Nella raccolta intitolata Le piccole virtù, la scrittrice Natalia Ginzburg affida a un breve racconto, intitolato “Ritratto d’un amico“, il ricordo di Cesare Pavese, morto suicida sette anni prima, il 27 agosto 1950. Natalia Ginzburg, pur parlando da un punto di vista soggettivo, nella scrittura del testo utilizza costantemente il plurale, si riferisce a Pavese come al “nostro amico”, attribuendo il ricordo non solo a una memoria condivisa anni prima con il marito, l’intellettuale antifascista Leone Ginzburg morto per mano dei nazisti nel 1944 nel carcere romano di Regina Coeli, ma anche con tutto il loro gruppo di amici.
Natalia Ginzburg, al secolo Natalia Levi, conosce Pavese proprio grazie al marito, con il quale lo scrittore ha frequentato a Torino il liceo classico D’Azeglio. Questo istituto è il luogo di incontro dei grandi esponenti della classe intellettuale piemontese del secolo scorso: lì fanno amicizia Ginzburg, Pavese, Tullio Pinelli, Norberto Bobbio, Vittorio Foa e Giulio Einaudi. Quest’ultimo, tra l’altro, lasciati i banchi di scuola, fonderà poi l’omonima casa editrice avvalendosi proprio della collaborazione dei suoi compagni.
Ginzburg non scrive il racconto “Ritratto d’un amico” per affidare ai posteri gli innegabili meriti della figura pubblica di uno dei più grandi autori italiani del Novecento, ma per elaborare il lutto di un gruppo di amici che ha perso troppo presto un compagno. Lo scritto è un ricordo commosso, colmo di pietà e dolore, sebbene espressi con il riserbo che caratterizza le opere di Ginzburg. Ciò che colpisce più di tutto il lettore, però, è che non si tratta di un testo indulgente. Ginzburg e gli altri rimproverano a Pavese alcuni suoi comportamenti: “Non riuscivamo a dirgli che vedevamo bene dove sbagliava: nel non volersi piegare ad amare il corso quotidiano dell’esistenza che procede uniforme, e apparentemente senza segreti”.
Il ricordo di Ginzburg appare ancora più intimo perché il nome di Pavese non è mai citato, come se la scrittrice abbia voluto seguire il filo di un dialogo interiore in cui non c’è bisogno di dare un nome all’oggetto del suo tormento. La figura di Pavese, in questo racconto, emerge con tutta la sua imperscrutabile personalità, dai tratti cangianti e imprevedibili: Ginzburg racconta dei suoi silenzi, incomprensibili anche a chi gli era più vicino, narra i suoi slanci di generosità rivolti a chi gli era estraneo, gli sgarbi che tanto fanno soffrire gli amici, alternati a momenti di dedizione quasi materna quando uno di loro ha bisogno di aiuto.
Il racconto non prescinde dalla città di Torino, dove tutto ha avuto inizio, e comincia con la descrizione del capoluogo piemontese, utilizzata, con una similitudine, per raccontare il carattere dello scrittore: “La nostra città rassomiglia, noi adesso ce ne accorgiamo, all’amico che abbiamo perduto e che l’aveva cara; è, come era lui, laboriosa, aggrondata in una sua operosità febbrile e testarda; ed è nello stesso tempo svogliata e disposta a oziare e a sognare”, scrive Ginzburg. “Nella città che gli rassomiglia, noi sentiamo rivivere il nostro amico dovunque andiamo; in ogni angolo e ad ogni svolta ci sembra che possa a un tratto apparire la sua alta figura dal cappotto scuro a martingala, la faccia nascosta nel bavero, il cappello calato sugli occhi”.
Ginzburg imputa la tristezza inconsolabile di Pavese al suo non voler “diventare adulto”. La malinconia dello scrittore è interpretata da lei come il frutto di una mai conclusa adolescenza: “Ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo – la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni”. La praticità tipica degli adulti, invocata da Ginzburg come rimedio ai tormenti dell’amico, però, risulta più un palliativo per chi gli sopravvive che una efficace medicina per chi decide di andarsene.
