Vivere comporta consumare, anzi, consumarci. Vivere comporta morire. Sono due concetti inevitabilmente intrecciati, anche se costantemente la nostra mente opera un complesso sistema di rimozione del secondo. Ogni respiro che facciamo per restare in vita ci usura, e pure ci permette di continuare a esistere. Potremmo dire che la vita stessa opera una profonda dissonanza cognitiva in noi, se e quando ci soffermiamo a riflettere su questo dato di fatto. Come se per continuare a funzionare la nostra mente dovesse per forza di cose evitare di misurarsi con la sproporzione degli estremi di questo tensore che ci soggioga: vita e morte. Il nostro tempo sulla terra, infatti, è limitato, anche se nell’ultimo secolo grazie allo sviluppo della scienza e della tecnologia e, in parallelo, dell’innalzamento della qualità della vita e del benessere globale delle persone – in particolare nei Paesi ricchi – la nostra aspettativa di vita si è dilatata enormemente – peraltro con tutti i problemi ambientali che questa cosa ha comportato e comporterà. Da qui appare necessario un dialogo urgente sul tema della longevità. È ciò che si propone di fare il Milan Longevity Summit, col suo ricco programma di conferenze ed eventi fino al 27 marzo in varie sedi del capoluogo lombardo: un grande appuntamento scientifico internazionale e policentrico, a carattere divulgativo e aperto gratuitamente al grande pubblico, agli operatori di diversi settori e agli studenti, che coinvolgerà le più importanti istituzioni cittadine sui temi più interessanti del momento, a livello di ricerca e di investimenti: l’invecchiamento sano (Healthy Aging) e il prolungamento della vita (Longevity).
Il tema della longevità, infatti, soprattutto in un Paese come l’Italia, tra i più vecchi del mondo, è un tema fondamentale non solo a livello filosofico e antropologico, ma ancor di più a livello socio-economico, proprio perché va a toccare una serie di ambienti rilevanti e interconnessi, come l’alimentazione, e quindi indirettamente tutta la filiera produttiva; l’ecologia e la sostenibilità ambientale, e il modo in cui agenti inquinanti e clima influiscono sulla nostra salute e fisiologia; il benessere psicofisico, e quindi sport e attività fisica, ma anche la salute mentale ed emotiva; architettura e urbanistica, così come mobilità e trasporti; e ovviamente tutto il discorso delle neuroscienze legato alla cognizione e agli stimoli che possiamo dare al nostro cervello per mantenerlo plastico e attivo; ma anche le differenze di genere, le donne sembrano vivere più a lungo degli uomini, ma vivono peggio; progetti sociali legati all’anzianità e al fare comunità; il ruolo trasversale dell’AI; oltre ovviamente alla ricerca scientifica in campo medico, farmacologico, biotecnologico e bioingegneristico, settori estremamente interessanti dal punto di vista degli investimenti di vario livello.
Sessanta scienziati e scienziate, tra i più noti ed accreditati del mondo – come Nir Barzilai, Andrea Maier, Luigi Ferini Strambi, Ana Maria Cuervo, Valerio Orlando, Juan Carlos Izpisua-Belmonte, Luigi Ferrucci, Antonella Santuccione Chada, David Sinclair, Giuseppe Andreoni, Fabrizio D’adda Di Fagagna, Laura Niedernhofer, Michael Sagner, David Furman, Steve Horvath, Hannah Monyer – si trovano quindi a Milano per parlarci delle frontiere più avanzate della ricerca nel rallentamento del processo biologico dell’invecchiamento. Il cambiamento demografico esige infatti un approccio olistico, fondato su nuovi paradigmi sociali nel campo della politica assistenziale, dell’economia, del mondo del lavoro e dell’organizzazione delle città, e necessità un’urgente presa di coscienza politica e amministrativa. In quest’ottica, il Summit ospita tavole rotonde con la partecipazione di demografi, investitori, imprenditori di startup e sindaci di alcune delle città che stanno già sperimentando nuovi modelli di organizzazione sociale ispirata ad una diversa composizione demografica.
