Era il 4 luglio 1964 quando Gilles Deleuze organizzò nell’Abbazia di Royaumont, a nord di Parigi, un convegno su Nietzsche, invitando alla partecipazione e al dibattito numerosi intellettuali come Pierre Klossowski, Michel Foucault e Gianni Vattimo. Quello che Deleuze ancora non sapeva è che stava dando il via alla rinascita della reputazione filosofica di Nietzsche in Francia. È infatti in questa occasione che vengono poste le basi per la Nietzsche-Renaissance, la riscoperta della figura e del pensiero del filosofo tedesco che avrebbe segnato il futuro della filosofia. È opportuno parlare proprio di rinascita e reputazione perché, prima del convegno di Royaumont, l’ultimo momento di effettiva considerazione del pensiero di Nietzsche risaliva alla prima alla prima metà del Novecento quando, per la sua carica rivoluzionaria e anti-borghese, diventò uno dei maggiori modelli teorici dagli ambienti di estrema destra, fino a diventare il fulcro dell’ideologia nazista.
Ancora oggi, questo è il giudizio prevalente sulla filosofia di Nietzsche. Basti pensare a come, nel 2014, il filosofo sia stato omaggiato da parte di CasaPound Italia in occasione del 170esimo anniversario della sua nascita: in sette città dell’Abruzzo sono stati appesi striscioni, contrassegnati dal simbolo del partito, che riportavano alcune famose citazioni di Nietzsche, volte a “omaggiare una delle massime figure della cultura europea, invitando alla scoperta di un autore fondamentale per comprendere il mondo in cui viviamo”. In un’intervista a The Atlantic, il nazionalista statunitense Richard Spencer – anche conosciuto come il giornalista che ha coniato il termine “Alt-right” – dichiara che non solo Nietzsche è stato uno degli autori decisivi per la sua formazione, ma che grazie alle sue opere si sarebbe “risvegliato”, rendendosi conto della falsità del mondo. Inoltre, Spencer condivide l’idea di una “patria ariana” per la razza bianca e una pulizia etnica “pacifica” per fermare la decostruzione della civiltà occidentale. Questi esempi derivano da una convinzione inaugurata dal nazismo del Novecento. Hitler si faceva spesso ritrarre affiancato dal busto del filosofo nel museo a lui dedicato a Weimar e vedeva in sé stesso l’eroe da lui profetizzato; e anche Mussolini si dedicò particolarmente allo studio delle sue opere, affascinato in particolar modo dal concetto di superuomo.
Le origini di questo malinteso risalgono alla morte di Nietzsche. Sua sorella Elizabeth, nazionalista e sposata con un agitatore antisemita, decise di pubblicare nel 1906 un’opera del fratello dal titolo La volontà di potenza, raccogliendo arbitrariamente una serie di scritti di Nietzsche che esaltavano temi come la guerra, la critica alla democrazia e all’uguaglianza, il mito del superuomo elevato al di sopra degli altri uomini e un certo antisemitismo, con lo scopo di far ben vedere la famiglia agli occhi degli esponenti del partito. Come fece notare Deleuze, Nietzsche probabilmente non avrebbe mai approvato una cosa del genere, anche perché con la sorella aveva un pessimo rapporto. Elizabeth e il marito fondarono in Paraguay una colonia di puri ariani, e Nietzsche si rifiutò addirittura di partecipare al loro matrimonio. Altro colpevole di questa distorsione fu Alfred Blaumer, nazista che, ancora prima di Heidegger, diede un’interpretazione politica della filosofia di Nietzsche, individuandolo come lo spirito del “realismo eroico” tedesco e profeta del nazismo, la perfetta giustificazione teorica di cui il Terzo Reich aveva bisogno.
Per comprendere come avvenne questa distorsione dei concetti nietzscheani, vale la pena nominare alcuni dei valori vitalistici estrapolati dal nazismo. Alla base del mondo, secondo Nietzsche, si trovano una serie di forze vitali che dominano ogni cosa. Queste forze, interagendo tra loro, creano dei rapporti che dovrebbero far scaturire nell’uomo un impulso vitale: la volontà di potenza, cioè volontà di affermazione e di dominio di sé stessi sulla vita. L’oltreuomo, termine che ora possiamo sostituire a “superuomo” grazie all’importante lavoro di traduzione di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, per evitare la possibile assimilazione del termine con l’uomo superiore di razza ariana, non è altro che la realizzazione estrema della volontà di potenza, il suo prodotto: un uomo rinnovato, come direbbe Deleuze, che ha saputo abbracciare l’affermazione della vita senza ricadere nel nichilismo e che va oltre i limiti tradizionali posti dalla metafisica.
In realtà, Nietzsche non fu assolutamente un apologeta della cultura e della patria tedesche. In Umano, troppo umano, egli prese le distanze dalla tradizione tedesca, interpretata come supremo arretramento e negazione della vita. La Germania rappresentava al meglio uno dei suoi più grandi obiettivi critici: la religione. Nietzsche, infatti, si considerava un acerrimo nemico dei teologi e del protestantesimo, che troppo a lungo avevano influenzato la filosofia.
