Quando frequentavo le scuole elementari c’era un gioco molto semplice con cui alcuni ragazzi della classe si divertivano a mettere alla prova i nostri compagni. Consisteva nel chiedere quale fosse il modo in cui ci si guardava le unghie. Due erano le alternative possibili: la prima consisteva nel piegare le dita all’interno del palmo della mano, quasi fosse un pugno, rivolgendolo poi verso se stessi; la seconda nel tenerle completamente distese e guardarle dal dorso. La correttezza dell’una o dell’altra risposta dipendeva esclusivamente dal genere della persona coinvolta nel gioco. Se eri un ragazzo non c’era scampo: sbagliando si perdeva il proprio status di maschio e si veniva bollati come “fr-cio” o “femminuccia”. Il nostro vocabolario divideva già nettamente il mondo tra maschi e disertori, per un’azione minuscola. Se non sono le unghie, è la forma delle scarpe, il colore dei vestiti o le diverse abbottonature delle giacche, ma l’obiettivo è uno soltanto e sempre lo stesso: dividere nettamente il gruppo tra ciò che è maschile e ciò che è femminile, e valutare così lo status di maschio.
Nella nostra società, infatti, la mascolinità non sembra essere una qualità che si acquisisce una volta per tutte, ma per molti sembra dover essere guadagnata con un numero potenzialmente infinito di prove. Sancita principalmente per via sociale, è sfuggente, temporanea e spesso richiede continue dimostrazioni pubbliche di sé. In questo, si mostra l’altro lato del privilegio maschile: il dover corrispondere allo stereotipo del “vero maschio” diventa una gabbia definita da rigide norme sociali. Ogni uomo si vede imposto, in qualunque circostanza, a dover dar prova della propria virilità. Questo ideale diventa così non solo un carico pesante da sopportare ma una vera e propria causa di vulnerabilità, che si manifesta nella continua tensione verso gli altri e verso se stessi e si radica nello scarto tra la maschera che ci si sente costretti a portare e ciò che in piena libertà si sente di essere. A far da giudici sono i nostri pari – che come sintetizza il sociologo americano Michael Kimmel assumono il ruolo di una vera e propria “polizia di genere” – sempre pronti a “valutare” e “certificare” la nostra appartenenza al gruppo dei “veri maschi”, pena l’esclusione. Il colore degli abiti, la loro foggia, il movimento delle mani, la postura, l’accavallamento delle gambe, l’inflessione della voce, il taglio di capelli: l’elenco potrebbe essere infinito. A questo scrutinio non concorrono però solo gli uomini ma la società tutta, dominanti e dominati, e non potrebbe essere altrimenti essendo il risultato del rigido ordine secondo cui è costruito e diviso il nostro mondo. La mascolinità si definisce così non solo come stato precario, ma come identità costruita a partire dalla paura di essere smascherati.
Come spiega Maria Giuseppina Pacilli, docente di Psicologia sociale all’Università di Perugia, la mascolinità “può essere intesa come un ruolo sociale, ossia un modo di pensare, di agire, di sentire (e, parallelamente, di non pensare, di non agire, di non sentire) che una società sulla base delle norme sociali e culturali di quel determinato momento storico si aspetta da un uomo e considera giusto e appropriato per lui”, ma può anche assumere il carattere dello stereotipo – cosa sono gli uomini – o dell’ideologia – cosa devono essere. Se tra il Sei e il Settecento le scarpe con i tacchi furono adottate dagli uomini dell’aristocrazia per la componente virile che li faceva somigliare ai cavalieri persiani e come simbolo dell’agiatezza per cui potevano permettersi di indossare calzature scomode, non adatte a svolgere attività pratiche, oggi sono considerate una prerogativa femminile, tanto da suscitare le critiche più becere se viste ai piedi maschili. L’idea che la mascolinità non sia qualcosa di biologicamente determinato ma di socialmente costruito, mutevole nel tempo e nello spazio, non va però considerata come una perdita o un attacco, ma come l’occasione per mettere in discussione quel sistema-mondo che, oltre alle “identità non maschili” come donne e minoranze, opprime, con un peso diverso, anche gli uomini.
