Il 29 maggio del 1993, una schiera di 16 ragazze tra i 15 e i 20 anni sfila sulla passerella del Centro culturale bosniaco e che non si tratti di una sfilata qualsiasi è subito chiaro: Sarajevo, la città in cui si tiene il concorso, è sottoposta da oltre un anno a quello che diventerà il più lungo assedio della storia, terminato il 26 febbraio del 1996. Organizzare un concorso di bellezza in un momento del genere sembra un’idea folle, eppure contribuisce a sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sulla guerra in corso nei Balcani, venendo rilanciata anche dai telegiornali occidentali.
Mentre in Italia si prepara il governo Ciampi e Federico Fellini ritira l’Oscar alla carriera, di là dall’Adriatico, l’esercito serbo-bosniaco – cioè le truppe di quel che rimane della Jugoslavia, che ha iniziato l’anno prima a perdere pezzi – ormai sostanzialmente in mano ai serbi, non accetta che anche la Bosnia abbia dichiarato l’indipendenza, riconosciuta dall’Unione Europea il giorno dopo l’inizio dei combattimenti tra serbo-bosniaci da un lato (la popolazione di etnia serba sul territorio bosniaco, cui oggi spetta una regione della Bosnia-Erzegovina, la Repubblica Srpska) e musulmani e croati dall’altro, che, male organizzati, si trovarono a difendere Sarajevo, ormai accerchiata. Da un anno i rifornimenti arrivano tramite tunnel sotterranei e i cecchini sparano per strada.
La sfilata è organizzata nel teatro sotterraneo del Centro culturale, con i mezzi a disposizione di una città allo stremo, in cui è la Croce Rossa a distribuire il cibo e le persone frugano tra i rifiuti per recuperare oggetti da vendere o da riutilizzare, quando riescono ad attraversare la strada senza farsi beccare dai cecchini. I cosmetici neanche a dirlo sono rari e vengono scambiati tra le ragazze che spesso portano cicatrici di guerra. Il titolo di “Miss Sarajevo assediata” va a Inela Nogic, allora diciassettenne e oggi designer ad Amsterdam, che è stata iscritta a sua insaputa dalla madre e poi ha accettato di partecipare, spronata dagli amici. Non ci sono premi, nessuna corona per la vincitrice, ma alla fine, sul palco, tutte le partecipanti si fanno fotografare esibendo uno striscione che recita “Don’t let them kill us”: non lasciate che ci uccidano.
Oggi, in Italia, riflettiamo giustamente sul senso di mettere ancora in vetrina delle ragazze semisvestite e dalla bellezza canonica per un po’ di share, ma all’epoca, in quel contesto, quella fu una vera e propria ventata d’aria fresca, un modo per sbeffeggiare la morte e riappropriarsi di una sorta di normalità che sembrava perduta. Il concorso di bellezza, infatti, è un modo per il pubblico di Sarajevo di dimenticare la realtà e pensare, invece, che tutto scorra tranquillo. Per le ragazze è un modo di recuperare per una sera la propria adolescenza interrotta e tornare a vedere il proprio corpo come un motivo di orgoglio e strumento di comunicazione, dimenticandone temporaneamente la funzione di scudo protettivo e fonte di dolore.
Leggerezza, scriveva Italo Calvino nelle sue celebri Lezioni Americane, non è superficialità, ma “planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. Nei momenti difficili diventa tanto più essenziale quanto più la situazione circostante si fa dura, nei momenti di sofferenza, epidemia, carestia, guerra. È il motivo, ad esempio, per cui i medici in ospedale, alle prese con malattie e lutti, scherzano tra loro con un humor nero apparentemente cinico, per esorcizzare la morte, per prendere le distanze da quanto altrimenti li schiaccerebbe. Ed è il motivo per cui in un anno come quello che abbiamo alle spalle in tanti si sono sentiti oppressi dalle sofferenze e dalla frustrazione di non poter sperimentare ed esprimere quella leggerezza, anche perché sarebbe potuta sembrare fuori luogo.
