Ci siamo tutti resi conto del fatto che su internet esiste una differenza molto marcata tra le generazioni che lo usano. Non è niente di strano, considerato che ci sono persone che hanno vissuto la maggior parte della loro vita senza nemmeno poter immaginare che un giorno avrebbero creato un profilo Facebook da riempire con video di animali carini, mentre altri sono nati con l’Adsl in casa. Il divario tra chi sa quando è appropriato mettere un like o scrivere qualcosa e chi invece usa la barra dei commenti come personale piccione viaggiatore o la propria timeline come un palcoscenico dove dare sfogo a tutti i tratti più imbarazzanti della sua personalità è talmente palese da essere diventata una vera e propria gag che separa ulteriormente le due categorie umane. Qualche anno fa infatti non c’era niente di più divertente che individuare un adulto che peccava di buongiornismo, che ti intasava la bacheca di cagnolini che sventolano cuori e condivideva notizie allucinanti pescate chissà dove. All’inizio questa cosa faceva ridere, come tutto su internet: c’è un momento in cui si individua un fenomeno e la sua innata comicità, che puntualmente si converte in qualcosa di terrificante. Così tutti quei sessantenni entusiasti per i video di ricette napoletane e pappagalli che cantano grandi hit sono diventati il cuore pulsante di una svolta politica su scala mondiale, e quello zio di Frascati che metteva like a qualsiasi cosa è diventato il più fedele sostenitore di Salvini, nonché condivisore di evidenti fake news sull’Africa e su chi la lascia per invaderci e rubarci il lavoro.
Di questa distorsione ce ne siamo accorti troppo tardi, quando ormai quel link alla storia di uno stupratore algerino picchiato ed evirato dalla comunità di Varese era già stato condiviso. In alcuni casi la responsabilità di chi è più giovane e più avvezzo al mezzo è stata messa in pratica con coscienza e alcuni di noi utenti “sani” – o semplicemente persone che sanno distinguere una bugia online da una notizia vera – siamo riusciti a mettere qualche toppa, spiegando a chi non ha ben capito come funziona internet cosa sta facendo mentre condivide un articolo palesemente falso o una immagine costruita su misura per scatenare odio e razzismo. Nell’universo di genitori e bambini questa incapacità di comprensione del mezzo, e la sua interpretazione fuorviante, dà spazio a una serie di fenomeni che rasentano la psicosi di massa. Molti credono che internet sia una sorta di generatore di demoni che infestano le teste dei propri figli fino a portarli a gesti estremi come sniffare preservativi per una challenge o a bere dalle pozzanghere, fino a indurli al suicidio.
Negli ultimi anni, infatti, ci sono susseguiti diversi episodi su scala mondiale in cui la paranoia genitoriale si è tramutata in una follia e in una condanna di internet totalmente distante dalla realtà. Fa abbastanza ridere notare che nelle generazioni più recenti, quelle nate dopo il 2010, per esempio, l’alienazione da device registri ormai percentuali preoccupanti,, ma per quelle nate prima del crollo del muro di Berlino il vero pericolo sia qualcosa come la Blue Whale. Di questa storia se ne è parlato molto, specialmente nel 2017, quando cominciò a circolare l’idea basata su fatti mai comprovati che un gioco nato su internet avesse portato diversi ragazzini al suicidio. In quel caso furono Le Iene a dare una bella spinta a questa leggenda metropolitana, mostrando video di finti suicidi che non avevano nulla a che fare con il gioco maledetto e raccontando di come la rete della Balena Azzurra fosse arrivata dalla Russia fino in Sudamerica, passando per l’Europa. Un recente articolo della Bbc ha dimostrato che nessun minorenne si è buttato dalla finestra per la challenge e che la Blue Whale è solo una leggenda metropolitana sfruttata dal suo ideatore, Philipp Budeikin, per sponsorizzare la sua musica. Le ripercussioni dell’operazione di marketing di Budeikin dimostrano quanto possa essere distante la percezione di un fenomeno incomprensibile che prende piede nel mondo di internet dalla realtà dei fatti.
Pochi mesi fa invece è stato il turno della Momo Challenge, un’altra bufala collegata ai demoni che infestano l’internet dei più piccoli, questa foresta maledetta in cui proliferano bestie feroci e strani video dai contenuti talmente terrificanti da indurre al suicidio. In questo caso la sfida che minacciava i più piccoli si svolgeva attraverso dei messaggi subliminali presenti in contenuti per bambini, come video di Peppa Pig nei quali appariva improvvisamente il volto di donna, che poi è stato appurato appartenesse alla statua di un artista giapponese esperto in effetti speciali. Effettivamente, la faccia di questa creatura non rassicura, e vedersela spuntare tra una maialina rosa che parla inglese con l’accento della regina Elisabetta e un animaletto colorato non è proprio l’intrattenimento ideale per dei bambini. Momo, questo essere maledetto, avrebbe contattato anche tramite WhatsApp le sue vittime, inducendole a compiere atti di autolesionismo fino al punto di indurle al suicidio. Kim Kardashian, forte dei suoi 133 milioni di follower, ha lanciato un appello da madre preoccupata di vedere i propri figli cadere nella trappola di questa sorta di donna-gallina con la frangia unta e gli occhi fuori dalle orbite. Diversi dipartimenti di sicurezza locali, sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti, hanno diffuso cartelli e messaggi di informazione sulla pericolosità di un eventuale incontro con la signora dei suicidi di WhatsApp. Ma è stato ampiamente provato che di questa fantomatica Momo non c’è traccia in nessuna chat pericolosa né in video online, tanto da spingere anche YouTube a smentire qualsiasi suo collegamento con questa psicosi generale che gli attribuiva l’incapacità di fermare il morbo potenzialmente letale per i più indifesi.
