A migliaia invadono quotidianamente le nostre città, formano gruppi che stazionano senza fare nulla in mezzo a vie e luoghi di passaggio già congestionati, disturbano i residenti con schiamazzi fino a tarda notte e sempre più spesso si rendono protagonisti di atti vandalici che occupano le prime pagine dei giornali. Sporcano i centri storici senza mostrare nessun rispetto per le tradizioni e la cultura del luogo che li ospita e costituiscono una piaga che sta portando a protestare gli abitanti di città sparse in tutto il mondo, tra Europa e Stati Uniti. No, non si tratta dei migranti, ma dei turisti. L’insofferenza è rivolta in particolare a quella tipologia di visitatori nata dall’incontro tra voli a basso costo e le case in affitto a prezzi competitivi su AirBnb. Non è solo il numero fuori controllo di persone che affollano i centri storici a spingere città come Barcellona, Parigi, Amsterdam, Madrid e Lisbona a cercare di mettere un tetto agli ingressi: è una lotta per il futuro, e non solo economico, per impedire che quei centri storici vengano trasformati in Disneyland vecchie di secoli, non-luoghi dove le case cambiano inquilino ogni due o tre giorni, le vie sono un susseguirsi di negozi e ristoranti acchiappa-turisti, e l’autenticità della cultura locale si è trasferita altrove, insieme agli abitanti.
Parigi, con le sue 65mila offerte di sistemazione su AirBnb, è la meta numero uno al mondo per gli utenti del portale. Un manna per i responsabili della piattaforma di home sharing con sede a San Francisco. Un terremoto per il tessuto sociale della città secondo le autorità francesi che, oltre a vietare per legge ai proprietari l’affitto delle seconde case, il 12 giugno hanno portato in tribunale AirBnb e piattaforme affini: l’accusa è di aver violato la norma che impone a chi vuole affittare un appartamento di registrarsi in comune, con la conseguente elusione delle tasse e l’infrazione della regola che impone un limite massimo di 120 notti l’anno per gli affitti a breve termine. In Italia, l’assenza per anni di una normativa e l’alta attrattiva turistica di molte città, hanno portato a casi come quello di Firenze, dove il 18% delle case del centro storico è ormai affittato in pianta stabile ai turisti “mordi e fuggi”. A Matera la percentuale sale addirittura al 25%. Così, i centri storici si stanno trasformando in grandi hotel a cielo aperto, dove non sono più i proprietari di una stanza libera ad approfittare della piattaforma per arrotondare, ma grandi investitori a fare palate di soldi comprando case su case per riconvertirle in sistemazioni turistiche. Una situazione che rischia di aggravarsi con la normativa introdotta dal Governo nel 2017 che impone il pagamento di una cedolare fissa del 21% per chi affitta sui portali di home sharing. Questo potrebbe allontanare dai portali chi ha una sola sistemazione in offerta, trasformando la sharing economy di AirBnb in un modello di oligopolio capitalistico 2.0. Il turismo di massa esiste comunque da prima di internet. Ha fatto scalpore la decisione del sindaco Luigi Brugnaro di limitare, da fine aprile, l’accesso alla città attraverso tornelli che regolassero la calca dei turisti e sensi unici obbligatori nei percorsi di visita. Una scelta che alcuni residenti invocavano da anni, mentre altri si sono fortemente opposti. La volontà è di arginare il flusso faticosamente gestibile di visitatori (25 milioni all’anno) che affollano la Laguna, con un impatto tale da portare l’Unesco a inserire il sito tra quelli a rischio scomparsa – una lista che comprende anche Aleppo e Damasco, in Siria. Allo stesso tempo, l’amministrazione ha autorizzato anche la costruzione di strutture da circa 800 posti letto alle porte della città: ecco Venezia trasformata in un parco a tema. È la stessa agenzia delle Nazioni unite a far presente che salvare Venezia significa prima di tutto salvare i veneziani, che nel centro storico sono rimasti in 54mila (erano 175mila nel 1951) a fronte dei 60mila visitatori giornalieri. Una fuga durata 50 anni, nell’indifferenza delle amministrazioni che si sono avvicendate nel capoluogo veneto, convinte che il turismo di massa possa rendere una città ricca e viva.
È sempre più evidente che i miliardi garantiti dal settore non valgono il rischio di rendere deserte le città. Anche per questo, a inizio 2017, quasi 150mila catalani hanno marciato per le strade di Barcellona scandendo lo slogan “meno turisti, più immigrati”. Un motto che non poteva che nascere in una grande città portuale, consapevole che è l’arrivo di nuovi abitanti e lo stratificarsi nei secoli di culture e tradizioni diverse a formare l’identità di un luogo e plasmarne il futuro. L’immigrazione, gestita con intelligenza, va a inserirsi nel tessuto urbano, spesso dando nuova vita a quartieri abbandonati dai precedenti abitanti. Un processo di arricchimento sociale, culturale e che, sul lungo periodo, può essere anche economico. Un fenomeno agli antipodi del guadagno facile promesso dall’industria turistica. In quest’ottica, la sindaca di Barcellona Ada Colau ha preso una decisione che guarda lontano: limitare il turismo di massa, chiedendo al governo più fondi per l’accoglienza dei migranti.
