Il 27 gennaio è la giornata della memoria della Shoah: sei milioni di morti, che salgono ad almeno il doppio se consideriamo – e accade di rado – tutte le vittime che vennero internate e uccise nei lager. All’inizio vennero deportati prigionieri politici socialisti e comunisti: è il caso ad esempio di Ernst Thälmann, segretario generale del Kpd (Kommunistische Partei Deutschlands, Partito comunista tedesco), internato nel 1933 e ucciso a Buchenwald nel 1944. In seguito pentecostali protestanti, malati di mente, omosessuali, slavi, Rom e Sinti. Perfino i cosiddetti “Bastardi della Renania”, nati dai soldati francesi delle colonie africane che, giunti in Germania come forza di occupazione in seguito al Trattato di Versailles, fra il 1919 e il 1921 ebbero numerosi figli con donne del luogo. I numeri potrebbero essere anche più elevati di questi: secondo uno studio dell’Holocaust Memorial Museum di Washington, i cui risultati completi dovrebbero essere pubblicati entro il 2025, la cifra delle vittime degli stermini nazisti potrebbe salire a 15-20 milioni.
Ma la memoria di tutto questo orrore sembra essere sull’orlo di scomparire. Secondo una ricerca commissionata dalla Cnn nel 2018, un terzo dei cittadini di Austria, Francia, Germania, Gran Bretagna, Ungheria, Polonia e Svezia sa poco o nulla della Shoah. Inoltre, secondo un sondaggio realizzato dalla Commissione europea, il 53% dei cittadini del Vecchio continente (61% in Italia) crede che il negazionismo sia un problema. Negli Stati Uniti non va meglio: secondo il New York Times il 41% dei millennial non sa che furono 6 milioni gli ebrei morti durante gli anni dello sterminio nazista, mentre il 66% di loro non sa cosa sia Auschwitz. Ad oggi, stando ai dati Eurispes, il 15,6% degli italiani crede che la Shoah non sia mai esistita. Nel 2004 lo pensava solo il 2,7%.
L’inizio del boicottaggio nazista del commercio ebraico, 1 aprile 1933
Lo sterminio di milioni di persone da parte dei nazisti fu un fenomeno sfaccettato che interessò diversi gruppi sociali, religiosi, politici. Meriterebbe quindi di essere studiato e raccontato nei suoi molteplici aspetti. Invece, spesso, attorno alle celebrazioni per il Giorno della Memoria si verifica un appiattimento dell’informazione mainstream sui soliti luoghi comuni. Il primo, quello che si incontra più di frequente, è appunto quello che vede nei soli ebrei le vittime dello sterminio nazista. In realtà vennero coinvolte molte altre categorie di persone deportate; perdipiù, come è ovvio, non di rado una stessa persona poteva appartenere a più di una categoria: molti ebrei, ad esempio, erano attivi in organizzazioni socialiste o comuniste in Germania, Italia, Francia, Polonia o negli altri Stati occupati dai nazisti o governati da regimi collaborazionisti. Allo stesso modo, molti pentecostali vennero internati in quanto semplici oppositori del regime; altri vennero considerati malati di mente dai nazisti per l’abitudine dei fedeli di praticare la glossolalia, un atteggiamento rituale che prevede la ripetizione ritmata di parole di lingue diverse dalla propria durante i momenti di preghiera.
Un altro dei luoghi comuni più diffusi sulla Shoah è che gli ebrei avrebbero preferito cercare una qualche mediazione con i nazisti senza dare vita a episodi di autodifesa. È quanto afferma in un suo libretto divulgativo Yosef Hayim Yerushalmi, storico statunitense di religione ebraica ed esperto della storia dei marrani di Spagna. Ma si tratta di una visione parziale della questione: ci furono sì casi in cui i capi delle comunità ebraiche provarono a rapportarsi con l’occupante nazista, almeno in una prima fase, ma gli episodi di resistenza furono numerosi e più frequenti di quanto ci si potrebbe aspettare.Tra questi, la rivolta del ghetto di Varsavia fu sicuramente tra i più rilevanti. Quando nel 1942 i nazisti decisero di procedere con la cosiddetta “Soluzione Finale” – un piano di sterminio di tutta la popolazione ebraica nelle zone occupate – le deportazioni a Varsavia cominciarono quasi subito. Dal ghetto vennero deportate 265mila persone verso il campo di sterminio di Treblinka. In risposta ai rastrellamenti, un gruppo di giovani ebrei socialisti formò la Zob (Zydowska Organizacja Bojowa, Organizzazione combattente ebraica) guidata dal ventiquattrenne Mordechai Anielewicz. Il partito sionista di destra Betar si costituì in un’altra formazione armata, l’Unione combattente ebrea (Zydowski Zwiazek Wojskowy). Fra i due gruppi inizialmente sorsero le prevedibili tensioni legate alle marcate differenze politiche: tuttavia la situazione era talmente drammatica che i combattenti decisero di collaborare. Con grande difficoltà riuscirono a recuperare qualche pistola e pochissime armi automatiche dall’Esercito Nazionale Polacco, che conduceva azioni di guerriglia contro i nazisti ma fra le cui fila militavano anche diversi antisemiti, i quali non vedevano di certo di buon occhio la collaborazione con gli ebrei.
