All’inizio del secolo scorso, un’esistenza non coronata dal matrimonio per il genere femminile era sinonimo di fallimento. Se prima di allora il termine “zitella” aveva indicato “le donne mai sposate di tutte le età e soprattutto le giovani ancora in attesa di matrimonio”, nel Novecento cominciò ad assumere connotazioni sempre più negative, come scrive Maura Palazzi in Donne Sole. Storia dell’altra faccia d’Italia tra antico regime e società contemporanea (Mondadori, 1997).
Negli anni pre-unificazione le donne non sposate, indipendentemente dal rango, erano considerate al più vittime di circostanze personali o della sfortuna. All’epoca, infatti, come ha notato la storica Linda Reeder in un suo articolo uscito nel 2012 su Gender & History, erano gli scapoli – dipinti come una minaccia per la stabilità politica e sociale – a scatenare l’ansia nei dibattiti pubblici. L’identificazione dell’uomo non sposato come causa e conseguenza del malessere del Paese aveva origine dalle teorie politiche che vedevano nazione e famiglia come “due punti estremi d’una sola linea”, come sosteneva Mazzini nel 1860 in Dei doveri dell’uomo. Sposandosi, gli uomini davano prova di essere capaci di sacrificio, lealtà e amore per gli altri, mentre chi si ostinava a una vita da scapolo, consumata da desideri egoistici, non si rendeva degno di essere parte del corpo nazionale.
Queste idee trovavano supporto nei testi degli scienziati nel campo delle discipline allora emergenti come la psichiatria, la sociologia e la criminologia, nate in seno a quella che era la temperie culturale del positivismo. “Affermando che il matrimonio e la riproduzione segnano il culmine del normale sviluppo fisico e mentale di un uomo, le scienze psichiatriche italiane sono riuscite ad ancorare la visione di genere dello stato italiano a verità scientifiche in grado di saldare il concetto di virilità alla sfera domestica” scrive sempre Linda Reeder in un intervento contenuto all’interno dell’antologia Italian Sexualities Uncovered, 1789-1914 a cura di Valeria Paola Babini, Chiara Beccalossi e Lucy Riall. Per quanto riguardava le donne sole, invece, gli stessi scienziati rassicuravano che vivendo queste in uno stato di dipendenza permanente, erano protette dai rischi dell’età adulta.
Questo stato di cose, sempre secondo Reeder, ha cominciato a modificarsi a fine Ottocento, quando le preoccupazioni nei confronti degli scapoli si sono lentamente dissipate trasferendosi sulle donne. Entro la fine del secolo l’associazione dell’amore materno con una sana espressione della femminilità era diventata un luogo comune e gli esponenti della scienza positivista erano giunti alla conclusione che le donne single incontrassero ostacoli più grandi nel raggiungimento della piena maturità psicologica rispetto agli uomini. A questo proposito Reeder cita Silvio Venturi, senatore e direttore del manicomio provinciale di Girifalco, che nel suo studio sulla degenerazione psicosessuale scriveva: “Nella donna la funzione dell’utero domina completamente ogni altra funzione e il suo spirito è spesso un riflesso della funzione di quello stesso utero. La donna che non ama e non è moglie o madre è meno di una donna”.
Le valutazioni scientifiche sull’importanza del matrimonio nella definizione di una sana femminilità e i pericoli in termini connessi a una vita da single si sono insinuate senza troppe difficoltà nel discorso pubblico contribuendo alla coloritura negativa del termine “zitella”. Descritte come appassite e rancorose, nascoste dietro a un paravento da cui osservare le vite altrui come la zia zitella di Un matrimonio in provincia della Marchesa Colombi (1885), o gomito a gomito a criticare le giovani donne che passano sotto la finestra come nelle Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi (1934), le zitelle potevano suscitare solo scherno o compassione.
Fino alla seconda guerra mondiale, il matrimonio era l’aspirazione di quasi tutte le ragazze, anche perché “la vita solitaria era un’alternativa difficile, data l’inferiorità giuridica delle donne e la loro capacità limitata di guadagnarsi da vivere”, come sottolinea Perry Willson in Italiane. Biografia del Novecento. Sebbene le donne abbiano ottenuto nel 1945 il diritto di voto e a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta abbiano cominciato a guadagnare una maggior indipendenza lavorativa, le poche che rinunciavano alla dimensione domestica e materna non godevano comunque di buona reputazione.
Oggi il termine dispregiativo “zitella” è stato sostituito dal neutro “single” e, sebbene sia ancora possibile inciampare in qualche vecchio cliché, basta chiedere a Google per vedersi venire incontro titoli entusiasti sulla condizione delle donne sole: “Altro che zitelle: le donne single sono felici, soprattutto dopo i 45 anni” si legge su D di Repubblica a dicembre 2017; e un mese dopo su il Sole24ORE “Le donne? Felici di essere single”, e Amazon poi ci propone l’acquisto di Zitelle, il bello di vivere per conto proprio di Kate Bolik.