Nel 1990, la città catalana ha accolto poco più di un milione e mezzo di turisti. Con le Olimpiadi del 1992 è iniziato il boom. Così, nel 2017, il suo milione e mezzo di abitanti ha ospitato 32 milioni di turisti, con un guadagno di 30 miliardi di euro. Di questi, solo 8 milioni hanno dormito in albergo, mentre gli altri hanno preferito AirBnb. In 26 anni il terminal turistico del porto di Barcellona è diventato il più trafficato d’Europa, e il suo aeroporto il secondo per velocità di espansione. Questi numeri sono il sogno di qualunque ufficio del turismo. Eppure, secondo un recente sondaggio, gli abitanti di Barcellona vedono nell’afflusso incontrollato di visitatori la più grande minaccia per il futuro della città. Il Barrio gotico, cuore medievale della città, è stato quasi abbandonato dai suoi abitanti, esasperati dall’invasione dei vacanzieri e dall’aumento degli affitti delle case. Oltre al già citato effetto oligopolio, l’impennata degli appartamenti in offerta su AirBnb ha gravi ripercussioni sul mercato immobiliare, a Barcellona come nel resto del mondo. Gli economisti Kyle Barron, Edward Kung e Davide Proserpio, dell’UCLA, hanno dimostrato in uno studio che nelle zone dove le offerte di home sharing aumentano oltre il 10%, gli affitti crescono dello 0,5% l’anno. Allo stesso tempo, il prezzo delle case in vendita cresce dello 0,8%. I responsabili di AirBnb si difendono sostenendo che l’impennata dei prezzi del mercato immobiliare sia un vantaggio per i proprietari. Quello che la società californiana finge di ignorare è il circolo vizioso che ha innescato. L’aumento del costo delle abitazioni ne rende impossibile l’acquisto, salvo a chi può permetterselo come investimento per poi affittare, quasi sempre a turisti che pagano per pochi giorni quello che un normale residente pagherebbe in un mese. Il risultato sono quartieri, come il Barrio gotico, dove i residenti sono quasi scomparsi. I 150mila che hanno marciato per chiedere più migranti avevano in mente il Raval, un un’altra zona di Barcellona caratterizzata dalla sua identità multietnica. Quartiere di riferimento per l’immigrazione marocchina dei primi anni ’90, oggi ospita una numerosa comunità pakistana. Nonostante l’aspettativa di vita media sia sei anni più bassa rispetto alle aree benestanti della città, è qui che Barcellona vede gli elementi per tenere viva la sua identità culturale. Se nel 2000 gli stranieri erano il 2% degli abitanti, oggi sono il 18% (280mila circa). E i barcellonesi sarebbero ben felici di accoglierne ancora di più, mentre chiedono meno turisti. “El Turisme Mata Els Barris” recitano alcuni graffiti in catalano apparsi in città nei mesi scorsi. Il turismo, e non l’immigrazione, uccide i quartieri.
Anche se con reazioni più pacate, anche gli abitanti di Amsterdam iniziano a lamentare che essere da anni nella top ten delle città da visitare non sia una grande fortuna. Lo ammetteva lo stesso portavoce per gli affari economici del comune di Amsterdam, Sebastiaan Meijer, in un articolo del Guardian del novembre 2017: “La crisi economica del 2008 ha sferrato un duro colpo al nostro settore finanziario e abbiamo pensato che il turismo fosse un buon modo per riprenderci. Per anni abbiamo incentivato l’apertura di strutture alberghiere in città e portato avanti una campagna a livello globale per promuovere Amsterdam come destinazione turistica.” La pubblicità ha lavorato fin troppo bene, portando i visitatori dagli 11 milioni del 2005 ai 18 del 2016. Troppi da gestire per una città di 850mila abitanti con un centro storico del 1600 e stime di crescita che prevedono l’arrivo di 23 milioni di persone l’anno per il 2030. Un dato che suona come una maledizione per l’amministrazione che, secondo Meijer, “vuole che Amsterdam resti una città ospitale, mettendo un limite al turismo di massa.” Intanto il Comune a gennaio ha fissato un tetto massimo di 30 notti l’anno per i proprietari che vogliono affittare casa su AirBnb, oltre a promuovere sui siti istituzionali sistemazioni turistiche fuori dal centro storico della città.
Al rischio spopolamento e omologazione, la capitale olandese aggiunge anche l’effetto negativo del suo presentarsi come una sorta di Paese dei balocchi. Gli abitanti si lamentano di vivere un weekend che inizia il giovedì e finisce la domenica sera con il decollo degli ultimi voli low cost da Schiphol. Ma forse il vero colpo di grazia alla sopportazione degli olandesi è stata la comparsa nei canali di Amsterdam di tipiche gondole veneziane. Milioni di turisti raggiungono le città d’arte in cerca delle loro caratteristiche uniche, ma senza volerne davvero approfondire la cultura; così non si rendono conto che quello che vedono è un prodotto confezionato appositamente per loro, che di “tradizionale” e di autentico ha sempre meno. Nel 2017 un report del World economic forum ha stimato che siano 1,2 miliardi le persone che si sono spostate per una vacanza. Un tasso di crescita di quasi 50 milioni ogni anno, che per la maggior parte finisce per concentrare le proprie scelte tra le mete che da decenni occupano i primi posti nelle top ten. Una mole che, nonostante gli 8.600 miliardi di euro annui generati dall’industria turistica (il 10% del Pil mondiale), ha effetti sempre più devastanti ed evidenzia l’urgenza di mettere in campo un nuovo modello di turismo sostenibile.