In molti casi, infatti, gli esseri umani si sono trovati a fare rapidamente i conti con questi anni e decenni di vita in più senza però saper bene cosa farsene, senza averne maturato una consapevolezza esperienziale e soprattutto una prassi a riguardo. Ovvero, le abitudini personali e sociali, strettamente legate alla nostra vita sensibile e percettiva (come tutto del resto), rimanevano – e spesso rimangono tuttora – invariate. Ci si consumava troppo in fretta, non ci si risparmiava, si viveva insomma come se si fosse comunque morti a un’età che oggi già saremmo sicuramente portati a considerare prematura. Non si facevano i conti con un piano di ammortamento fisiologico corretto. Così ci si trovava a sessant’anni già del tutto consumati, sia fisicamente che cognitivamente, inseriti tuttavia in un sistema sviluppato per tenerci in vita il più a lungo possibile. Il risultato di questa discrepanza va dal tremendo al terribile, con esseri umani costretti a vivere per decenni in condizioni insopportabili, o comunque estremamente dolorose e insoddisfacenti, in cui l’esistenza perde di libertà e interesse finendo per trasformarsi in una lunga trappola. Uno dei casi estremi di questo fenomeno sono le persone affette da Alzheimer, che a volte continuano a sopravvivere pur in condizioni inumane per lunghissimi periodi, drenando energie ai famigliari, fondi per l’assistenza necessaria, e al tempo stesso senza avere il minimo barlume di speranza per una possibile cura, dimenticati da tutti. Le malattie degenerative infatti sono uno dei punti focali della riflessione sulla longevità umana, così come il cancro, che in un certo senso può essere considerato tale in molti casi, e ci si sta impegnando sempre di più per trovare una soluzione. Come recita il solito vecchio adagio, che sicuramente vale per questo tema: meglio prevenire che curare.
A questo proposito, il Summit si pone come obiettivo anche quello di redigere un documento in dieci punti, il Milan Longevity Program, per aiutare legislatori e operatori del settore a migliorare lo stile di vita dell’intera popolazione, contribuendo così a portare verso una vecchiaia sana, attiva ed efficiente, non solo un’élite ma tutti gli strati della popolazione. È noto infatti da decenni che il reddito, così come il livello scolastico, influisca pesantemente sulla salute complessiva delle persone, e sui rischi di sviluppare gravi patologie. Uno studio condotto sulla popolazione maschile tra il 2002 e il 2006 dal London Health Observatory, infatti, ha tracciato una mappa su Londra dell’aspettativa di vita. Sulla Jubilee Line, tra Westminster e la periferica Canning Town, a sei fermate di metro, per ogni stop l’aspettativa di vita media cala di un anno, passando dai 79 anni del centro a 73 nell’East End – che pure nel frattempo si è gentrificato, quindi probabilmente già i dati saranno leggermente cambiati. Il particolare, tra i primi a studiare questo fenomeno già negli anni Settanta è stato Michael Marmot, medico e professore di Epidemiologia e Salute Pubblica al University College of London, con i suoi studi, Whitehall I e II, che prendono il nome della zona di Londra che ospita le sedi dei principali Ministeri e che hanno segnato la storia dell’epidemiologia legata all’analisi delle cause di malattia.
Marmot analizzò le diverse condizioni patologiche di circa 30mila dipendenti pubblici dei ministeri britannici, evidenziando una proporzionalità diretta tra il loro stato di salute e il posto occupato nella scala gerarchica lavorativa, e smentendo la credenza che le patologie cardiovascolari riguardassero soprattutto tra le persone con maggiori responsabilità. Alla base della piramide, secondo i risultati ottenuti dal medico, il rischio di morte per infarto era quattro volte superiore rispetto ai vertici dirigenziali, con una differenza sull’aspettativa di vita di anche dieci anni. Certo, è noto che il reddito medio influisca sulla salute delle persone, ma il gioco di correlazioni è molto più complesso, tanto che sembra che maggiori siano i punti di contatto positivi tra la persona e il mondo, intesi come possibilità lavorative, soddisfazione personale, grado di istruzione, reddito e senso di controllo sulla propria vita, migliori siano gli indicatori del suo stato di benessere.
