Per arginare l’impatto psicologico della pandemia dobbiamo trasformarlo in stimolo vitale - THE VISION

L’edizione Mondadori de Il Signore delle Mosche di William Golding, pubblicato per la prima volta nel 1954, contiene un saggio nel quale l’autore britannico spiega il significato della sua opera più famosa. In questo breve saggio esprime le sue convinzioni pessimistiche riguardo alla natura umana, descrivendola come incapace di evolversi e di liberarsi da quei timori ancestrali che si porta dietro da secoli come una grottesca e “inutile armatura”. Non importa quale sia il grado di progresso scientifico e culturale raggiunto dalla civiltà, perché appena se ne presenta l’occasione l’uomo ritorna a essere vittima dei paraocchi impostigli dalle sue stesse paure irrazionali. Tale tendenza all’involuzione è descritta come “quella cosa che è morta ma che non vuole restare sepolta”, derivante “dalla mancanza di empatia tra esseri umani, dall’ignoranza dei fatti, dall’oggettivazione delle nostre inadeguatezze che ci spinge a cercare dei capri espiatori”. Golding aveva visto il mondo sprofondare nel baratro della seconda guerra mondiale, ma una riflessione simile trova giustificazione anche di fronte all’attuale pandemia. Il suo diffondersi è accompagnato da una ugualmente virale tendenza verso atteggiamenti primitivi, che trovano espressione anche nelle varie teorie moraliste, superstiziose, quando non proprio complottiste sull’origine del virus. Se nel caso delle epidemie in epoche passate tali reazioni potevano essere almeno in parte giustificate da una minore conoscenza del mondo, sorprende come anche tra noi, oggi, l’esplosione di forme di negazionismo e il bisogno di aggrapparsi a risposte solide e possibilmente immediate tendano a distogliere le persone da un approccio razionale alla realtà, che già il poeta latino Lucrezio, nel I secolo a. C., ammoniva di tenere nei confronti delle calamità naturali, per poter trovare soluzioni concrete e fare in modo che avessero meno possibilità di nuocerci.

Nello stesso anno di pubblicazione de Il Signore delle Mosche vide la luce anche un altro capolavoro della narrativa distopica dello scrittore statunitense Richard Matheson – da cui è stato tratto l’omonimo film del 2007 – Io sono leggenda, il cui scenario post-apocalittico è una metafora perfetta dello svuotarsi di strade e piazze dovuto al riacutizzarsi dell’emergenza sanitaria. Un aspetto che accomuna questi due romanzi, entrambi scritti in un’epoca in cui l’incombente minaccia atomica invitava a porsi domande sul progresso della scienza e della tecnologia e su come fosse possibile usarlo per evitare una catastrofe mondiale, è l’acume sociologico che li caratterizza, la capacità di entrambi gli autori di indagare gli aspetti più reconditi – e repressi se vogliamo – dell’animo umano. Mentre Golding lo fa attraverso un gruppo di bambini sperduti su un’isola, raccontando il loro disastroso tentativo di autogovernarsi, Matheson evoca l’angoscia dell’isolamento e dà a “quella cosa che è morta ma che non vuole restare sepolta” di cui parlava Golding le sembianze del vampirismo.

 

Richard Matheson

Lucida e implacabile, proprio come l’orrore che descrive, la prosa di Matheson ci attrae, scandagliando l’interiorità tormentata di Robert Neville, un uomo qualunque che ha perso tutto a causa di una misteriosa epidemia che ha trasformato le persone in vampiri, e che pure si ostina a voler vivere. Di giorno trova il suo passatempo nello sterminio sistematico di quante più creature delle tenebre riesce a infilzare a colpi di paletto. Niente di eroico, però, perché li sorprende nel sonno, prima che il tramonto del sole li faccia risvegliare, restandosene poi per tutta la notte nascosto nella sua casa ben protetta da tonnellate di aglio per tenerne lontani gli assalti.

