La matematica è una delle materie più prestigiose e riconosciute, eppure, in Italia – pur essendo il Paese di alcuni grandi matematici, fisici e scienziati – viene snobbata o tenuta a debita distanza. Snobbata dal mondo della cultura umanistica (lontani i tempi in cui i grandi scrittori erano anche ingegneri o chimici e mescolavano nella loro narrazione la sensibilità scientifica); tenuta a debita distanza da chi non ha avuto modo di conoscerla e scoprirla, con una sorta di rispetto ossequioso che fa sì che per timore di non capirci niente e sentirci stupidi e insufficienti agli occhi degli altri, ce ne stiamo alla larga. Spesso ho sentito laureati in lettere, in storia, in filosofia, vantarsi di non saper fare un’equazione e diverse persone dal curriculum notevole non sono poi così pratiche con le percentuali. Io stessa, pur avendo fatto il liceo scientifico e aver sostenuto all’università vari esami STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), provo ancora una sorta di orrendo panico ogni volta che apro un libro – che non sia prettamente divulgativo – di meccanica razionale, o vedo il simbolo di un integrale.
Sono sempre stata affascinata dalla matematica come linguaggio e mi sono sempre sentita colpevole per non averla mai studiata ed esercitata quanto avrei dovuto per raggiungere il livello che avrei voluto – o ritenuto sufficiente. Oggi mi sembra un’enorme debolezza. Ma d’altronde dicono che non si possa sapere tutto. Forse la conformazione del mio cervello e della mia mente è matematico-refrattaria, o forse nel mio percorso ho sempre incontrato gli insegnanti con cui non mi sono trovata bene, proprio nel campo in cui per varie ragioni avrei avuto bisogno di più aiuto o fiducia, o forse l’ambiente di studio non era idoneo. Altre materie, pur con insegnanti incapaci, le ho imparate e studiate con passione, forse semplicemente perché erano più nelle mie corde.
Il motivo è che molte persone in tutto il mondo – tra cui me, evidentemente – soffrono di ansia matematica, o matofobia. Secondo un ampio studio guidato da Nathan Lau, dell’Università dell’Ontario, e pubblicato all’inizio dell’anno su Proceedings of the National Academy of Sciences, questo sarebbe un problema globale e sempre più in aumento, anche perché sembrerebbe “contagiosa”, propagandosi nella stessa classe, o addirittura nella stessa scuola. Lau e il suo team hanno raccolto dati su un campione di 1.175.515 studenti che hanno preso parte a tre ricerche internazionali. È così emerso che gli studenti di Paesi con i più alti livelli di ansia da matematica tendono a confermare i voti più bassi in questa materia. L’indicatore più forte legato all’ansia da matematica era poi collegato alla percezione degli insegnanti da parte degli studenti: quelli con minore fiducia negli insegnanti tendevano a sentirsi più ansiosi. Anche una grande quantità di compiti per casa e il coinvolgimento dei genitori nel portarli a termine contribuivano a favorire e sviluppare l’ansia da matematica, anche se in misura minore.
Sembra che quanto più una cultura lasci margine all’incertezza tanto più basso sia il profitto in matematica dei suoi studenti. “Non sappiamo se vi sia una relazione causale, ma un’ipotesi è che nei Paesi con un profitto più alto gli insegnanti abbiano un metodo più organizzato di insegnare la loro materia. Forse, i ragazzi con ansia da matematica preferiscono che vi siano meno sorprese, come quella di essere chiamati a un’interrogazione o a risolvere un problema alla lavagna”. Lo studio dimostra che l’ansia da matematica non è soltanto un fenomeno individuale che colpisce il singolo profitto di una persona, ma si collega strettamente ad altri fattori contestuali, come la fiducia nel proprio insegnante, la fiducia dell’insegnante nella padronanza della materia che insegna e la quantità di compiti a casa, con il corollario aggiuntivo del coinvolgimento dei genitori nel portarli a termine.
Al tempo stesso, il professor Denes Szucs, vicedirettore dell’University of Cambridge’s Centre for Neuroscience in Education, ha intervistato 1700 studenti britannici, scoprendo a sua volta che la percezione della matematica è più complessa rispetto alle altre materie e che anche gli insegnanti giocano un ruolo decisivo, dal momento che gli studenti colpiti da ansia da matematica testimoniano di percepire difficoltà per quanto concerne le diverse metodologie di insegnamento della matematica.
