Molti della mia generazione, i nati tra gli anni Ottanta e i Novanta, oggi noti come “millennials”, sono cresciuti con le trasmissioni di MTV. Il canale musicale era un punto di riferimento per tanti di noi che amavano trascorrere i pomeriggi tra videoclip di canzoni e trasmissioni bislacche, tra un reality con burini italo americani e un episodio di Jackass. Tra i tanti show presenti nel palinsesto, uno, da preadolescente, mi colpiva in modo particolare: Teen Cribs – Case pazzesche. Si trattava di una sorta di proto-Riccanza in cui noi telespettatori potevamo accedere alle ville e alle vite di piccoli Richie Rich, tra sale con home cinema e distributori di pop-corn, dispense piene di qualsiasi schifezza alimentare, piscine olimpioniche, pony e ranch privati. L’intento della trasmissione era quello di farti godere dell’eccesso di benessere di questi piccoli ereditieri fortunati, in un breve viaggio attraverso l’esagerazione, l’opulenza, il consumismo sbandierato e la volgarità del parvenu coadiuvate da inquadrature estreme con GoPro. La sensazione di nausea e stucchevolezza che questi rampanti miliardari con ancora addosso le stelline dell’apparecchio riusciva a generare in meno di mezz’ora di spettacolo televisivo è ancora viva nei miei ricordi. Nonostante fossi piuttosto giovane e naive, quella rappresentazione quasi pornografica di spreco lussuoso stimolava in me una riflessione tanto banale quanto attuale, come spesso accade con le riflessioni più semplici e spontanee. La domanda che mi sorgeva era sempre la stessa: che bisogno c’è di avere così tanta roba, così tanto denaro, così tanto cibo, così tanti giocattoli, così tanto spazio?
È vero che le riflessioni che si fanno da piccoli sono spesso troppo ingenue per essere tenute in considerazione, ma ci sono alcune eccezioni. Può capitare per esempio che un pensiero scaturito da una pessima trasmissione statunitense per teenager diventi il fulcro di una teoria promulgata da un premio Nobel, e che su un quesito tanto elementare quanto scontato comincino a interrogarsi non soltanto ragazzini imbambolati davanti alla tv ma anche intellettuali e personaggi di rilievo. In un presente in cui la ricerca della giustizia e del benessere diffuso dovrebbe essere centrale – o perlomeno questo è quello che vuole comunicare al resto del mondo l’Occidente evoluto – l’idea che la ricchezza come valore assoluto possa essere messa in discussione, e che la sua redistribuzione possa passare anche attraverso limiti al suo accumulo, è infatti una possibilità di progresso e di miglioramento della società globale che potrebbe prendere piede. Per quanto infatti ogni ipotesi di scardinamento di un sistema sociale ed economico che non fa altro che arricchire i più ricchi e impoverire i più poveri sembri il sogno di una Miss Universo che si auspica una generica pace nel mondo, le prove del fatto che nessun essere umano abbia realmente bisogno di uno yacht per essere felice ci sono.
Nell’ipotesi più visionaria e utopistica di questa possibilità, quella di un mondo in cui non esistono differenze tali da fare sì che una parte del pianeta viva in stato di povertà mentre una percentuale irrisoria di persone gode di un lusso sfrenato e inutile, “abolire la ricchezza” sarebbe lo slogan da portare avanti in questa battaglia all’evidenza schiacciante delle diseguaglianze che ci circondano. Perché mai una società giusta e civile dovrebbe accettare il fatto che ventisei individui detengono la ricchezza di altri 6,8 miliardi di persone? Non esiste lavoro che giustifichi un guadagno tanto alto da non essere oggettivamente superfluo, da non fare sì che, superata una certa soglia di accumulo, ciò che si possiede non diventi altro che eccesso. In sostanza, non è vero che i soldi non fanno la felicità dal momento che garantiscono una vita decente, ma è vero che esiste un limite dopo il quale diventano troppi, come sostiene il premio Nobel Angus Deaton. Un salario annuo di 75mila dollari, secondo la ricerca dell’economista, garantisce all’essere umano uno stato di vita equilibrato, soddisfacente, misurato secondo le reali esigenze di consumo di ogni persona. Facile a dirsi, ovviamente, meno facile a farsi: vai a spiegare a personaggi come Flavio Briatore che i beni materiali e il loro accumulo sbandierato non sono l’unico valore della vita. Anzi, proprio questo tipo di personaggio assume nel nostro presente una sorta di aura ispirazionale, con copertine su Forbes e adulazioni trasversali: chi ce la fa, chi riesce a entrare in quella minuscola percentuale di uomini e donne che possono concedersi una vita extra lussuosa, per moltissimi sono modelli da imitare in quanto vincenti, di certo non da screditare.