La reale difficoltà nel rapporto con l’amico Pavese è stata in realtà la sua riluttanza ad acconsentire al dialogo e al confronto con chi lo amava quando non stava bene: “Era, qualche volta, così triste, e noi avremmo pur voluto venirgli in aiuto: ma non ci permise mai una parola pietosa, un cenno di consolazione”, e aggiunge Ginzburg, “avremmo anche noi voluto insegnargli qualcosa, insegnargli a vivere in un modo più elementare e respirabile: ma non ci riuscì mai d’insegnargli nulla, perché quando tentavamo di esporgli le nostre ragioni, alzava una mano e diceva che lui sapeva già tutto”.
Il rapporto tra Natalia Ginzburg e Cesare Pavese non è stato privo di incomprensioni, i contrasti tra i due scrittori erano dovuti al modo antitetico con cui avevano deciso di condurre le rispettive esistenze. Pavese si affannava nel cercare soluzioni complesse e tortuose agli indecifrabili tormenti della vita, mentre Ginzburg ne accettava il peso con una dose di fatalismo che lo scrittore delle Langhe mal sopportava. Pavese annota questi suoi episodi di insofferenza nei confronti dell’amica e collega anche sul suo diario, pubblicato postumo con il titolo Il mestiere di vivere. Il 5 febbraio 1948 scrive: “La mia crescente antipatia per N. viene dal fatto che essa prende per granted [per scontate], con una spontaneità anch’essa granted, troppe cose della natura e della vita”.
Il racconto “Ritratto d’un amico”, al di là della valenza storica in quanto testimonianza della morte di uno degli autori più celebri eapprezzatidell’epoca contemporanea, riveste una grande importanza sociale perché tratta di un tema poco affrontato nella società italiana, in parte per pudore e in parte per retaggi religiosi: il suicidio. Il suicidio è un tema che per molto tempo è stato considerato un tabù, – e lo è tuttora, escluse rare eccezioni – anche a causa dell’influenza della cultura cattolica che lo considera un peccato mortale. Basti pensare che solo nel 1983, con la modifica del Codice di diritto canonico, la Chiesa ha annullato le “pene per il suicidio”, tra cui il divieto dei funerali e della sepoltura ecclesiastica.
Gli ultimi dati diffusi dall’Istat parlano di un problema reale che non può essere assolutamente taciuto: nonostante il numero complessivo delle persone che decidono di togliersi la vita sia in calo rispetto agli anni passati, in Italia avvengono oltre dieci suicidi al giorno e a ricorrere a questo estremo gesto sono più spesso gli uomini, con un rapporto di quattro a uno rispetto alle donne. Le cause sono molteplici, dagli esperti sono stati isolati cinquanta fattori di rischio, e la depressione è solo uno di questi. Molte realtà pubbliche e private che si occupano di dare assistenza e supporto affermano che il primo passo per affrontare il malessere consiste nello sviluppare un dialogo con qualcuno.
Un tema ancora meno dibattuto riguarda l’aiuto psicologico di cui necessitano amici e familiari che sopravvivono alla morte di un proprio caro. In “Racconto d’un amico”, Natalia Ginzburg, parlando del giorno in cui Pavese ha deciso di togliersi la vita, scrive: “Non c’era nessuno di noi”. Questa breve frase racchiude tutto il dolore di chi si incolpa di un’assenza che non è determinante per la scelta della persona amata, ma che tormenta incessantemente chi sopravvive e che necessita di un adeguato aiuto professionale.
Come scritto da Domenico Scarpa nella prefazione al libro Le piccole virtù, il suicidio improvviso di Pavese lasciò una traccia profonda nei libri di Natalia Ginzburg e fu forse all’origine di tutte le morti repentine dei suoi personaggi, come in Tutti i nostri ieri, scritto a soli due anni dalla morte dell’amico, e in Caro Michele e La città e la casa.
La prevenzione al suicidio, che consta di aiuto professionale, psicologico e in alcuni casi psichiatrico, è un tema che va affrontato privatamente, ma anche collettivamente, rifiutando di perpetrare i vecchi e nocivi retaggi della nostra cultura. È fondamentale dire che il silenzio e la negazione del problema sono proprio ciò che alimenta il malessere. Il “mal di vivere“, come il poeta Eugenio Montale chiamava la perdita di interesse nella vita, non è un non meglio identificato problema, ammantato di romanticismo, che riguarda solo gli artisti e men che meno un tabù di cui non si deve parlare per paura di urtare la sensibilità di qualcuno.