La Resistenza di Mimma Bandiera, la partigiana che l’Italia ha dimenticato

Chiunque sia passato per Bologna non farà fatica a credere che il capoluogo emiliano ospiti il portico più lungo del mondo. Il portico di San Luca è lungo quasi quattro chilometri e collega il centro storico al santuario che gli dà il nome. Stando alle fonti ufficiali, il percorso è formato da 666 arcate (un numero esoterico, secondo molti non casuale) e comprende anche il passaggio per una via intitolata a una donna coraggiosa ed eroica: Irma “Mimma” Bandiera.

In via Irma Bandiera c’è una lapide, messa apposta per far notare ai passanti che quella strada non porta un nome qualsiasi. Sulla pietra, sotto la foto di una donna, sono incise queste parole: “Eroina nazionale 1915-1944. Il tuo ideale seppe vincere le torture e la morte. La libertà e la giovinezza offristi per la vita e il riscatto del popolo e dell’Italia. Solo l’immenso orgoglio attenua il fiero dolore dei compagni di lotta. Quanti ti conobbero e amarono, nel luogo del tuo sacrificio, a perenne ricordo posero”. La Resistenza ha avuto tante eroine e Mimma Bandiera è stata sicuramente una tra le più importanti: quelle parole, che oggi magari possono suonare pompose, sono lì per ricordarcelo.

Il muro che ospita la lapide non è stato scelto casualmente: quel palazzo elegante, appena fuori le mura, è stato testimone della nascita e della morte di quella donna tanto valorosa. Quando Irma Bandiera nacque nessuno, in quella casa al Meloncello, aveva voglia di festeggiare: era l’8 aprile del 1915 e anche Angelo Bandiera era stato chiamato a dare il suo contributo nella Grande Guerra. Non aveva neanche avuto il tempo di vedere Irma, la terza figlia, ma si ricordava il pianto di sua moglie, lasciata con altri due bambini piccoli al proprio destino. L’unica cosa che sembrava tirare su di morale la madre era il fatto che Irma fosse femmina: le donne non andavano in guerra e, pensava, mai ci sarebbero andate. Alla fine del conflitto “Mimma”, come la chiamavano tutti a casa, già camminava. La famiglia era benestante e il padre era tornato a essere un capomastro edile, molto rispettato in zona. L’infanzia e l’adolescenza di Irma passarono serene: era una persona colta e raffinata che si avviava a diventare una donna emancipata e moderna, anche se viveva in un periodo storico in cui questo sembrava difficile.

Irma “Mimma” Bandiera (a destra)

Se la prima guerra mondiale era entrata in casa Bandiera prendendosi suo padre, la seconda si portò via l’altro uomo amato da Irma: Federico. Costretto a partire come soldato per Creta, il fidanzato di Irma venne fatto prigioniero nel 1943. Imbarcato su una nave che doveva portare i prigionieri in Germania, Federico perse la vita in un bombardamento nelle acque greche e il suo corpo non fu mai ritrovato. Mimma allora aveva ventotto anni ed era abbastanza ricca per poter scappare in un Paese più sicuro o comunque restare in quell’inferno che era l’Italia fascista senza rischiare grosse ripercussioni. Sarebbe potuta essere una delle tante ragazze di cui la storia non si è troppo preoccupata di darci testimonianza: avrebbe vissuto in una neutralità relativamente tranquilla, abbastanza sicura di sopravvivere se si fosse fatta i fatti suoi. Doveva solo girare la testa dall’altra parte e sarebbe arrivata a vedere la fine di un conflitto che, in fondo, sembrava riguardarla solo tangenzialmente.

Cosa convinse Irma Bandiera ad agire diversamente da tante altre coetanee cresciute in un contesto simile non è difficile intuirlo. Il regime le aveva tolto l’amore ma sarebbe ingenuo credere che Mimma imbracciò il fucile solo perché spinta da un ideale romantico. Una ragazza tanto ambiziosa e intelligente aveva capito che non poteva sopportare di vivere in un Paese arcaico come l’Italia fascista. Già nel 1932, Mussolini aveva iniziato a rilasciare dichiarazioni che stroncavano sul nascere i sogni di Irma. Al giornalista tedesco Emil Ludwig, il Duce dichiarò: “La donna deve obbedire. […] La mia opinione della sua parte nello Stato è opposta a ogni femminismo. Nel nostro Stato essa non deve contare”.