Osservando la zitella del nuovo millennio, secondo queste nuove e appassionate narrazioni, la prima cosa che salta all’occhio è la decisa operazione di makeover. Basta guardare le foto scelte per i servizi su di lei e si capisce che la ex zitella ormai single è diventata attraente e alla moda; via le grinze, l’aria arcigna e gli abiti austeri e mortificanti. Solo nel 2001 Bridget Jones era una trentenne sola e in sovrappeso, avvilita dai chili di troppo ma senza la forza di volontà sufficiente per smaltirli, incline a fumo e alcool e con un fiuto speciale per le situazioni imbarazzanti. Quindici anni dopo si ripresenta sullo schermo ormai quarantenne, sempre single ma finalmente magra, sicura di sé, lavorativamente affermata e con un guardaroba alla moda. Le single di oggi non solo sono belle e ben vestite, ma persino più forti e intelligenti e si sprecano i titoli di giornale sul binomio intelligenza-indipendenza, della serie: “Perché le donne intelligenti vogliono restare single?” o la lista dei dieci motivi per cui una donna forte non riesce proprio a trovare un uomo da tenere al suo fianco.
Bella evoluzione dai tempi dell’accoppiata zitellaggine-fallimento, eppure, a guardare bene, la single che ci viene incontro dalle pagine dei giornali sorge il dubbio che non sia un autentico modello di emancipazione. Intendiamoci, nessun rimpianto per la zitella e l’ordine patriarcale che l’ha messa al mondo, tuttavia in questa celebrazione c’è qualcosa di sospetto. Bella, intelligente, selettiva e indipendente, non ha bisogno di una relazione sentimentale perché la sua vita è già ricca di cose che la gratificano, come si legge sempre su D queste single “Si concentrano sul lavoro, sono felici di essere single e preferiscono dedicarsi alle proprie passioni rispetto all’avere una relazione stabile”.
Le donne di oggi sono sempre più emancipate e indipendenti, riescono a raggiungere risultati incredibili dal punto di vista professionale e, allo stesso tempo, ad avere una vita sociale molto attiva. Avendo una personalità forte e determinata, spesso non riescono a trovare un uomo capace di reggere il confronto e preferiscono rimanere single piuttosto che accontentarsi di una persona che non rispecchia il proprio ideale. Sono talmente “giuste” queste single, che secondo la rivista Elle, quando si fidanzano diventano “le migliori fidanzate di sempre”.
Dietro la single per scelta che ci viene raccontata (e che sicuramente per sua fortuna esiste pure), felicemente immersa in una vita di viaggi, cura di sé e soddisfazioni lavorative, però c’è la single, anzi, le single che non raggiungono incredibili risultati professionali, che non hanno il corpo, l’outfit e la carta di credito adeguati a percorrere il mondo come regine o che magari non hanno una personalità forte e determinata, ma che pure sono single per scelta o per casualità, eppure le storie che avrebbero da raccontare sembrano non interessare a nessuno e non meritarsi spazio nella narrazione mediatica.
Questa rappresentazione parziale nasconde evidentemente il privilegio che si porta dietro e, offrendosi come universale, non riconosce l’esistenza di altre categorie – definite dall’età e la classe sociale di appartenenza, ad esempio – che sovrapponendosi creano delle esistenze non riconducibili a quelle della donna colta e economicamente indipendente, non ha bisogno di nessuno per trovare il suo posto di diritto nella società.
Sembrerebbe che, nel momento stesso in cui le donne hanno cominciato a liberarsi dall’idea di matrimonio e famiglia come unico destino e traguardo esistenziale, invece di celebrare questa liberazione e esplorarne le possibilità, fosse già pronto un nuovo abito da cucirsi addosso, un altro modello femminile difficile da sostenere, almeno quanto quello della zitella biliosa o della signora. Il matrimonio o la perfezione, insomma. La scrittrice Samhita Mukhopadhyay in un articolo su The Nation osservava sorpresa che quando si parla di donne e amore si danno solo due alternative: “Sposati prima di invecchiare, o farai meglio a essere la persona single più felice che abbia mai camminato sul pianeta”.
La storia della single vincente, così come viene proposta, oltre a essere un modello per poche finisce per produrre l’ennesimo cliché piuttosto che dar vita a nuovi immaginari. Eppure, la condizione di single potrebbe essere un punto di partenza per ripensare e superare l’ideologia del matrimonio e della famiglia tradizionale. Nella pratica, infatti, le donne non sposate non vivono una condizione di perfetta solitudine, ma contano su altre relazioni che trascendono i vincoli di sangue o di contratto sociale. Si potrebbe guardare a queste forme di legame non riducibile alla famiglia per come viene tuttora riconosciuta da Stato e Chiesa, come stimolo di cambiamento sociale, interrogandone il potenziale e lasciando loro lo spazio per narrarsi, invece di farsi imbrigliare da facili stereotipi, per quanto glamour.