Gli uomini si suicidano il doppio delle donne – tanto che in Italia, stando agli ultimi dati disponibili dell’Oms, nel 2016 il 78,8% dei morti per suicidio erano uomini; soffrono più spesso di malattie croniche, di infarto e di malattie infettive e hanno un’aspettativa di vita più bassa di quasi 5 anni rispetto alle donne. Ricevono meno supporto emotivo dalle proprie amicizie; fanno più fatica ad affrontare le avversità; consumano più alcool e tabacco; sono meno propensi a utilizzare i servizi sanitari di prevenzione e per la cura della salute mentale; e più inclini a ignorare i consigli dei medici riguardo stili di vita più salutari. In gran parte, questi effetti sono prodotti da un lato dall’ideale di mascolinità più diffuso, che vede il corpo maschile sano per definizione e la malattia come devirilizzante; dall’altro dai silenzi a cui gli uomini vengono abituati sin da piccoli, che portano all’incapacità di saper nominare le proprie emozioni e ciò che, più in generale, si prova. Una delle poche eccezioni è costituita dalla rabbia, e non a caso per gli uomini aderenti ai modelli tradizionali di mascolinità il passo dall’incapacità di dialogo, con se stessi e con gli altri, alla violenza è spesso molto breve. Uno studio finlandese del 2008 evidenziava per esempio come negli episodi di violenza domestica gli uomini non riconoscessero il proprio comportamento come violento, ma come uno strumento per esprimere le proprie emozioni. Alla base di questa discrepanza non c’era solo la paura pervasiva di sentirsi umiliati, ma anche un desiderio di affermazione e dominio.
Essendo costruita sull’incapacità di mostrare il proprio vero sé, o sulla scelta di non farlo e di tenersi tutto dentro, la performance della mascolinità si fonda allora sul rendere il più possibile visibile la propria aderenza all’ideale di “vero” uomo. Oltre agli attributi più canonici di risolutezza, insensibilità, successo, forza, violenza e aggressività, ciò che costituisce un “vero” uomo è il suo essere eterosessuale: in quest’ottica, chi non è attratto dalle donne, o non tenta ossessivamente di dimostrare la propria attrazione, non solo costituisce per definizione un’alterità da ripudiare, ma rinuncia socialmente al proprio essere uomo. Come spiegava la saggista Monique Wittig, “Posto come conoscenza ineluttabile, come principio ovvio, come dato che precede l’elaborazione di qualunque scienza, il pensiero straight produce un’interpretazione totalizzante della storia, della realtà sociale, della cultura, del linguaggio e allo stesso tempo di tutti i fenomeni legati alla soggettività. La conseguenza di questa tendenza all’universalizzazione è che il pensiero straight non può concepire una cultura, una società dove l’eterosessualità non solo non strutturi tutte le relazioni umane, ma anche la produzione stessa dei concetti e di tutti i processi che sfuggono alla coscienza”.
