41 anni fa la marcia dei 40mila a Torino separò la sinistra dai temi del lavoro: l’inizio della fine - THE VISION

Ci sono avvenimenti che prima si muovono sotto traccia, per poi esplodere all’improvviso fino a squarciare la grigia monotonia di un’ordinaria giornata di autunno nel Nord Italia. Il 14 ottobre del 1980, a Torino, il sole è ancora pallido quando alle dieci del mattino una folla silenziosa si incammina dal Teatro Nuovo di corso Massimo d’Azeglio verso corso Marconi. 

Migliaia di persone sfilano con pochi cartelli e senza bandiere, sussurrando e non urlando slogan. Nonostante l’apparente assenza di rumore, la cosiddetta Marcia dei quarantamila avrà un effetto dirompente sulla società italiana dei decenni a venire. Perché per la prima volta un corteo Fiat non viene organizzato dagli operai e non ottiene il supporto dei sindacati. A scendere in strada, infatti, sono i quadri e gli impiegati dell’azienda, in aperta contrapposizione proprio con la classe operaia e con le sigle sindacali. Una lacerazione che si inserisce in un periodo complicato per la storica azienda torinese, ufficializzato l’8 maggio dello stesso anno con la richiesta di mettere in cassa integrazione per otto giorni 78mila dipendenti.

Il 31 luglio Umberto Agnelli si dimette dalla carica di co-amministratore delegato della Fiat (lasciando al timone Cesare Romiti) e a inizio settembre il colosso automobilistico dispone diciotto mesi di cassa integrazione per 24mila dipendenti, 22 mila dei quali operai. Il 10 settembre, al tavolo delle trattative convocato con urgenza dai sindacati presso l’Unione Industriale, la Fiat fa ancora un passo avanti e comunica 14.469 esuberi. Una decisione in antitesi rispetto a quanto avvenuto nel biennio precedente (con il passaggio da 124mila dipendenti complessivi nel 1977 ai 141mila del 1979), alla quale la Federazione Lavoratori Metalmeccanici prova a controbattere proponendo la cassa integrazione a rotazione, il blocco delle assunzioni e i prepensionamenti. L’azienda non accetta e la rottura diventa inevitabile.

Umberto Agnelli, Torino (1982)

Iniziano i primi scioperi a Rivalta, a Mirafiori, al Lingotto e alla Lancia di Chivasso. Nel giro di una settimana si arriva alla sospensione dell’attività lavorativa e al blocco dei cancelli di tutti gli stabilimenti Fiat. A guidare le proteste è la Federazione lavoratori metalmeccanici (Flm) attraverso i tre segretari che il 17 settembre giungono a Torino per incontrare gli operai: Franco Bentivogli (Fim-Cisl) parla a Rivalta, Vincenzo Mattina (Uilm-Uil) a Barriera di Milano, Pio Galli (Fiom-Cgil) a Mirafiori. Le segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil rimangono invece più tiepide e guardano ai fatti di Torino con maggiore distacco. Sperano infatti di trovare una mediazione con il governo Cossiga e prendono tempo prima di dichiarare lo sciopero nazionale. I blocchi ai cancelli degli stabilimenti di Torino intanto si intensificano e il 25 settembre sono i metalmeccanici a scendere in strada, portando in Piazza San Carlo 100mila persone. A quel punto lo sciopero generale viene proclamato per il due ottobre.

Mentre a Roma il ministro del Lavoro Franco Foschi prova, invano, a trovare una sintesi tra Romiti e i sindacati, Enrico Berlinguer il 26 settembre arriva davanti alla porta 5 di Mirafiori e a chi gli chiede cosa farebbe il Partito Comunista di fronte all’eventuale occupazione operaia della Fiat risponde che “se si dovesse giungere a forme di lotta più acute, comprese forme di occupazione, sarebbe sicuro l’impegno politico, organizzativo e anche di idee e di esperienza del Partito Comunista”. Una dimostrazione di vicinanza per molti, che si frantuma però ventiquattr’ore dopo con le improvvise dimissioni di Cossiga, il cui governo è messo in minoranza sulla manovra economica. La Fiat non perde tempo e a stretto giro comunica di voler sospendere i licenziamenti e di convertirli in cassa integrazione a zero ore per 23mila dipendenti. La mossa stupisce e sorprende, con la politica che si complimenta per la decisione, seguita dai sindacati che revocano immediatamente lo sciopero generale. 

Enrico Berlinguer a Torino fuori dai cancelli della FIAT, 26 Settembre 1980.

