La seconda guerra mondiale è finita da poco, l’Italia ha perso – non solo sul campo di battaglia, ma anche dal punto di vista sociale – e il cinema si assume una forte responsabilità civile nei confronti di questa nuova società da ricostruire. I registi iniziano a raccontare le storie degli ultimi, di chi la guerra l’ha persa davvero: le classi meno agiate. Il neorealismo porta sullo schermo le conseguenze della guerra, e usa come scenografia le rovine di un’Italia in pezzi. Fortemente criticato dall’opinione pubblica del tempo e successivamente censurato dalle istituzioni, anche se poi è passato alla storia del cinema internazionale, il neorealismo ha vita breve. La gente, infatti, è alla ricerca di un modo di evadere dai problemi di tutti i giorni, e il genio della commedia all’italiana fu proprio questo: la capacità di rivolgersi a un pubblico vasto, mantenendo però intatta la volontà di denuncia iniziata con la stagione neorealista.
Indicare un unico capostipite della cosiddetta commedia all’italiana è difficile, sebbene il termine sia stato coniato parafrasando il titolo di Divorzio all’italiana, film del 1961 diretto da Pietro Germi, regista genovese tra i maggiori esponenti del genere e premio Oscar alla migliore sceneggiatura originale nel 1963. Tra i film più rappresentativi di questa corrente c’è I soliti ignoti, di Mario Monicelli, da molti considerato il vero primo film di questo genere, in quanto le pellicole antecedenti, pur potendo considerarsi commedie all’italiana per certi versi, mancano di molti dei caratteri tipici, e sono quindi più facilmente attribuibili al sottogenere del “neorealismo rosa”, di fatto un anticipatore della commedia all’italiana vera e propria. Fu così che in quegli anni si scoprì che gli italiani amavano sentir parlare dei loro problemi, dei difetti e delle difficoltà del loro Paese a patto di poterci ridere sopra. Anche quando erano proprio loro a venir descritti, in tutte le loro debolezze e le loro maldestre abitudini, senza che ne fossero sempre consapevoli. Molti dei personaggi di Monicelli passarono infatti come simpatiche macchiette, quando in realtà contenevano un messaggio politico profondo e fornivano uno strumento documentario di un intero popolo a chi aveva la capacità e l’acutezza di visione per coglierlo.
Ne I soliti ignoti, Monicelli racconta la storia di un gruppo di poveracci alle prese con una rapina che, nelle loro intenzioni, li farà diventare ricchi. Le vicende di questa squadra raffazzonata ruotano attorno a una Roma espressionista, tra borgate, casermoni e sottoproletariato urbano. L’Italia è restituita nella realtà dei fatti, e i protagonisti non sono altro che persone comuni: scaltri, bonari, pigri e sempre alla ricerca di una soluzione facile a un problema difficile, come la povertà. I falliti e il fallimento, infatti, sono la caratteristiche chiave del cinema di Monicelli: i piani vanno in fumo, ma c’è sempre tempo per sedersi a mangiare un piatto di pasta e ceci come consolazione. I perdenti raccontati da Monicelli sono realistici, ciascuno di loro potrebbe essere tratto dalla vita reale, e sono sempre gregari, pavidi raccolti intorno alla figura di un “leader” un po’ più carismatico.
Così, ad esempio, ne L’armata Brancaleone Vittorio Gassman guida uno sparuto manipolo di uomini nell’Italia dell’Undicesimo secolo. Per la prima volta sul grande schermo il medioevo viene restituito diverso da quella che era la narrazione romantica e cavalleresca. I fatti girano attorno alla figura di Brancaleone, il capo di questa armata di diseredati e straccioni, che parlano in un latino maccheronico e demenziale. Brancaleone è un uomo di polso, sicuro delle proprie idee, eppure non meno disperato dei suoi sottoposti – chi lo segue lo fa perché spera di poterci guadagnare qualcosa, di poter vivere all’ombra dei suoi successi, di compiere quella disperata impresa pur di vivere in agiatezza e scappare alla realtà meschina cui è stato destinato per nascita.
Questo quadro trasmette una visione di un popolo secondo la quale “gli italiani vogliono sempre qualcuno che pensi per loro”. I caratteri comuni sono gli stessi: l’ambientazione crudele, i personaggi malleabili, deboli, codardi, sballottati da grandi travagli interiori, incapaci di prendere decisioni importanti. E il giudizio che Monicelli ne dà è fortemente critico, così come dalle sue interviste si evince sempre un certo rammarico, un odi et amo per un popolo che lo ha apprezzato e ha riso dei suoi film, senza mai fermarsi davvero a riflettere su ciò che volessero dire realmente.
Monicelli si spostò spesso, nel corso della propria vita, risiedendo a Roma, Viareggio, Milano e Pisa, dove si laureò dopo la leva in Lettere e Filosofia. Il suo avvicinamento al mondo del cinema si ebbe con la sua stretta collaborazione alla rivista Camminare per la quale iniziò a curare le recensioni cinematografiche. La rivista sospese le pubblicazioni nel 1935 perché accusata di essere antifascista, ma quell’esperienza fu la sua anticamera per il mondo del cinema. Nel 1934 diresse infatti il suo primo cortometraggio, intitolato Il cuore rivelatore, ispirato ad un racconto di Edgar Allan Poe. E meno di un anno dopo, nel 1935, realizzò il lungometraggio I ragazzi della via Paal diretto insieme al cugino Alberto Mondadori, che gli valse un premio alla Mostra internazionale del Cinema di Venezia.