L’ansia da matematica è “una sensazione di tensione e ansia che interferisce con la manipolazione dei numeri e con la soluzione dei problemi matematici in un’enorme varietà di situazioni, sia nella vita quotidiana che a scuola”. Si ritiene che una grave ansia da matematica colpisca tra il 2 e il 6% degli studenti britannici delle scuole superiori secondarie, anche se uno studio rileva che un terzo degli studenti britannici fa “notevole esperienza” di ansia da matematica, mentre il 19% ha la tendenza all’ansia ma non mostra segni chiari di disturbo. In Italia, nel 2022 solo il 54% degli studenti di seconda superiore ha raggiunto almeno il livello base ai test Invalsi, con una differenza negativa di 8 punti percentuali rispetto al 2018 e al 2019. Anche qui si registra un divario tra Nord e Sud, dove 6 studenti su 10 non riescono a raggiungere i livelli richiesti al termine della seconda superiore.
Le studentesse tendono a esprimere più ansia da matematica rispetto agli studenti, ma secondo gli studi questo gender gap non si manifesterebbe prima dell’adolescenza. In Italia, in realtà, stando agli ultimi test Invalsi, già dalla II primaria – dopo soli due anni di scuola – è possibile riscontrare un divario di genere a sfavore delle bambine per quanto riguarda la matematica, di -1,3 punti. L’intensità poi cresce anno dopo anni. Sarebbe quindi fondamentale, come sottolinea lo stesso documento, adottare misure per ridurre questo problema fin dai primissimi anni di scuola. A questo quadro poi, in alcuni casi, si aggiunge la discalculia, che è una difficoltà cognitiva persistente e specifica nella comprensione dei numeri. Tuttavia, l’angoscia e il pensiero di non farcela (che evidentemente nelle ragazze è più alto, perché la società non si aspetta che una donna sia brava a fare i calcoli o ad assemblare computer, ma colpisce anche le minoranze etniche) possono nutrire l’ansia da matematica fino a limitare le risorse cognitive dell’individuo, ottenendo un risultato simile.
Ci sarebbero quindi gruppi di persone che non solo non vengono sostenuti e spronati, direttamente o indirettamente, ma vengono addirittura ostacolati nel loro percorso formativo e accademico, perché da loro non ci si aspetta l’eccellenza nelle Stem o perché il sistema preferisce escluderle deliberatamente – d’altronde questo non è un segreto, basti pensare alle dichiarazioni di certi scienziati contro le loro colleghe. Secondo uno studio del 2018 condotto dall’Unesco, la percentuale delle ricercatrici era del 28%; e nel biennio 2014-2016 solo il 30% di tutte le studentesse del mondo aveva scelto discipline Stem per i gradi formativi più alti, arrivando addirittura al 3% per materie come l’informatica. La National Science Foundation, poi, nel 2019 ha rilevato un dato rappresentativo del fenomeno: sebbene il 38,5% delle persone che avevano ottenuto il dottorato in ingegneria e materie scientifiche negli Stati Uniti fosse donna, osservando le varie posizioni accademiche, i titolari di dottorato maschi avevano superato le loro controparti femminili in tutte le principali posizioni nel 2019. Sembra quindi che le donne durante il loro percorso – anche quando riescono appunto a intraprenderlo, cosa già di per sé non scontata – si fermino, o vengano fermate. Il motivo psicologico di questo fenomeno sembrerebbe il calo di autostima e di ambizione, dovuto a una mancanza di modelli da seguire – oltre che, mi permetto di aggiungere, le continue umiliazioni, che non tutte sono in grado di assorbire senza subirne danni.
Le discipline Stem, dall’ingegneria alla fisica, passando per l’astrofisica e per la matematica pura, sono notoriamente ambiti maschili e maschilisti. Una delle questioni cruciali dell’insegnamento di qualsiasi materia – in particolare per la matematica, come hanno evidenziato gli studi – è la modalità comunicativa che si adotta per farlo. Il tono di voce, le parole che si scelgono. C’è modo e modo di parlare di storia, di letteratura, di sistemi costruttivi, così come di fisica e di simulazioni numeriche e, purtroppo, chiunque abbia portato avanti uno o più percorsi universitari, anche umanistici, da Lettere ad Architettura, Psicologia o Filosofia, avrà incontrato dei professori il cui comportamento, se spostato da dietro una cattedra, e inserito in qualsiasi altro contesto sarebbe stato percepito – a ragione – come profondamente abusante, nevrotico e irrispettoso, sicuramente fuori luogo. Per molti studenti, trovarsi di fronte a personaggi del genere, costretti a sostenere magari un esame orale con loro, genera un disagio e un’ansia che rischia di essere invalidante, o comunque profondamente dolorosa.