La Flm e gli operai, tuttavia, non si fidano e continuano i picchetti, nonostante i malumori interni comincino a serpeggiare soprattutto dopo il 30 settembre, quando l’azienda mette in cassa integrazione 24mila persone pubblicando le liste nominali. Un meccanismo che di fatto spacca il fronte delle proteste: chi continuerà a scioperare contro la cassa integrazione perderà lo stipendio, mentre i diretti interessati dal provvedimento percepiranno l’80% del salario. Si aprono così le prime crepe nel fronte dei dipendenti, la situazione si fa più tesa, ma i blocchi persistono nonostante tutto. Mentre la Fiat attacca frontalmente i sindacati acquistando diversi spazi pubblicitari sui maggiori quotidiani d’Italia, il 7 ottobre anche il coordinamento quadri rompe il silenzio lamentando violenze da parte degli operai e accusando il sindacato di “disconoscere il ruolo dei quadri e dei capi intermedi, arrogandosi arbitrariamente la tutela di tutti, impedendo il loro ingresso in fabbrica, concesso invece ai dirigenti”. Tra l’8 e il 9 ottobre centinaia di persone forzano i blocchi ed entrano in fabbrica tra sputi e lanci di monetine. Il 10 ottobre si tiene lo sciopero nazionale congiunto di tutti i sindacati, ma a Torino la situazione è ormai sfuggita di mano: i direttori delle Meccaniche di Mirafiori e della Carrozzeria del Lingotto hanno infatti presentato un esposto alla Procura della Repubblica circa il blocco forzato del lavoro, indicando i nomi dei responsabili e i fatti specifici. La coesione interna a questo punto si infrange e i quadri scendono in piazza. 

Ad arringarli dal palco del Teatro Nuovo il 14 ottobre c’è Luigi Arisio, figlio di operai, studente alla scuola allievi della Lancia, assunto dalla Fiat e attualmente capo reparto delle sellerie. Intenzionato a porre fine ai picchetti e al blocco del lavoro rigettando però qualsiasi tipo di violenza, Arisio agisce nelle retrovie tessendo una fitta rete di contatti tra i quadri e gli impiegati e trovando un inevitabile supporto nell’azienda stessa e, in particolare, in Carlo Callieri, responsabile delle relazioni sindacali. Mentre il futuro deputato repubblicano dà voce alla frustrazione della categoria a cui appartiene, la gente continua ad arrivare. Si riempiono il teatro e la piazza antistante, e il comizio viene interrotto per la folla eccessiva. Alle dieci un corteo di migliaia di persone si muove verso corso Marconi, corso Vittorio Emanuele, via Roma e piazza Castello. Il cuore di Torino è invaso da una moltitudine silenziosa che lascia parlare soltanto la scritta “Distruggere il lavoro oggi può essere la fame dei nostri figli domani”. Quindicimila per alcuni, trentamila per altri, quarantamila per l’immaginario collettivo e la storia. Un numero inatteso e sorprendente, comunque superiore alla totalità dei quadri della Fiat (diciottomila). Un amalgama eterogeneo di impiegati, operai e semplici abitanti che di fatto scardina il trentacinquesimo giorno di sciopero.

L’effetto, non a caso, è prorompente: la Fiat sospende le trattative, i leader confederali e la Flm si riuniscono d’urgenza e decidono di fare un passo indietro. Il rischio di un’analoga e reiterata contestazione rivolta ai sindacati è ormai troppo alto. All’alba del 15 ottobre l’accordo è raggiunto: 23mila lavoratori in cassa integrazione a zero ore dal 6 ottobre 1980, dimissioni volontarie e impegno della Fiat a riassumere coloro che al 30 giugno 1983 si trovassero ancora in cassa integrazione. Il giorno successivo i segretari confederali affrontano gli operai nelle assemblee di fabbrica: Lama alle Carrozzerie, Benvenuto alle Presse e Carniti alle Meccaniche. I tre tentano invano di difendere l’accordo raggiunto, ma vengono subissati di critiche, fischi e contestazioni. La votazione per alzata di mano si rivela una farsa e l’accordo viene comunque dato per approvato. Carniti è costretto a scappare con la macchina bersagliata dai sassi e una scena simile si ripete per Lama e Benvenuto. Finiscono così i trentacinque giorni di lotta e, come ricorda Gad Lerner nel suo libro Operai, “si cancella definitivamente il logos attorno a cui s’era costituita l’identità della sinistra lungo tutto il dopoguerra: la centralità operaia”.

La Marcia dei quarantamila rappresenta la fine simbolica del taylorismo e la temporanea ascesa dei colletti bianchi, protagonisti di un trionfo nell’immediato ma di una catastrofica sconfitta quattordici anni dopo: tra il 1993 e il 1994, infatti, la Fiat metterà in mobilità 12mila persone tra quadri e impiegati. Un epilogo che ha l’amaro retrogusto dell’irriconoscenza.

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