Durante il Ventennio, la donna doveva essere solo angelo del focolare e rinunciare a qualunque altra aspirazione. La militante fascista Wanda Gorjux in un articolo del 1933, aveva riassunto efficacemente il ruolo delle italiane nelle idee della dittatura, dando una visione distorta dei tentativi di emancipazione tentati fino ad allora: “La Donna Italiana è essenzialmente madre. Non l’hanno sviata dal suo compito né la necessità del lavoro, né le forme nuove della vita; non ha avuto significato per la Donna Italiana né la lotta per il voto, né la campagna per la limitazione delle nascite”. Nel 1933 alle parole erano seguiti i fatti, con leggi che escludevano progressivamente le donne dal lavoro e da qualunque altra possibilità di realizzazione autonoma: lo Stato impose il divieto di superare il limite del 10% dei posti assegnati per legge alle donne negli impieghi pubblici e poi privati.

Irma Bandiera, che mai avrebbe rinunciato alle sue aspirazioni, un mondo del genere doveva provare a cambiarlo con ogni mezzo. Durante una visita dai parenti nella vicina Funo di Argelato, conobbe lo studente partigiano Dino Cipollani che la introdusse nel movimento di Resistenza. Il nome di battaglia le venne in mente senza troppe difficoltà: Mimma. Con buona pace della signora Argentina Manferrati in Bandiera, da quel momento in poi sua figlia la guerra la fece per davvero, anche se era una ragazza. Il contributo di Mimma alla causa fu importante anche perché appariva a tutti insospettabile: nessuno avrebbe mai immaginato che una ragazza così di buona famiglia potesse essere in realtà una staffetta, abituata a fare la spola tra le due basi della settima squadra Gap (Gruppi di azione patriottica). Irma si spostava dai sotterranei dell’ospedale Maggiore alla vecchia fabbrica vicina a Porta Lame, i luoghi dove si riunivano i “gappisti”, e portava documenti e armi da un luogo all’altro. Partecipò a diverse missioni rischiose e, all’insaputa dei genitori, ogni giorno lasciava casa sapendo che forse non sarebbe tornata.

La mattina del 7 agosto 1944, Irma decise di uscire per l’ultima volta dall’abitazione in cui era nata e cresciuta indossando un vestito rosso a pois bianchi. La ragazza che viveva in quella che si chiamava ancora via delle Camicie Nere 1, si opponeva al regime anche così: vestendosi colorata e sgargiante in un mondo dove il tono predominante era il nero fascista. Quel giorno d’estate, Irma Bandiera partì per la vicina Castelmaggiore carica di armi ben nascoste da consegnare. La missione sembrava andare per il meglio e, sulla via del ritorno, si fermò a casa dello zio a Funo d’Argelato. Qui però ricevette la visita dei soldati nazifascisti, che avevano iniziato a rastrellare l’area nei giorni precedenti. Qualcuno aveva fatto il suo nome e Mimma era stata arrestata con ancora nella borsa dei documenti falsificati da consegnare. Irma Bandiera sapeva molto e il protocollo gappista voleva che, in questi casi, tutti i partigiani in zona scappassero il più lontano possibile. Bisognava cautelarsi sempre dal pericolo di una delazione, anche se ai gappisti veniva detto di tacere a oltranza. La linea dei Gap era non dire nulla, ma qualcuno stremato dalle torture finiva sempre per confessare e agli altri toccava disperdersi immediatamente per non venire presi. Quella volta però nessuno si mosse dai propri nascondigli e dai rifugi già collaudati perché tutti sapevano di potersi fidare di Mimma: non c’era il minimo dubbio che Irma Bandiera si sarebbe fatta ammazzare piuttosto che rivelare qualcosa. E così fu.