Oltre una certa cifra, il denaro porta con sé una serie di effetti collaterali inevitabili, dalla corruzione all’eccessivo potere, fino al controllo di dinamiche sociali che non spetterebbe a singoli individui stabilire ma alla democrazia e alla pluralità: ricorre così di nuovo la banalità di un concetto elementare, ovvero che troppo potere nelle mani di poche persone equivale a un accentramento, e l’accentramento, lo abbiamo imparato dalla storia dell’uomo, non fa mai bene se non a chi sta ai vertici. Fare in modo che la ricchezza privata non superi certi limiti, più che una proposta per arginare il potenziale di libertà d’espressione di ogni imprenditore e ogni aspirante miliardario, sarebbe piuttosto un modo per fare sì che non si creino squilibri eccessivi, e che a tutti il minimo sia garantito. Ma questa ipotesi egualitaria, per quanto condivisa dalle persone che si rispecchiano ancora in un certo tipo di ideale fuori moda come i valori del socialismo, deve pur avere un punto di partenza concreto e praticabile. In sostanza, se sognare un mondo giusto può sembrare troppo romantico e demodé, se non addirittura naive, puntare invece a provvedimenti reali come una tassazione molto più alta dei ricchi non lo è affatto. Cosa c’è di più reale nel nostro mondo triste fatto di regole, e non di sogni, del sistema fiscale e dei provvedimenti che si possono attuare per fare sì che questo inneschi un circolo virtuoso di redistribuzione di ricchezza per il bene comune?
Negli Stati Uniti, Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Alexandra Ocasio-Cortez stanno proponendo dei sistemi di tassazione inediti per il sistema fiscale americano, da sempre pronto a favorire l’ascesa del tycoon ispirazionale e portavoce dell’American dream. Ocasio-Cortez ne fa una vera e propria questione morale, sottolineando il fatto che nello stesso Paese convivono persone che si muovono in jet privati e altre che vivono sotto la soglia della povertà. E non si tratta di zone del mondo distanti km, ma di differenze presenti all’interno di una stessa città. Non sono immorali i miliardari, è immorale il fatto che la società in cui viviamo conceda a loro di esistere. Eppure, ci sono tanti imprenditori con patrimoni immensi che hanno fatto della loro carriera anche una missione di beneficenza, e Bill Gates è forse il più popolare tra questi esempi virtuosi. Ma anche la beneficenza, oltre a essere in molti casi un ottimo modo per pulirsi la coscienza e fare un po’ di self-branding da primomondista, non fa altro che assecondare un sistema che invece andrebbe destrutturato alle sue radici. Le cene di gala con persone che indossano diamanti e bevono champagne da migliaia di dollari a bottiglia saranno sicuramente utili per quella fondazione che vuole garantire assistenza ospedaliera in Ghana, ma sarebbe molto più giusto che non ci fosse bisogno di raccogliere fondi per aggiustare i danni del nostro pianeta di cui i responsabili non sono certo gli alieni.
A questo proposito, persino il nemico pubblico numero uno dei sovranisti George Soros si sta muovendo per un futuro fiscale che decurti i privilegi economici di chi fa parte di quella percentuale molto ristretta di super ricchi. In un documento firmato dal magnate e altri diciotto miliardari americani, si chiede infatti una riforma che colpisca le élite finanziarie a favore di un investimento del denaro in chiave redistributiva, per una società più paritaria. Abolire la povertà di certo non è una missione che si mette in pratica con un documento firmato da miliardari americani, ma è comunque un primo passo verso un cambiamento, in particolare quello legato alle presidenziali statunitensi del 2020, che se muove da un Paese come gli Stati Uniti potrebbe fare da traino anche per il resto dell’Occidente. Una tassa sui grandi patrimoni è comunque un segno, non dico di cambiamento strutturale, ma quanto meno di presa di coscienza verso una necessità incombente, sia per quanto riguarda la questione delle enormi disparità sociali, sia per altri temi come quello dell’emergenza climatica – cosa che dalle nostre parti non sembra avere nessun tipo di spazio, considerato che anzi, il modello promulgato dall’attuale governo è quello di introdurre sistemi come la flat tax, che di redistributivo ha ben poco.
Per quanto possano essere infantili e semplici certe idee, per quanto sia piuttosto inutile e superficiale pensare cose come “ma se c’è la crisi perché non si stampano più soldi?”, mettere in discussione un sistema che presenta disfunzioni non è stupido. Credere che le disuguaglianze sociali possano sparire con un colpo di bacchetta magica sarebbe ingenuo , ma favorire politiche che possano fare sì che queste si attenuino, fino a estinguersi, non è affatto visionario. L’idea che possedere e accumulare sia l’unica ragione d’essere dell’uomo non soltanto è squallida, ma è anche deleteria per il benessere dei più. Certe cose si capiscono sin dalla scuola, quando siamo chiamati a condividere la merenda con il nostro compagno che l’ha dimenticata. Oltre un certo limite la ricchezza non è altro che superflua e sotto un certo limite la povertà è soltanto sofferenza e ingiustizia. Se lo capisce un bambino significa che è molto più semplice di come siamo abituati a credere.
Questo articolo è stato pubblicato la prima volta il 9 luglio 2019.