La guerra però cambiò tutto, e la sua carriera ebbe una forzata battuta d’arresto. Nel 1940 si arruolò nella Cavalleria, riuscendo a evitare di essere mandato in Africa e in Russia. L’8 settembre del 1943, il giorno del proclama dell’armistizio, Monicelli – che si trovava a Napoli con il suo reggimento – si incamminò verso Roma a piedi, unendosi alla Resistenza e rimanendo nascosto nella capitale fino all’estate del 1944, quando gli alleati entrarono finalmente in città. Già suo padre, Tomaso Monicelli – intellettuale, giornalista e fascista della prima ora, diventato antifascista dopo il delitto Matteotti – sperimentò il peso schiacciante delle idee, e decise di suicidarsi nel 1946 con un colpo di rivoltella alla testa, in preda a un esaurimento nervoso seguito all’essere stato isolato e boicottato economicamente a causa dei suoi scritti non allineati col potere.
La guerra prima e la perdita del padre poi, di cui per altro fu il primo a ritrovare il corpo, segnarono duramente il regista, e contribuirono a costruire il suo senso critico e l’urgenza di esprimere un valore politico e sociale attraverso le sue opere, che sorreggerà la sua intera filmografia.
Subito dopo il conflitto iniziò la sua collaborazione con Steno, pseudonimo di Stefano Vanzina, con il quale realizzerà successi di pubblico come Aquila nera, I miserabili, Totò cerca casa e nel 1951 il celebre Guardie e ladri. Nonostante il successo di questi film, Monicelli non si staccò mai dalla corrente neorealista, almeno fino al 1958, quando con I soliti ignoti ottenne la nomination all’Oscar, sdoganando Vittorio Gassman come mattatore comico e dando vita a un genere. L’anno seguente, La grande guerra vincerà il Leone d’oro. A quel punto Monicelli era ormai libero di dedicarsi alla pura sperimentazione, il che gli permise di disattendere ogni aspettativa, proponendo film eterogenei, dal tragicomico L’armata Brancaleone del 1966, alla profonda drammaticità di Un borghese piccolo piccolo, girato nel pieno degli anni di piombo.
Monicelli è morto la sera del 29 novembre 2010 all’Ospedale San Giovanni di Roma, dove si è suicidato lanciandosi dal quinto piano. Si trattò di un evento tragico, ma non del tutto imprevedibile. Monicelli ha scelto la libertà dopo essere stato, in quasi ottant’anni anni di attività cinematografica, una delle grandi coscienze critiche della società italiana, e aver resistito a critiche e censure anche molto pesanti – come quelle applicate al celebre Totò e Carolina, del 1955, sul quale vennero applicati ben 82 tagli alla pellicola, perché accusata di mettere in ridicolo le forze di polizia. La sua fu una scelta consapevole, l’ultimo esercizio di disobbedienza civile, dovuto probabilmente anche alla mancanza di una legge sul Biotestamento (per cui bisognerà aspettare l’approvazione il 22 dicembre 2017). Il suo rapporto con la morte era sereno, di certo non la temeva. Del resto l’aveva già conosciuta nel 1946 con il suicidio del padre, ed era diventata uno degli argomenti cardine dei suoi film: “La morte è fonte sublime di comicità,” diceva, “La morte è comica. Non ha quasi nulla di eroico”.
L’evento scosse fortemente l’opinione pubblica nazionale e internazionale, e tutte le testate principali gli dedicarono un tributo, dal New York Times al Telegraph. In patria se ne parlò per mesi, ma probabilmente si perse l’occasione per dargli il significato politico che aveva, additandolo esclusivamente come insofferenza e stanchezza per la vita. Antifascista, ateo e in alcune fasi della sua vita fermamente socialista, Monicelli è uno di quei “cattivi maestri” troppo scomodi per la generazione in cui ha vissuto, sempre sul piede di guerra contro l’ordine costituito. In vecchiaia, sperava di riuscire a vedere un “botto”, una rivoluzione di quel popolo che aveva tanto amato e raccontato, sia pure evidenziandone i difetti. Il suo voleva essere un messaggio costruttivo, anche se era consapevole che la speranza è “[..] una trappola inventata dai padroni”.
Mario Monicelli era una di quelle persone che non amava le smancerie e i giri di parole, credeva nel ruolo del cinema come mezzo fondamentale per la creazione di un popolo realmente sovrano, perché consapevole e intellettualmente autonomo, invece che asservito a un’élite o a un leader carismatico. L’esperienza cinematografica era per lui l’occasione di una presa di coscienza collettiva, un’opportunità per svelare i propri limiti e fare autocritica, e così correggersi e crescere, consapevoli dell’importanza della propria individualità e del proprio potere. Prendere in giro gli italiani nei loro fallimenti e nelle loro disgrazie, più che una manifestazione di cinismo, per Monicelli era un atto di fede.