Nel 1955, Eve Arnold – la prima fotografa a essere assunta dall’agenzia Magnum – collaborava da tempo con Marilyn Monroe. Tra le tante immagini che le scattò ce n’è una in particolare che è diventata un caso. Ritrae l’attrice seduta in un parco, vestita con una tutina a righe, mentre è assorta nella lettura di Ulisse, il capolavoro di James Joyce. “Mi disse che teneva una copia di Ulisse in macchina, e che lo stava leggendo da molto tempo. Mi disse che le piaceva il suono delle parole e che per questo lo leggeva ad alta voce per cercare di dargli un senso, ma lo trovava difficile”, racconterà la fotografa a chi l’accusava che la fotografia fosse una messinscena. Dopo la morte di Marilyn, i suoi averi finirono all’asta, compresi i 430 libri che teneva in casa: Camus, Kerouac, Mann, Hemingway, Fitzgerald, Steinbeck, Dostoevskij, ma anche classici della filosofia come Platone e Aristotele, raccolte di poesie e di teatro e l’immancabile Alla ricerca del tempo perduto. Molte di queste letture non erano affatto scontate negli anni Cinquanta: anche se oggi alcuni di questi romanzi sono diventati dei classici, all’epoca erano libri d’avanguardia, letti soprattutto dalle élite culturali. E Marilyn era parte di questa élite, anche se oggi stentiamo a crederlo.
Marilyn Monroe è rimasta eternamente cristallizzata in un’unica possibilità di esistenza: quella di Marilyn – di cui basta il nome, evocativo, chimerico, universale – la bomba sexy bionda e provocante, l’amante dei Kennedy, la pin up con la gonna sollevata dall’aria calda di una grata. Ma dietro a Marilyn c’era Norma Jeane Mortenson Baker, una ragazza sveglia e brillante, fragile e colta, che ebbe una vita difficile e una salute mentale sempre in bilico. La madre Gladys Monroe, di cui Marilyn non parlava mai, era alcolizzata, dipendente dagli psicofarmaci e affetta da schizofrenia paranoide. L’identità del padre, invece, è sempre rimasta un mistero: il doppio cognome di Norma Jeane era formato da quello del primo e del secondo marito di Gladys, che l’aveva battezzata così per evitare che fosse dichiarata figlia illegittima. La piccola Norma Jeane fu data in custodia dapprima alla nonna materna Della, poi ad amici della madre e infine a un orfanotrofio. Da qui cominciò a essere affidata a varie famiglie, dove subì più volte violenze sessuali, di cui parlò anche nella sua autobiografia La mia storia, scritta con lo sceneggiatore Ben Hecht.
Nel 1942, a sedici anni, si sposò per la prima volta con il vicino di casa James Dougherty e, quando quest’ultimo partì per il fronte, Norma Jeane andò a lavorare come operaia nella fabbrica della compagnia aerea Radioplane, dove confezionava paracadute. Qui, durante un servizio fotografico propagandistico, venne notata da un fotografo che la introdusse al mondo della moda. Firmò un contratto con la principale agenzia di modelle di Hollywood, la Blue Book School of Charm and Modeling, divorziò dal primo marito e cominciò a lavorare per alcune riviste. Nel 1946 mosse i primi passi nel mondo del cinema e, sotto contratto con la Fox, apparve in alcuni film con ruoli minori e non accreditati. Il regista Ben Lyon le suggerì di cambiare il suo nome in Marilyn, come l’attrice degli anni Venti Marilyn Miller. Negli anni successivi Norma Jeane ebbe qualche difficoltà economica e per mantenersi si diede alla prostituzione e al lavoro di spogliarellista, continuando a cercare di farsi strada nel mondo del grande schermo.
La consacrazione arrivò nel 1953, quando grazie alle sue numerose conoscenze a Hollywood Marilyn venne scritturata per Niagara e per due commedie di grandissimo successo, Come sposare un milionario e Gli uomini preferiscono le bionde. Quest’ultimo film consolidò lo stereotipo di Marilyn come dumb blonde, descritta dall’autrice Victoria Sherrow in Encyclopedia of Hair: A Cultural History come “una donna fragile che punta tutto sul suo aspetto anziché sull’intelligenza”. Marilyn era una ragazza sensuale, vivace e interessante, che attirava molte attenzioni: presto i personaggi che interpretava sullo schermo finirono per confondersi con la sua vita reale. L’attrice (che cambierà legalmente il suo nome nel 1956) non era più Norma Jeane, ma Pola, Lorelei, “la ragazza” di Quando la moglie è in vacanza. Nel 1954 si era sposata con il campione di baseball italoamericano Joe Di Maggio, un uomo violento, possessivo e geloso che proprio sul set di quest’ultimo film si infuriò per la celebre scena del vestito sollevato dall’aria della grata, girata di fronte a una folla di curiosi adoranti. Il regista Billy Wilder descrisse lo sguardo di Di Maggio come “lo sguardo della morte”: terminate le riprese, l’atleta picchiò violentemente Marilyn nella stanza dell’albergo dove alloggiavano. Il loro matrimonio durò nove travagliati mesi, durante i quali l’attrice cominciò a frequentare Frank Sinatra e John Kennedy. Nel 1956 si sposò con il commediografo Arthur Miller, ma anche la relazione con lui fu difficile: Miller era un intellettuale riservato, lei una star perennemente sotto i riflettori, terrorizzata dall’idea di non essere abbastanza intelligente per il marito. Inoltre Marilyn in questi anni cercò più volte di avere un figlio, ma non riuscì mai a portare avanti la gravidanza a causa della sua endometriosi.