Potrebbe sembrare poco essenziale, ma invece il bisogno di leggerezza nella Sarajevo assediata è alle stelle: non a caso diversi osservatori internazionali, tra cui il giornalista italiano Paolo Rumiz, notano come, nonostante le condizioni – tra le macerie della città che si sgretola e la carenza di viveri – la cittadinanza mostri una gran voglia di vivere, e qualche volta persino rida attraversando la strada di corsa per evitare i cecchini. In Maschere per un massacro Rumiz racconta quella “testarda urbanità” che resiste alle restrizioni: “In guerra, la vera immagine di Sarajevo era la vita. Il suo centellinare ogni residuo comfort, il suo attaccamento testardo ai riti di un’antica vita borghese. A due passi dal rancido delle trincee, i teatri funzionavano, la gente sapeva di sapone, le donne mettevano il rossetto e facevano la messa in piega. Sarajevo è un signore in giacca e cravatta che esce perfettamente sbarbato da un rudere che è casa sua”. Sono tanti i modi in cui Sarajevo mostra questa voglia di normalità, in cui pratica la leggerezza come forma di resistenza: l’università, seppure danneggiata dai bombardamenti, rimane aperta; la vita culturale non si ferma: anzi, gli intellettuali locali fondano il Teatro di guerra di Sarajevo, che mette in scena opere per lo più dedicate al tema della resistenza; e, ancora, il Sarajevo Film Festival, oggi celebre polo attrattivo, nasce proprio sotto le bombe e i musicisti non smettono di registrare, immortalando nelle loro canzoni anche i suoni delle granate.
La storia del titolo di “Miss Sarajevo sotto assedio” avrà una certa eco anche grazie a un giovane regista, Bill Carter, arrivato in città per portare aiuti umanitari e dimenticare la sofferenza per la morte della fidanzata quando la guerra durava già da 15 mesi e rimasto poi per due anni, decidendo di fare quanto in suo potere per far ascoltare al mondo la voce dell’assedio. Riesce a mettersi in contatto con Bono Vox e gli propone l’idea di realizzare un documentario, cosa che al frontman degli U2 – da sempre impegnato – piace talmente tanto da accettare di finanziarlo e da scriverci anche una canzone. Sia il film che la canzone diventeranno famosi con il titolo di Miss Sarajevo e la composizione verrà suonata per la prima volta a Modena nel 1995, durante il Pavarotti & Friends, dagli U2 insieme al famoso tenore, terminando l’esecuzione con le parole dell’Himna slobodi, l’inno alla libertà composto nel Diciassettesimo secolo da Ivan Gundulic. L’esibizione, ripetuta a Sarajevo nel 1997, contribuisce a rendere la ferita dell’assedio di Sarajevo iconica e a portare la conoscenza della Guerra nei Balcani anche in Europa occidentale, dove gli echi di quel che sta succedendo pochi chilometri più a Est arrivano attutiti dall’incomprensibile intreccio improvvisamente esploso di etnie, lingue e religioni. Carter racconterà poi quell’esperienza anche in un libro dallo stesso titolo.
“È stata una cosa folle da fare durante una guerra, ma abbiamo cercato di vivere una vita normale. Era una sorta di meccanismo di difesa che avevamo tutti”, ha raccontato tempo fa Nogic, per la quale dopo i tanti appelli caduti nel vuoto, lo striscione fatto sfilare alla fine dalle ragazze fu un ultimo, estremo tentativo della città di farsi sentire, un altro modo di richiamare l’attenzione. Oggi, lo stereotipo della reginetta di bellezza la vuole rispondere che il proprio sogno è la pace nel mondo; Nogic, invece, all’epoca dice che non sa nemmeno se il giorno dopo sarebbe stata viva, un’affermazione che fa risuonare di una luce imbarazzante e cupa la candida dichiarazione della Miss Italia 2015, che disse che avrebbe voluto nascere nel 1942 per vedere come fosse la guerra.
Nell’inevitabile consapevolezza di Nogic di cosa significhi davvero vivere in guerra e allo stesso tempo nella sua voglia di vivere la propria giovinezza, ci sono la resistenza di un’intera città e un inno alla leggerezza e alla gioia che permettono di sopravvivere. Lo striscione – mostrato a fotografi e giornalisti come drammatica implorazione rivolta al mondo, in apparente contrasto con i sorrisi smaglianti delle ragazze in costume da bagno sgambato – è un messaggio che pretende di essere ascoltato e il concorso di bellezza, così fuori luogo, diventa un’affermazione della voglia di normalità e una pratica di resistenza.
Il grido d’aiuto, come abbiamo detto, susciterà una certa emozione, ma non potrà impedire il prosieguo dell’assedio e della guerra che, prima di concludersi, porterà a una delle più atroci stragi europee dalla fine del secondo conflitto mondiale: il genocidio di Srebrenica, compiuto sotto lo sguardo cieco dei soldati Onu. Nel frattempo, però, le immagini e le parole di quella sfilata di giovani sorridenti, con le cicatrici sulle gambe, in un sotterraneo di una città assediata fanno il giro del mondo, diventando un simbolo di resistenza contro la barbarie, ricordato ancora oggi.