In generale, negli ambiti molto competitivi, e in cui le competenze sono facilmente misurabili, l’ambiente ha livelli di tolleranza all’errore o alla lentezza molto bassi, oltre a essere ben poco generoso, sia dal punto di vista pedagogico che tra gli stessi studenti, che nei gruppi di studio finiscono per comportarsi imitando il ruolo dispotico e umiliante dei loro professori. Questo, però, fa sì che tutto il gruppo ottenga risultati peggiori. Ricordo quando al liceo, il professore di Chimica, non faceva altro che dirci, “come è ovvio”, “è facile capire che”, per di più senza spiegarci – credo non fosse semplice incapacità ma una sorta di sadismo – come fare la più semplice – che semplice non è, se è la prima volta che la fai – delle ossido-riduzioni. Tutta la classe aveva la media del 4. Ironicamente tra i docenti più sensibili e inclusivi che ho incontrato all’università sono stati due uomini, che insegnavano Matematica applicata e Fisica, e coi quali sostenere due esami – che ora mi sembrerebbero fantascientifici – è stata una normale situazione sfidante della vita, ma senza stress.
Uno dei blocchi che ho sempre riscontrato studiando è il capire la necessità per cui si sta facendo una certa cosa, oppure non riuscire a trovarne i significati che ne stanno alla base. La semplice competizione non mi ha mai spronata. Ad esempio, qualcosa nel mio cervello mi rendeva estremamente difficile riuscire a capire il significato geometrico della derivata – come risulta impossibile per una persona stonata riconoscere un intervallo di terza, o di settima; oppure per una persona con un’intelligenza musicale riuscire a leggere una sezione orizzontale. Non riuscivo a dare concretezza a quei simboli. D’altronde, imparare la matematica, alle medie e poi alle superiori e all’università, è come imparare l’alfabeto a quindici anni. Il fascino della matematica lo iniziai a capire il primo anno di università, proprio al corso di Matematica applicata. Non capivo bene il perché, ma quel mio professore sapeva scegliere le parole giuste per svelare simboli incomprensibili e lo faceva sorridendo, con un tono di voce sempre morbido e pacato, ci insegnava cose molto difficili rispettando la nostra intelligenza e la nostra capacità di capirle. E soprattutto non diceva mai: “è semplice”; “è ovvio”; facendo sentire tutti quelli per cui non lo era affatto dei bambocci, ma usava il classico “come volevasi dimostrare”, che dava l’impressione di essere arrivati lì passo a passo, tutti insieme. Poi, leggendo, ho scoperto Richard Feynman e il suo modo tutt’altro che “scientifico” di parlare di scienza, eppure così denso, ricco, vero, tra astuzia e ingenuità.
Al di là di tutto la matematica è davvero per certi aspetti il “vero” linguaggio del mondo. Le espressioni matematiche erano le uniche espressioni logiche che secondo Wittgenstein potevano appunto dirsi vere. Quello della matematica è il linguaggio più vicino a descrivere tutto ciò che esiste, con un ragionevole margine di approssimazione. Già Galileo Galilei diceva che il mondo “è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Al di là dei voli pindarici, poi, nella vita di tutti i giorni oggi più che mai avere una solida base matematica è fondamentale, per fare i conti, per non essere fregati, per poter valutare criticamente varie offerte, per capire come impostare un business, per quanto piccolo, per chiedere un mutuo, capire se un tasso di ammortamento è da usurai, se un prezzo è nella media del mercato, ed eventualmente per investire il proprio denaro – tutte cose che giustamente a otto, tredici, diciotto anni non sempre ci sembrano urgenti. Inoltre, le professioni scientifiche sono in media più retribuite e richieste di quelle umanistiche. Il tipo di intelligenza esercitato dalla matematica, poi, è un ottimo strumento per risolvere alcune situazioni esistenziali, sviluppando strategie sottili, basti pensare agli scacchi, grande passione di molti scienziati, gioco fondamentale di previsione.
Come abbiamo visto, l’ansia da matematica ha un impatto negativo sul profitto in matematica e può influenzare l’esperienza e l’interazione col mondo degli individui, anche fuori dai banchi di scuola. Non solo, si diffonde nei gruppi di studenti, influenzando le conoscenze matematiche di tutti. È quindi importante che insegnanti, genitori e decisori politici siano consapevoli di questi fenomeni, in modo da promuovere programmi atti a contenerli, smettendo di valutare gli studenti e gli istituti esclusivamente sul profitto. I dati che sono stati raccolti ci danno un ampio margine d’azione per migliorare la situazione con accorgimenti pedagogici, che andrebbero sostenuti in maniera strutturale e sistematica dalle istituzioni. La soluzione del problema, infatti, necessita di una maturazione pubblica e collettiva, ne va della salute mentale degli studenti e delle studentesse, così come dell’autorità culturale del Paese. Non possiamo far finta di niente. Questi problemi esistono e pesano, anche quando chi ne soffre – per fortuna – è portato per altre materie.