più grave. Gli episodi di violenza verbale, gli insulti sessisti e l’hate speech diventano sempre più normali. Un esempio è il Capitano Matteo Salvini con la sua prassi social di dare in pasto alle legioni dei suoi fan persone ignare di essere diventate protagoniste dei sui post, corredati dell’ormai iconico “Bacioni!”.
La lezione del 2015 non è stata la prima analisi di Eco sui mezzi di comunicazione digitale. Risale al 2010 un’intervista per Wikinews in cui, interrogato sui limiti di una piattaforma come Wikipedia – da lui stesso, peraltro, definita importante – aveva già manifestato una sorta di preoccupazione generale nei confronti del web e del continuo passaggio di informazioni. L’intellettuale sosteneva che internet facesse bene a chi con spirito critico opera un filtraggio e un confronto delle notizie, ma fosse invece un male per chi, per educazione o modus vivendi, non possiede un pensiero critico e contribuisce alla diffusione delle notizie false senza verificarle.
Per i social network la questione da lui sollevata non riguarda solo la diffusione dell’informazione, ma l’atteggiamento degli imbecilli, che esistono da tempi immemori ma che nella nuova veste di utenti hanno campo libero per i loro sfoghi. La soluzione non è di certo utilizzare il napalm contro un’orda infestante di incivili, né tantomeno togliere loro il diritto di parola. L’importanza cresente dei social network richiede però soluzioni che li mantenga come luoghi virtuali adatti a una convivenza civile di opinioni e non mercati rionali caotici e violenti. Basterebbe una semplice ma efficace educazione al buon senso, per stimolare il dibattito intelligente e la crescita culturale. È urgente sviluppare un senso critico per filtrare la mole di dati a cui siamo quotidianamente esposti e per avere un comportamento degno dell’homo sapiens sapiens. Umberto Eco chiedeva troppo? Forse sì.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta l’11 marzo 2019.