Il mandato più importante da rispettare resta però quello dell’anti-femminilità: viviamo in una società in cui l’essere maschi si struttura a partire dalla negazione di ciò che consideriamo “femminile”. Veniamo cioè sottoposti, sin da piccoli, a un’opera di “defemminizzazione” necessaria per introdurci nel mondo dei veri uomini. Ciò avviene mediante un sistema di premi e punizioni – le norme sociali di genere – che sfrutta i giochi, il linguaggio, i vestiti, la rappresentazione per sancire ciò che è giusto per un uomo affinché sia uomo e ciò che è giusto per una donna affinché sia donna: pur mettendo a rischio la propria salute psicofisica e le proprie relazioni, aderire a queste rigide norme permette agli uomini di ottenere una sorta di capitale maschile con cui acquisire quello status di superiorità che viene loro attribuito nel contesto patriarcale. Un uomo si ritrova così non solo a dover continuamente dimostrare di essere etero ma anche dover bandire ogni possibile caratteristica appartenente agli stereotipi femminili attraverso un intenso e incessante scrutinio operato da sé stesso e dagli altri. Essere – o apparire – “fr-cio” o “femminuccia” – cioè non abbastanza mascolino e quindi di conseguenza femminile, perché una certa idea di mascolinità non permette sfumature intermedie – è allora l’umiliazione più grande che un uomo possa provare, perché il femminile, in questa visione rappresenta in primo luogo ciò che deve essere escluso, in secondo ciò che incarna caratteristiche e valori esecrabili e in terzo ciò che a ragione deve essere dominato. Se Mussolini lodava la Lucania (quasi tutta l’attuale Basilicata) per la sua virilità, escludendo dal proprio linguaggio qualunque riferimento agli uomini gay perché solo nominarli significava ammettere la possibilità che non tutti gli italiani fossero “veri” maschi, è stata soprattutto la rappresentazione al cinema e in televisione a utilizzare l’omosessualità per definire ciò che è o non è mascolino. La debolezza degli uomini, molto più che la forza delle donne, è stata generalmente considerata il criterio per stabilire i comportamenti devianti.
Essendo tutti e tutte immersi in questa cultura, la cosiddetta mascolinità egemone – definita dalla sociologa australiana R.W. Connell come il prodotto di relazioni e comportamenti di genere e non di attributi fissi, modellati da classe, razza, cultura, sessualità e altri fattori, con cui si legittima la cultura patriarcale – non va considerata pertinenza solo dei ragazzi eterosessuali e cisgender. Da sempre la comunità LGBTQ+ è infatti divisa dall’aderenza a standard dettati da una visione della società binaria ed eteronormata, che si intersecano con il capitalismo, il sessismo, la misoginia e la bitransfobia. Dagli inizi del movimento, è emersa poi una crescente forma di controllo delle espressioni sessuali e di genere: l’omonormatività, cioè quei meccanismi con cui persone appartenenti alla comunità marginalizzano componenti della comunità stessa, contribuendo a silenziare politicamente le loro istanze e identità: l’effeminatezza gay, la mascolinità lesbica, relazioni diverse dalla monogamia, e ancora la disabilità, la povertà, l’appartenenza a classi subalterne o etnie non caucasiche.
I ragazzi imparano a essere uomini emulando quelli presenti nelle loro vite – padri, fratelli e amici – e dal contesto sociale e culturale in cui crescono. La mascolinità può essere allora considerata come una pratica condivisa e tramandata, uno strumento trasversale e interclassista atto a mantenere – spesso inconsciamente – una ben definita gerarchia di potere, modellata sulla base dell’osservazione degli schemi imperanti. Mentre chiediamo agli uomini di cambiare, di abbandonare quei modelli egemonici evidentemente dannosi per tutti e tutte, la società continua a valorizzare e apprezzare chi invece vi aderisce pienamente, anche se di tanto in tanto vengono riconosciute icone culturali che sembrano riuscire a sovvertire completamente questa visione. Ripensare il maschile non significa ridefinire le caratteristiche dell’uomo “perfetto”, sostituendo all’immagine dominante un altro stereotipo irraggiungibile, ma mettere in discussione i preconcetti e i comportamenti che assumiamo a priori e ci vengono insegnati fin da piccoli, con cui abbiamo costruito il nostro essere nel mondo. È necessaria quindi una diffusa riflessione collettiva su questo argomento, che non può per forza di cose limitarsi a essere esclusivamente individuale. Tutta la società è chiamata a contribuire a questa evoluzione, partendo dall’analisi delle ingiustizie e della sofferenza che certe abitudini sociali generano nel mondo.