Lo stesso discorso vale per l’antisemitismo, che Nietzsche non solo non ha approfondito nei suoi lavori, ma ha addirittura criticato. In una lettera del marzo 1887 rivolta a Theodor Fritsch, esponente dell’antisemitismo e in seguito deputato nazionalsocialista, Nietzsche scriveva: “[…] questa disgustosa invadenza di noiosi dilettanti che pretendono di dire la loro sul valore degli uomini e delle razze, queste continue e assurde falsificazioni e distorsioni di concetti così vaghi come germanesimo, semitico, ariano, cristiano, tedesco: tutto questo potrebbe farmi perdere la bonarietà ironica, con cui finora ho assistito alle velleità virtuose e ai fariseismi dei tedeschi d’oggi”. Se Nietzsche ha criticato qualcuno nei sui aforismi non ne ha mai fatto una questione di razza, ma di un processo di decadenza morale che interessava tutto l’Occidente e da cui non si poteva uscire, a suo dire, se non con una “trasvalutazione di tutti i valori”.
È proprio da qui che riparte Deleuze nel 1962, quando pubblica la sua prima monografia interamente dedicata all’autore, Nietzsche e la filosofia. Il suo scopo era ripercorrere la filosofia nietzscheana nella sua totalità, riorganizzandola arbitrariamente e dando alla maggior parte delle teorie una nuova e originale interpretazione. Era da quarant’anni che in Francia non venivano pubblicate opere su Nietzsche, tanto che, per distinguere la loro posizione, filosofi come Deleuze e Foucault passarono alla storia come “Nietzscheani di sinistra”. Deleuze era un filosofo di sinistra: nonostante non si fosse mai iscritto al Partito comunista francese (Pcf), la sua filosofia è sempre stata oggetto di rivendicazioni politiche. Soprattutto in seguito alla sua collaborazione con lo psicanalista Félix Guattari, con cui scrisse il ciclo di opere Capitalismo e schizofrenia, venne preso a modello da parte di molti gruppi antifascisti e militanti della sinistra europea, soprattutto francesi e italiani.
Ciò che è interessante notare è che nella Parigi deleuziana, nel periodo in cui egli decise di dedicarsi allo studio di Nietzsche, si stava assistendo ai primi fermenti del Maggio francese, movimento sessantottino dominato da manifestazioni, rivolte, rivendicazioni politiche oltre che filosofiche e sociali. A far scoppiare le proteste, il 13 maggio 1968, furono le politiche neoliberiste del governo gollista di Pompidou, in particolare la riforma dell’educazione. Il piano del governo francese era quello di collegare le università al mondo del lavoro, rendendo, secondo gli studenti, l’assetto dell’istruzione ancora più formale, individualista e sempre meno creativo. Anche i lavoratori scesero in piazza per l’insofferenza causata dal prolungato blocco dei salari – specialmente di donne, immigrati e operai. Una situazione simile a quella a cui assistiamo oggi.
È in questo spirito di ribellione che si colloca l’interesse per Nietzsche, che Deleuze stesso definì come “l’alba di una controcultura”. Il suo obiettivo era far risaltare l’aspetto critico di Nietzsche per renderlo protagonista di un momento storico che aveva bisogno di sentire la voce di chi, molti anni prima, per primo aveva messo in discussione i valori tradizionali e la morale dominante, teorizzando la necessità di abbracciare nuovi ideali e valori. Il filosofo tedesco disprezzava così intensamente la cultura, la storia, la politica nelle quali viveva, da sperare nel rapido declino dei vecchi ideali e nella nascita di un sistema completamene rinnovato.
Questa trasvalutazione riecheggia in tutta l’opera di Deleuze, ed è forse l’elemento che più avvicina, insieme alla volontà di potenza, l’opera di Nietzsche alla situazione politica del Sessantotto. Sul piano sociale, la personale rivendicazione di Deleuze era “Un po’ di possibile, sennò soffoco”. Si stava assistendo ad una spersonalizzazione del soggetto, che chiedeva più libertà, più immaginazione e più emancipazione e che individuò in quel clima culturale un’alternativa concreta alla vita ormai meccanicizzata del sistema industriale. Le proteste avevano tutte lo stesso intento: contestare l’autorità in quanto tale, fosse essa statale, morale o religiosa.
Riprendendo Nietzsche, Deleuze voleva fornire al soggetto del suo tempo una tesi etica alternativa a qualsiasi morale e valore superiore imposto, che risvegliasse il popolo e gli consegnasse una consapevolezza utile per far sentire la propria voce: un nuovo spirito, un supporto intellettuale alla necessità di cambiamento che era esattamente quello che serviva ai sessantottini e alle loro rivendicazioni. Il contributo di Nietzsche risulta fondamentale: l’unica via di fuga sembra rappresentata dal ripensamento della volontà di potenza come nuovo inizio.