I rapper Luchè, Clementino e Enzo Dong, il neomelodico dei millennial Liberato, e ora il gruppo funk/fusion Nu Guinea: al di là dei canonici riferimenti a Gomorra o Elena Ferrante, Napoli è tornata sulla mappa degli ascolti delle nuove generazioni. Ciò significa che, al giorno d’oggi, la città riesce a incidere nell’immaginario collettivo fornendo una valida alternativa all’asse Milano-Roma. Nella cultura di massa degli ultimi dieci anni, Napoli è stata rappresentata in due soli modi: da un lato come luogo di emergenze e tragedie, sintetizzate ed estetizzate dalle varie incarnazioni del marchio Gomorra; dall’altro come città da cartolina che fa successo all’estero, una mitologia tornata alla ribalta grazie ai quattro libri de L’amica geniale di Elena Ferrante. Il trend pare invertito da due anni a questa parte, quando – un po’ per caso, un po’ per reale volontà di cambiamento – le varie realtà che incarnano la coolness partenopea sono riuscite a esprimere un’idea di città diversa, capace di mantenere la propria identità pur essendo aperta a riferimenti europei. Moda e musica sono i settori in cui il cambio di percezione, soprattutto per quanto riguarda le nuove generazioni, è maggiormente percepibile: c’è chi non esita a proclamare Napoli capitale dell’hype. Un hype che, a livello musicale, ha investito il duo Nu Guinea, fresco dell’esordio con Nuova Napoli. Si tratta di un disco nel cui suono riecheggia il funk scatenato di Tullio De Piscopo, rivisitato dal gusto della techno berlinese.
L’accoglienza di questo gioiellino del groove è stata molto positiva, ma anche solo qualche anno fa non sarebbe stato così. Per capire la rinascita napoletana è necessario fare qualche passo indietro.
Siamo nel 2015 e, dopo anni di attesa, la Boiler Room – brand di culto della musica elettronica –sbarca in Italia. La prima tappa è Milano, destinazione naturale per un evento patinato. Già si vocifera di una seconda. Alcuni pensano che verrà organizzata a Roma, dove le location suggestive abbondano, mentre altri propendono per Torino, con la solida base di pubblico che può offrire. Ma entrambi si sbagliano e quando viene diffusa la notizia dell’evento molti si mostrano sorpresi: la città prescelta è Napoli. In quel periodo il capoluogo campano è oggetto di una narrazione mediatica feroce: da una parte si evidenziano gli strascichi dell’emergenza rifiuti, dall’altra si dà conto dei nuovi gruppi criminali al potere. Se ci aggiungiamo i soliti pregiudizi sui meridionali il gioco è fatto. Sui social si scatena l’ironia – tutt’altro che bonaria – nei confronti dell’evento musicale. Non ci si riesce a capacitare del cortocircuito fra marchio internazionale e realtà locale percepita come degradata. In realtà il sottobosco dance dell’area è florido, e vanta grandi nomi anche a livello internazionale. Nella Boiler Room partenopea si esibiscono Joseph Capriati, Markantonio e Gaetano Parisio, nomi di prima grandezza sia per esperienza (sono in giro da 15-20 anni), sia per successo, avendo calcato alcuni dei più importanti palchi del mondo, da Londra a Ibiza. Alla fine il buon esito dell’evento ha avuto ragione sui detrattori, tanto da generare una seconda serata solo qualche mese dopo.