Più si hanno relazioni, più si ha presa sul mondo, più ci si sente realizzati, più si sarà felici e quindi meno ci si ammalerà, e questo su larga scala sembra essere un dato di fatto. Bisogna quindi agire trasversalmente su più settori della nostra vita, sia a livello individuale, che ancor di più istituzionale, sviluppando sistemi e protocolli che aiutino le persone a sviluppare buone abitudini, anzi, sarebbe meglio dire “benefiche abitudini”, perché qui il punto non è il giudizio sociale, il metro per misurare lo stile di vita non deve essere moralista, e nemmeno etico, deve essere scientifico, scevro quindi da colpevolizzazione, vergogna e giudizio – forze che com’è noto non portano ad alcun miglioramento, ma a un vortice di disperazione, odio di sé ed esclusione sociale, portando quindi al risultato opposto da quello che il sistema sociale, per il suo bene e il suo stesso mantenersi in equilibrio, dovrebbe facilitare. Anche per questo l’ingresso agli incontri sarà libero, previa prenotazione. Le conferenze saranno trasmesse anche in diretta streaming e si svolgeranno in inglese e/o in italiano, in alcuni casi con servizio di traduzione simultanea.
Oggi appare evidente come sia necessario coltivare abitudini sane per vivere e invecchiare bene e in salute. Stiamo infatti rivalutando il concetto stesso di anzianità, non qualcosa di indesiderabile, ma un’età della vita da poter vivere con pienezza, anzi, magari persino migliore delle altre, più incerte e tormentate. Insomma, la vecchiaia non dev’essere più considerata come un limbo precedente alla morte. L’evoluzione sociale può liberarla dalla coltre di inutilità ed emarginazione sotto cui è stata nascosta. Certo, perché sia vissuta pienamente è necessario arrivarci nelle migliori condizioni possibili. È il desiderio di tutti, perché essere sani e felici porta vantaggi sia su scala intima, che collettiva. Per realizzarlo è necessario rivedere stereotipi culturali e convinzioni tuttora diffusi. Dormire poco per essere più produttivi fa male, e a lungo andare non farà essere più produttivi. Lo stesso vale per il sacrificare la propria salute per ottenere performance legate alla carriera, o allo studio. Possono sembrare piccole cose, ma giorno dopo giorno, il modo in cui spendiamo le ore, o addirittura i minuti, da dedicare al nostro corpo e alla nostra mente, ci dà forma, o nella peggiore delle ipotesi, ci segna, e ci insegna. Il benessere, la salute e l’efficienza fisica e mentale non sono qualcosa che interessa solo patiti di fitness o appassionati di yoga e meditazione, rappresentano un diritto di tutti, ed è arrivato il momento di sensibilizzare su larga scala la popolazione mondiale per cambiare un paradigma ormai superato e dannoso. Tutti gli ambiti sociali devono essere rivoluzionati a partire da quelle che ormai sono nettissime evidenze scientifiche per migliorare la qualità della nostra intera esistenza, perché oggi più che mai abbiamo la capacità e la possibilità di farlo.
Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con il Milan Longevity Summit – Riscrivere il tempo, in scena fino al 27 marzo, in cui oltre sessanta tra i più noti e affermati studiosi e studiose mondali esporranno le loro ricerche più all’avanguardia per rallentare il processo di invecchiamento e racconteranno di come scienza e tecnologia prolungheranno le nostre vite, cambiando l’organizzazione sociale, il lavoro, l’economia e la pianificazione urbana. La partecipazione agli incontri è gratuita, basta iscriversi su https://www.milanlongevitysummit.org/.