Venne torturata per sette giorni e sette notti ininterrottamente. Non disse però mai nulla, a parte che sperava di morire presto, prima che la tentazione di salvarsi la vita non la facesse cedere. Alla fine dei sette giorni i suoi aguzzini finirono le idee, nessuna promessa di salvezza e nessuna violenza sembravano poter convincere quella ragazza esile eppure forte a parlare. Decisero allora di portarla davanti casa sua, le diedero un’ultima chance: sarebbe stato sufficiente dire un paio di nomi e tutto sarebbe tornato alla normalità. Nel suo libro Ribelli!, Pino Cacucci immagina che i fascisti, dopo averla scaraventata sul marciapiede sotto la finestra dei genitori le abbiano detto: “Ma ne vale la pena? Dacci qualche nome, e potrai entrare in casa, farti curare… Dietro questa finestra ci sono tua madre e tuo padre”. Mimma non rispose nulla neanche in quel momento, forse al massimo sussurrò la frase che molti le hanno attribuito poi: “Passeranno i morti, ma resteranno i sogni”. Dopo l’ennesimo rifiuto, gli uomini in camicia nera le impedirono di vedere altro: le cavarono gli occhi e, dopo averla accecata, svuotarono i caricatori dei loro mitra sul suo corpo ormai inerte sotto agli occhi dei suoi genitori, lasciando il cadavere in mezzo alla strada, alla luce del sole.

Scosso dall’evento, il commissario politico della 7a Gap, Alceste Giovannini (detto Cestino), andò a trovare Novella Corazza, preposta alla stampa clandestina. Corazza conosceva Irma Bandiera e fu lei a ricevere da Cestino l’incarico di fare un manifesto di denuncia per la cittadinanza bolognese. Erano passati già due giorni dall’assassinio, quando Bologna si riempì di fogli battuti a macchina che iniziavano così: “Cittadini di Bologna, la valorosa staffetta della 7a brigata Gap di Bologna, Irma Bandiera, è stata barbaramente assassinata dagli aguzzini nazifascisti”. Alla sua memoria venne intitolata anche la Prima Brigata Garibaldi Irma Bandiera, che operò a partire da quell’estate nel bolognese. Così, quel corpo che era stato abbandonato dai nazifascisti in mezzo alla strada per scoraggiare eventuali tentativi di emulazione, finì per produrre l’effetto contrario: Irma Bandiera divenne il simbolo della lotta condotta da migliaia di donne che ne seguirono l’esempio.

Nel 1975, il gruppo di urbanisti Città Nuovaricorderà il sacrificio di alcune di loro in un monumento nel parco di Villa Spada. Il nome di Mimma compare insieme a quello di altre 127 donne che hanno combattuto e dato la vita in nome della libertà dal regime fascista. Sono 128 storie diverse eppure simili, come quella di Adalgisa “Tosca” Gallerani che morì “sola tra sconosciuti perché non volle dire neppure il suo nome per timore di compromettere i collegamenti e il lavoro militare”.

L’importanza della figura di Irma Bandiera, che ispirò molte di quelle centinaia di donne, sta tutta nella motivazione per cui le venne conferita postuma la Medaglia d’Oro al Valor Militare: “Prima fra le donne bolognesi ad impugnare le armi per la lotta nel nome della libertà, si batté sempre con leonino coraggio. Catturata in combattimento dalle SS tedesche, sottoposta a feroci torture, non disse una parola che potesse compromettere i compagni. Dopo essere stata accecata, fu barbaramente trucidata sulla pubblica via. Eroina purissima degna delle virtù delle italiche donne, fu faro luminoso per tutti i Patrioti bolognesi nella guerra di Liberazione”.

La grande lezione di Irma Bandiera è riassunta bene dalla frase, che campeggia sul murales delle scuole elementari Luigi Bombicci, dedicatole nel 2017. Sono parole di un altro uomo che combattésoffrì per la nostra libertà, Sandro Pertini: “La coerenza è comportarsi come si è, e non come si è deciso di essere”. Irma Bandiera avrebbe potuto essere una donna diversa, le sarebbe bastato conformarsi alle imposizioni della dittatura, ma decise di sacrificare tutto quello che aveva per poter essere coerente fino in fondo con i suoi ideali. Morì per la libertà, anche solo per questo andrebbe ricordata come un esempio.

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