Sulla locandina c’è scritto “masterclass”, l’apertura dei lavori è in ritardo, perché il cinema si sa è romano, la sala caldissima e le poltrone in similpelle, che fanno sudare il culo soltanto a guardarle. Alcuni studenti sono seduti a distanza di sicurezza da un palco rialzato, mentre nelle prime file (ovviamente riservate) riposano persone di una certa età, che all’inizio dell’incontro si sono scambiate baci e strette di mano, alla fine faranno probabilmente domande col plurale maiestatis, e durante l’incontro sonnecchieranno.
L’ospite d’eccezione è Marco Bellocchio, che viene presentato (da un amico, bisogna dirlo?) come uno dei pochi italiani a potersi fregiare del titolo di Maestro. Marco è un cineasta dallo sguardo libero. Marco ci ha liberato da una certa ipoteca realista. Marco ha sentito il bisogno di creare una “scuola a sua immagine e somiglianza” in quel di Bobbio. Insomma: Marco è un pezzo da novanta anche se ogni tanto straparla.
Mi hanno fregato, penso. Ancora. Sulla locandina c’era scritto “masterclass” e io già immaginavo una lezione sul cinema indipendente, sulle possibilità per i giovani cineasti, sulle poche gioie e i molti dolori del cinema italiano contemporaneo. Magari su come realizzare opere senza un soldo, su come convincere produttori ignavi a sganciare poche migliaia di euro o su come interagire con gli attori. Chessò un accenno al documentario, dato lo spirito dei tempi.
Invece. Invece a un certo punto sento che il documentario è morto. Mi sistemo sulla sedia. Si diano pace all’IDFA (International Documentary Filmfestival Amsterdam). Sui giovani Bellocchio è meno categorico ma, chissà se in buonafede, si premura di “scoraggiare” gli aspiranti registi, che fare film è un lavoro gramo, difficile e qua una volta era tutta campagna. Unico accenno al cinema italiano contemporaneo: il prossimo film di Marco Bellocchio (su Tommaso Buscetta, visto che in Sicilia non si fanno solo film sulla mafia). Alla fine Marco arriva al punto, dopo un’ora e mezza di vocali allungate, intimando ai giovani di studiare la storia del cinema perché se “non sai chi è Fellini, via, a casa”, che mica si viene a scuola e si pagano rette a quattro zeri in prestigiose accademie private per impararlo.
Comunque il problema non è Bellocchio, sono io: che non imparo. Sì perché non è la prima volta che assisto a una fantomatica masterclass e non è la prima volta che questa si rivela nell’ordine: conferenza stampa, intervista all’italiana (simile alla prima, ma con adulatore) e, alla peggio, teatrino di posa per discorsi da osteria.
È pur vero che ascoltare diversi registi – più o meno “Maestri” – aiuta a comprendere le tante possibilità del cinema, ma è altrettanto vero che l’odore di scantinato è fortissimo così come l’evidenza di avere un urgente bisogno di aria fresca. Ad esempio, un modo nuovo e diverso di parlare di cinema al pubblico, che vada oltre le auto-rappresentazioni accorate di una casta in decadenza.
Abbiamo anche il sacrosanto diritto alla stanchezza. Stanchezza nei confronti dei cattivi maestri che scoraggiano per motivare, il cui consiglio più spassionato non va oltre l’andare al cinema “come si faceva una volta”. Stanchezza nei confronti della bassa qualità delle pellicole: senza spettacolo, trama, varietà di spazi e tempi ma soprattutto recitate da cani (sì, è un termine tecnico). E infine stanchezza nei confronti di chi dice “se non conosci questo o quello storico regista, via”. Come se ignorare la storia del cinema fosse solo una deficienza di studenti e spettatori e non una conseguenza di come, in questi anni, si è fatto e comunicato il cinema.
In questo senso, svecchiare il modo in cui si parla di film, con buona pace di chi la crede una speranza vana, è un piccolo passo che varrebbe la pena fare. Anche solo per osservare con più cognizione di causa un’industria che continua negli anni, sono dati Cinetel, a perdere quote di mercato.
Terminato l’incontro con Bellocchio, un ragazzo che condivideva le mie stesse frustrazioni mi chiede da dove iniziare per raccontare il cinema diversamente. Sul momento non rispondo, non sono abbastanza carismatico e alle cose ci devo pensare con una certa calma. Poi, dopo qualche giorno, mi viene in mente che una volta ho sentito Francesco Rosi (che no, non è mio padre e nemmeno mio zio) parlare di una necessaria modestia dell’artista. Eccolo, un punto di partenza. La modestia non risolverà certo i problemi di un mondo bello e perduto, ma servirà a intristire meno le nuove generazioni di cineasti. E ad annoiare meno i malaugurati avventori di incontri, masterclass e lezioni di cinema. Non è poco.
E se la modestia non dovesse bastare, si potrebbero riscoprire filosofie alla John Ford che, sigaro in bocca e benda sull’occhio, sapeva racchiudere l’intero suo sapere in poco più di un minuto: i film si fanno con la macchina da presa. Della serie: cut the crap.