Alla radice di questa preoccupazione, oltre all’incapacità di distinguere ciò che è veramente nocivo da ciò che invece è solo frutto della fantasia della rete c’è anche l’ombra che aleggia sul mondo dei creepypasta e di quel famoso episodio del 2014. È successo nel Wisconsin, quando due adolescenti hanno accoltellato un’amica sotto consiglio della fantomatica creatura Slender Man. Questo caso è forse la conseguenza più grave di questa dimensione parallela popolata da persone molto giovani e ben inserite in un contesto alienante di racconti horror e leggende metropolitane inquietanti. L’omicidio in Wisconsin è un episodio unico, molto isolato dal resto della comunità web e dalle sue stranezze.
Piuttosto, al di là di singoli casi in cui minorenni decidono di impugnare coltelli sotto suggerimento di un personaggio di fantasia, evidentemente frutto di situazioni specifiche più che di catene di sant’Antonio per ammazzarsi tra adolescenti, il punto è che quel famoso gap generazionale trova sfogo anche in manifestazioni di spavento e apprensione inutili.
Manifestazioni che anzi incentivano a dare vita a nuove leggende metropolitane, approfittando della viralità con cui attecchiscono certi temi, specialmente quelli che minano la salute e la sicurezza dei bambini e dei più giovani. Perché è così che funziona: meno si capisce una cosa, più la si bolla come pericolosa. Meno risulta chiaro cosa sia effettivamente internet per le generazioni più giovani, più lo si vede come il testo di una rock band che se suonato al contrario induce a venerare Satana. Nel frattempo, mentre una madre apprensiva o un padre preoccupato pensano a come proteggere suo figlio da un video su YouTube di Peppa Pig infestato da presenze demoniache, le nuove generazioni sono vittime di bombardamenti pubblicitari costanti. Eppure non mi sembra che ci siano state le stesse reazioni isteriche quando è emerso che la popolarissima app di condivisione di canzoni Tik Tok è stata accusata – e multata per 5.7 milioni di dollari – per aver raccolto dati personali di tredicenni senza alcun consenso. Neppure quando si è scoperto che Facebook aveva trovato un modo, attraverso le sue app di giochi, di consentire ai minorenni di usare le credenziali dei propri genitori per sperperare soldi in attività come Angry Birds.
Mi viene in mente il caso recente di Achille Lauro che dopo Sanremo è stato perseguitato da Valerio Staffelli per una campagna di sensibilizzazione sulla pericolosità dei suoi testi, forieri di un modello di vita dedito alla droga, per via dell’espressione gergale “Rolls Royce” usata per indicare l’ecstasy. Di tutta questa faccenda, oltre al modo in cui Striscia la Notizia ha creato un caso per attirare pubblico, la cosa che più mi ha colpito è il fatto che se una canzone ascoltata dai giovani inneggia all’uso della droga – cosa che la musica pop ha sempre fatto dagli anni Sessanta circa se non prima – allora è demoniaca e pericolosa, mentre se la canzone di Lauro fosse stata pura nel suo significato, una semplice glorificazione dell’opulenza manifestata con macchine costose e inaccessibili ai più, allora sarebbe andato tutto bene. Personalmente non credo che né la versione che parla di droga né quella che parla di macchine costose abbia un reale impatto su chi ascolta, perché semplicemente la musica può essere anche questo: messaggi lanciati in una forma più o meno bella o accattivante, non necessariamente da cogliere alla lettera.
Allo stesso modo, internet contiene in sé zone oscure, pratiche pericolose come il bullismo o l’adescamento, ma soprattutto il germe per un’alienazione e una dipendenza dall’acquisto e dal consumo. I genitori che si preoccupano per una challenge inesistente dovrebbero piuttosto rendersi conto degli effetti sui loro figli quando lasciano che un’inserzione bombardi la loro mente, o di quanto stanno danneggiando la società quando si rifiutano di capire la portata di internet e si fanno fregare dalle fake news e bufale varie. Se tutti, nelle generazioni più avanti con l’età, ammettessero di non capire bene cosa succede quando aprono Facebook allora forse anche certi mostri sparirebbero.