Un sostenitore di Boiler Room e del suo arrivo a Napoli è Lucio Aquilina, non solo fondatore dei Nu Guinea insieme a Massimo Di Lena, ma anche esponente di spicco della scena techno napoletana. I due vivono a Berlino dal 2014, insieme hanno pubblicato due EP e un album completo. Divisi fra house e world music, i due sembrano aver trovato l’equilibrio del suono in una ripresa filologica del jazz-funk napoletano, che vede i suoi numi tutelari nelle mille incarnazioni di Tullio De Piscopo e nell’instancabile lavoro di James Senese con i Napoli Centrale. I Nu Guinea partono dalle radici degli anni Settanta e Ottanta per aprirsi all’italo-disco con canzoni come Je Vulesse e Ddoje facce. Altri episodi, come Nuova Napoli e Disco Sole riprendono le architetture musicali prog di formazioni storiche quali gli Osanna e Il Balletto di bronzo. C’è anche spazio per la reinterpretazione del blues scomposto di Pino Daniele, in pezzi ritmati come Stann fore e A voce‘e Napule. Nel caso di Aquilina e Di Lena non si tratta di semplice retromania, ma piuttosto di rimodulazione di temi e figure del sound napoletano, fascinazioni del passato che guardano al futuro. Lo dimostra il set londinese del duo, in cui emerge la vena dance del progetto. All’interno del booklet si legge: “We recommend listening to Nuova Napoli while walking in the alleys of Naples’ historic center, around wet clothes hanging and street vendors on tiny three-wheelers.” (Consigliamo di ascoltare Nuova Napoli mentre camminate per i vicoli del centro storico, tra i panni appesi ad asciugare e i venditori ambulanti sulle ape car). Una dichiarazione di intenti che si muove sul doppio binario della città rinata: anima partenopea, sguardo internazionale.
Se i Nu Guinea sono il nome più caldo dell’estate molto lo si deve a Liberato. Non solo perché il duo ha aperto l’iconico concerto del 9 maggio sul lungomare di Napoli, ma anche perché il producer ha fatto da vero apripista per lo sdoganamento dell’immaginario partenopeo. La musica di Liberato è un fortunato matrimonio tra la tradizione neomelodica e le tendenze trap e R’n’b degli ultimi anni, ma non c’è solo questo. A livello visivo il progetto Liberato narra una città moderna e consapevole, in cui sono in primo piano le nuove generazioni. Inoltre racconta il multiculturalismo e la realtà LGBTQ+, come dimostrano i video di Gaiola portafortuna e Me staje appennenn’ amò. Senza dimenticare la costruzione di un immaginario iperrealista attraverso il profilo Instagram. L’attenzione è sulle possibilità di una città che guarda la futuro, e che vuole lasciarsi indietro l’abito malavitoso cucitogli sopra.
Questa esigenza traspare dai lavori di molti rapper campani. Il racconto di Secondigliano nei pezzi di Enzo Dong non manca di tinte forti, come nel caso di Ciro, ma in generale si respira la voglia di un superamento della narrazione cruda, che si esprime in canzoni quali Italia Uno e Singolo d’Oro, in cui il paesaggio delle case popolari è trasformato in palcoscenico.
Allo stesso modo Luchè, ex componente dello storico duo Co’sang, ha accantonato la cronaca del mondo criminale per aprirsi a un immaginario più ampio, tanto che vicino alle strade di Napoli si possono scorgere i palazzi di Londra, città in cui attualmente vive.
Poi c’è Vale Lambo, che allo skyline d’oltremanica non ha timore di accostare il rap intimista in dialetto. Partecipa al rinnovamento campano anche Capo Plaza, pur essendo salernitano. Grazie a una pedissequa ripresa dei canoni della trap, l’artista ventenne è riuscito a ottenere un successo che rivaleggia con Sfera e Ghali. D’altronde la storia raccontata dal giovane napoletano è quella del ragazzo del Sud che riesce a farcela. Forse è proprio questo il motore della rinascita partenopea: la voglia di non sentirsi inferiori, scrollandosi di dosso quel ritardo cronico che viene attribuito a tutto il Meridione. Sanare la frattura sul piano estetico è il primo passo per ridurre un gap che ci trasciniamo dietro come residuo atavico di un’epoca passata. Un immaginario che renda appetibile lo stile di vita meridionale – e non solo come risorsa da sfruttare in senso turistico – è lo strumento adatto per demistificare i luoghi comuni, e allo stesso tempo far rinascere nella popolazione del Sud un sentimento di appartenenza che poi si traduce in voglia di fare.
Milano è la città che detta le tendenze culturali del Paese, Roma vive del suo fascino eterno, pur fra mille problemi. A queste due si aggiunge Napoli, che costituisce un’alternativa capace di preservare le tradizioni e aprirsi all’Europa. I Millennial l’hanno capito grazie al sound che attraversa le loro orecchie e le immagini di cui fruiscono avidamente su YouTube. Sta a noi tradurre questo patrimonio simbolico in ricchezza reale.