Presto Neville capisce che non può accontentarsi delle spiegazioni offerte dalla superstizione, ma che ha più probabilità di sconfiggere queste creature assumendo un punto di vista scientifico. Infatti, la maggior parte delle persone prima di lui erano morte proprio perché vittime della disinformazione giornalistica che aveva contribuito, insieme alla paura, a fiaccare le menti: “Nella tipica, disperata caccia alla risposta immediata e di facile comprensione, le persone si erano affidate al ritorno verso devozioni primitive. Senza alcun esito. Non solo erano morte altrettanto velocemente delle altre, ma l’avevano fatto con il cuore spaventato, lasciando che il timore mortale scorresse nelle loro vene”. Così Neville si mette a studiare, arrivando a ridurre le leggende sui vampiri a una concatenazione di cause naturali, e ciò gli permette di rimanere a galla sulla realtà e di mantenere il proprio equilibrio razionale fino allo scioccante finale, quando le parti si invertono.

Io sono leggenda (2007)

Come suggerisce Matheson, il “vampiro” di cui bisogna realmente temere l’esistenza non si nasconde nelle leggende, ma nelle infinite manifestazioni di ignoranza, avidità e menzogna che dissanguano il mondo: “Il vampiro […] è forse peggiore del genitore che consegna alla società un figlio nevrotico che si dà alla politica? È forse peggiore dell’industriale che inaugura tardive fondamenta con il denaro guadagnato vendendo bombe e armi ai nazionalisti suicidi? È peggiore del distillatore che spaccia uno spurio succo alcolico al fine di ottundere ulteriormente le menti di coloro che, già da sobri, erano incapaci di un ragionamento logico? Fatti un bell’esame di coscienza, amore mio – è poi così malvagio, il vampiro? Succhia il sangue, tutto qui”.

Intrecciando in questo modo la distopia con l’ironia, il fantastico con un accurato e spietato realismo, come tutti i grandi scrittori di fantascienza e distopie dell’epoca, Matheson ha creato un romanzo spiazzante, unico, che fa a pezzi ogni nostra certezza. Permettendo di identificarsi al tempo stesso sia nel protagonista che negli antagonisti ci fa sentire come sia bello e fragile quell’attaccamento alla vita che ognuno di noi può riconoscere. Così come già aveva fatto Bram Stoker, Matheson ci mostra in chiave moderna quanto di umano ci sia in realtà nel mito del vampiro e, viceversa, l’orrore che può annidarsi nel cuore tormentato dell’uomo.

Io sono leggenda (2007)

L’alternativa che l’autore sembra suggerirci è quella che consiste nel convivere lucidamente con l’idea della propria vulnerabilità. Solo così, senza sfuggirla, diventa possibile sconfiggerla, non per trasformarsi in “leggenda”, ma per vivere meglio anche in una situazione come quella attuale. Le pagine di questo libro ci dicono che affrontare l’ignoto e l’inspiegabile senza perdere il contatto con la realtà è possibile. E oltre a fornirci possibili anticorpi per reagire all’impatto psicologico provocato dalla pandemia, possono anche darci lo spunto per una riflessione venata di umorismo su cosa significhi andare avanti in un mondo rovesciato, dove ogni valore può essere stravolto e spazzato via in un attimo.

Così come dobbiamo contrastare il rischio del contagio fisico con gli opportuni comportamenti, allo stesso modo, se vogliamo continuare a essere liberi, dobbiamo esercitare il senso critico, per opporci al contagio psicologico di quei modi di pensare disfunzionali che rischiano di sabotare la nostra vita. Proprio come vampiri, questi atteggiamenti retrogradi non vogliono saperne di morire e continuano a infettare il nostro mondo, nutrendosi dell’energia che dovrebbe invece servirci per vivere e contribuire a cambiare le cose. Armati non di croce e paletto appuntito, ma di raziocinio e ironia, possiamo forse disinnescarli e impedire che facciano più danni di quanti non ne faccia, già da sola, la natura, che volenti o nolenti non possiamo davvero controllare, ma semplicemente adattarci a essa.

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