Nell’ottobre del 1942 i nazisti decisero di sgomberare completamente il ghetto di Varsavia deportando a Treblinka e Auschwitz gli oltre 50mila ebrei rimasti. Ma mentre una colonna fatta di 7mila persone stava per essere trasportata nei lager, un gruppo dello Zob riuscì a infiltrarsi, iniziando a fare fuoco sui nazisti. Quasi tutti i combattenti morirono nella sparatoria, ma l’attacco permise ai civili di disperdersi. Gli abitanti del ghetto cominciarono così a costruire bunker e rifugi per resistere agli attacchi dei nazisti, mentre questi ultimi si preparavano allo sterminio finale, previsto per il 19 aprile, la vigilia della Pasqua ebraica. I resistenti, male armati e numericamente inferiori ai battaglioni tedeschi, resistettero ai nazisti per quasi un mese. Il 16 maggio, dopo un bombardamento aereo che distrusse buona parte del ghetto, i tedeschi riuscirono a vincere la resistenza. Mentre i nazisti circondavano il bunker al numero 18 di via Mila, quartier generale della Zob, il leader Mordechai Anielewicz si suicidò con la sua fidanzata e gli altri dirigenti dell’organizzazione. La rivolta del ghetto di Varsavia, nonostante il tragico epilogo, ispirò episodi analoghi a Bialystok, in Polonia, e Minsk, nell’odierna Bielorussia.
Anche nei campi di concentramento si verificarono episodi di resistenza: due casi eclatanti furono, nel 1943, la Rivolta di Treblinka, in cui oltre trecento prigionieri riuscirono a fuggire dopo un furto di armi alle guardie; e la Rivolta di Sobibor, quando circa trecento persone fra ebrei e prigionieri di guerra dell’Armata Rossa sovietica riuscirono a fuggire dopo aver eliminato una dozzina di nazisti. Gli episodi di ribellione nei ghetti furono oltre un centinaio, e quelli nei campi di concentramento alcune decine, come dimostra una mappa redatta dagli storici dell’Holocaust Memorial Museum: segno che la resistenza al nazismo fu, anche tra gli ebrei, un atteggiamento costante che durò tutti gli anni della guerra, e che il carattere episodico fu dovuto soltanto alle difficoltà di comunicazione tra un ghetto e l’altro e alle terribili condizioni di vita nei lager. Inoltre, molti ebrei si inserirono a pieno titolo nella Resistenza europea: sia con proprie brigate combattenti, come avvenne per i quasi 20mila partigiani attivi nell’Europa orientale o con l’Armée Juive in Francia; sia con la partecipazione, come singoli o piccoli gruppi, ai movimenti dei rispettivi Paesi.
Il terzo e ultimo luogo comune sulla Shoah è quello di dipingere gli ebrei come un corpo separato rispetto alla società in cui vivevano. Niente di più falso: questa narrazione asseconda lo stereotipo nazista dell’ebreo estraneo alla cultura europea, che trama alle spalle di tedeschi e italiani. In realtà, gli ebrei erano perfettamente inseriti nella società e nel dibattito culturale e politico del tempo. Ad esempio moltissimi organizzatori e teorici del nascente movimento socialista in Europa erano ebrei: da Karl Marx a Lev Trotckij, fino a Rosa Luxemburg. In molti parteciparono alla formazione di brigate partigiane non solo e non tanto in quanto ebrei, ma in quanto membri di organizzazioni socialiste o comuniste che combatterono attivamente il nazismo. Ad esempio Eugenio Curiel, ebreo triestino, si iscrisse giovanissimo al Partito comunista, allora clandestino. Attivo nella Resistenza, promosse la formazione di un fronte antifascista giovanile trasversale alle forze che componevano il Comitato di liberazione nazionale e arrivò a dirigere L’Unità nella clandestinità. Riconosciuto grazie a un delatore il 24 febbraio 1944 da un gruppo di militi delle Brigate nere a Milano, tentò la fuga e venne ucciso sul posto. In un interessante studio di Gloria Arbib e Giorgio Secchi si indaga la partecipazione di oltre 200 ebrei alla Resistenza in Piemonte nelle fila delle Brigate Garibaldi.
Certo, non si può ignorare che ci furono anche collaborazionisti e delatori anche fra gli stessi ebrei e numerosi ebrei italiani sostennero l’ascesa del fascismo; alcuni furono perfino militanti neri della prima ora. Del resto, ci fu almeno un gruppo armato di ebrei che, in Palestina, combatteva gli inglesi e tentò di mettersi in contatto con i nazisti, ritenendoli un repressore preferibile rispetto ai britannici: si tratta della Banda Stern, contro cui si schierarono con una lettera aperta numerosi intellettuali ebrei di sinistra, come Albert Einstein o Hannah Arendt. Possiamo però affermare con sicurezza che un numero rilevante di ebrei – molto più rilevante dei collaborazionisti – si oppose armi in pugno al nazismo, costruendo una pagina della resistenza europea che meriterebbe oggi più che mai di essere non solo ricordata, ma studiata e analizzata a fondo.