Ma Marilyn era tutt’altro che stupida: era una lettrice avida e appassionata, scriveva poesie e stava al passo con la cultura del tempo. Per un certo periodo si iscrisse alla UCLA, dove studiò arte rinascimentale e letteratura. Il resto lo imparò da sola, da autodidatta, e sempre da sola riuscì a superare la dislessia e la balbuzie. Per molti anni fu allieva e amica di Michael Chekhov, che la spinse a chiedere ruoli più impegnativi rispetto a quello della dumb blonde. Aveva anche idee politiche di sinistra, ma quando Arthur Miller finì nel mirino del maccartismo nessuno pensò che anche Marilyn potesse avere simpatie comuniste. Marilyn, oltre che intelligente, era anche una donna complessa: la sua infanzia segnata dall’abbandono condizionò il suo disperato bisogno di amore, che ricercava in continuazione in uomini egoisti che in lei invece vedevano solo un trofeo o una facile conquista sessuale. Marilyn fu sfruttata non solo dall’industria cinematografica che la fagocitò, ma anche dagli uomini che incontrò nella sua vita, come John e Robert Kennedy, passata da un fratello all’altro come una bambola non appena diventò troppo pericolosa per la reputazione del Presidente. Come scrisse Joyce Carol Oates nella biografia-romanzo Blonde, la sua bellezza la condannò a “cercare nello sguardo altrui la conferma del proprio essere”. In quanto donna, e soprattutto in quanto bella donna, Marilyn fu relegata a essere sempre l’oggetto rappresentato: era una donna scomoda proprio perché era consapevole del meccanismo in cui era stata incastrata e cercava di ribellarsi al meglio delle sue capacità.
Questo non significa che Marilyn accettasse passivamente qualsiasi cosa le capitasse. Nel 1948, ad esempio, posò nuda in anonimo per il calendario Miss Golden Dreams, e quando lo Studio scoprì queste immagini e minacciò di licenziarla, lei giocò d’anticipo divulgando le immagini e vendendole a Hugh Hefner. Fu tra le prime a lamentarsi del gender pay gap di Hollywood, pretendendo di essere pagata come i suoi colleghi uomini, e a 27 anni scrisse un articolo per il Motion Picture and Television Magazine denunciando i produttori che avevano provato a ricattarla sessualmente. La sua determinazione e la sua forza di volontà la portarono ovunque volesse e per questo, insieme al suo rapporto positivo ed entusiasta con il sesso, Marilyn è stata considerata una proto-femminista.
Il 1961 fu l’annus horribilis di Marilyn: si separò da Miller e troncò ogni rapporto con Frank Sinatra, ormai in procinto di sposarsi con un’altra donna. Monroe aveva appena finito di girare Gli spostati, il primo e unico western dell’attrice (e anche l’ultimo film completo in cui apparve), scritto dall’ex marito. Il set de Gli spostati fu molto stressante per Marilyn: la sceneggiatura era stata scritta apposta per lei, e il personaggio principale di Roslyn, oltre che affascinante e divertente, era anche quello di una donna incapace di amare, che si aggrappa all’amore e alle attenzioni maschili. Inoltre sul set Marilyn vide Miller innamorarsi della fotografa Inge Morath, che lo scrittore sposò l’anno successivo, e ne soffrì molto. La sua dipendenza dalla codeina si fece sempre più grave, tanto che si fece ricoverare volontariamente in un istituto psichiatrico, un’esperienza per lei devastante che non fece altro che peggiorare il suo stato di salute mentale. In quell’anno subì anche alcuni interventi chirurgici e rimase lontano dalle scene. Questo fu anche il periodo di frequentazione con i Kennedy, culminato nel 1962 nella famosa apparizione al Madison Square Garden in cui cantò “Happy birthday Mr. President” per il quarantacinquesimo compleanno di John Kennedy. A maggio fu licenziata dalla riprese di Something’s Got to Give per le sue continue assenze.
Nudo e con in mano la cornetta del telefono, il cadavere di Marilyn fu trovato il 5 agosto 1962 nella camera da letto della sua casa di Brentwood, a Los Angeles. Aveva trentasei anni. Morì per un’overdose di barbiturici, probabilmente suicida, anche se ci sono varie teorie su un coinvolgimento dei Kennedy (e molti biografi concordano che nel 1962 avesse abortito il figlio di Bob) e della mafia italiana. Marilyn morì sola, senza che nessun uomo la salvasse davvero. Anche dopo la sua morte, continuò a essere la dumb blonde che era sempre stata per tutti: si continuò a parlare dei suoi mariti e dei suoi amanti, della sua pazzia conclamata, dei suoi problemi con le droghe. Giornali scandalistici e biografi d’assalto passarono in rassegna ogni secondo della sua vita alla ricerca dello scoop, della congiura sulla morte, dell’ennesima relazione segreta e a oggi esistono 3786 libri su di lei. Ma quasi nessuno si occupò della sua vita interiore: nessuno si accorse che Marilyn Monroe era “un peso massimo intellettuale”, una donna colta, intelligente e brillante. Solo nel 1999, quando Christie’s mise all’asta i suoi oggetti personali, compresi i suoi numerosi libri, qualcuno cominciò a interrogarsi su questo lato dell’attrice. Nel 2010, la pubblicazione di Fragments, la sua raccolta di poesie, confermò quanto disse di lei Arthur Miller: “Per sopravvivere avrebbe dovuto essere sia più cinica sia più lontana dalla realtà di quanto non fosse. Invece era una poetessa all’angolo della strada, che provava a recitare le sue poesie a una folla che le strappava i vestiti”.