Quest’anno ricorrono rispettivamente il novantacinquesimo e il cinquantacinquesimo anniversario della nascita e della morte di Malcolm X, attivista nero – tra le figure più importanti del Novecento – assassinato il 21 febbraio 1965 da un commando di tre persone mentre si preparava a parlare sul palco della Audubon Ballroom, a New York. Sul suo corpo sono state trovate 21 ferite da arma da fuoco, causate da due pistole e da un fucile a canne mozze. Quelli che sono stati indicati come i responsabili materiali della sua morte, Talmadge Hayer, Norman Butler e Thomas Hagan, erano affiliati alla Nation of Islam, il gruppo islamico di cui X aveva fatto parte fino all’anno prima, anche se da subito in molti hanno sollevato dei dubbi sulle vere responsabilità di questo assassinio. In occasione del Black History Month, Netflix ha trasmesso la docuserie Chi ha ucciso Malcolm X?, che segue il lavoro investigativo condotto dal ricercatore indipendente Abdur-Rahman Muhammad sulle cause della morte di X. Ora, proprio alla luce delle informazioni inedite contenute nel documentario, il procuratore distrettuale di Manhattan ha deciso di riaprire il caso per valutare se si possano condurre nuove indagini, in particolare per rivedere la posizione di Hagan (che oggi ha preso il nome di Mujahid Abdul Halim), che avrebbe scontato oltre vent’anni di carcere da innocente.
Nato nel 1925 in Nebraska con il nome di Malcolm Little, la prima parte della vita di Malcolm X è segnata dalla violenza del suprematismo bianco e del Ku Klux Klan. Il padre Earl è infatti il leader di un’associazione per i diritti degli afroamericani, la Universal Negro Improvement Association, presa costantemente di mira dai nazionalisti bianchi. A causa di ripetute minacce e attacchi, tra cui l’incendio della loro casa, i Little cambiano città diverse volte, finché nel 1931 Earl muore, ufficialmente in un incidente stradale, anche se la sua famiglia è convinta che sia stato ucciso volontariamente. Pochi anni dopo, la madre di Malcolm ha un esaurimento nervoso e viene chiusa in manicomio e i sette fratelli Little vengono separati e affidati a famiglie diverse. Il giovane Malcolm, che frequenta scuole bianche, mostra un intelletto sopra la media, ma gli insegnanti castrano le sue aspirazioni per una carriera legale consigliandogli di fare il carpentiere, perché nessuno avrebbe assunto un avvocato nero.
Nel 1943 si trasferisce nel quartiere di Harlem, a New York, e qui comincia a condurre una vita da criminale, compiendo rapine, spacciando droga e gestendo giri di prostituzione. Colto in flagrante mentre sta facendo riparare un orologio rubato, nel 1946 viene arrestato e condannato a dieci anni di reclusione nel carcere di Charlestown State per furto ed effrazione. Il periodo in prigione è fondamentale per la nascita dell’attivismo di Malcolm: qui viene a conoscenza del movimento Nation of Islam, un gruppo religioso musulmano che predica la superiorità dei neri sui bianchi e la necessità del ritorno della diaspora africana. Decide di rinnegare il suo “slave name” Little, ovvero il cognome assegnato dal padrone ai suoi antenati schiavi, e di firmarsi solo come “X”. Comincia una fitta corrispondenza con il leader della Nation of Islam, Elijah Muhammad, e nel 1950 scrive una lettera al presidente Truman per opporsi alla guerra in Corea, dichiarandosi comunista. Entrambe queste azioni gli costano la sorveglianza dell’FBI, sorveglianza che non cesserà fino alla sua morte.
Nel corso degli anni Cinquanta, Malcolm X diventa la figura centrale della Nation of Islam, arrivando fino a oscurare il leader Elijah Muhammad, molto meno carismatico del giovane predicatore. Malcolm, invece, con le sue capacità oratorie e il suo indubbio fascino, attira e converte alla causa masse di persone. È proprio a causa della crescente rivalità tra i due, a cui si aggiunge anche l’inimicizia dei figli di Muhammad verso X, che Malcolm verrà progressivamente allontanato dal movimento finché, nel 1963, non ne verrà del tutto ostracizzato. Ufficialmente, la causa della sua sospensione sono le frasi pronunciate dopo la morte del presidente Kennedy. Malcolm X, infatti, trasgredisce il divieto di Muhammad di commentare l’omicidio del presidente e, durante uno dei suoi discorsi, pronuncia una frase entrata a suo modo nella storia: “The chickens were coming home to roost” – un’espressione idiomatica che si può tradurre con “i nodi vengono al pettine” – dicendo che i polli che tornano al pollaio lo rendono sempre contento.
Per il capo della Nation of Islam si tratta di un danno d’immagine intollerabile, e per questo a Malcolm X viene vietato di parlare in pubblico, inizialmente per tre mesi, poi per sempre. Anche la mancata reazione del gruppo all’uccisione del membro della comunità Ronald Stokes davanti alla moschea di Los Angeles aveva fatto scontrare Malcolm X – deciso a vendicare la violenza ingiustificata della polizia (Stokes fu infatti colpito alle spalle, con le mani alzate) – con Elijah Muhammad che, gestendo un impero da 5 milioni di dollari, invece voleva mantenere un buon rapporto con le istituzioni. Nell’ultimo anno di vita, Malcolm sa di essere marchiato a morte. Pochi giorni prima dell’omicidio, tre molotov vengono fatte esplodere nella sua casa. È celeberrima la fotografia pubblicata su Life che lo ritrae mentre guarda fuori dalla finestra con sospetto, reggendo un fucile.
Il documentario di Netflix sembra suggerire che l’allontanamento dalla Nation of Islam sia stato in qualche modo favorito se non addirittura orchestrato dall’FBI che, non potendo direttamente eliminare Malcolm X, lasciò che a farlo fossero altri musulmani neri. Molti storici concordano con questa teoria e le grosse incongruenze e imprecisioni nelle indagini condotte all’indomani della morte di X sono sotto gli occhi di tutti, tra cui il fatto che due dei condannati, Norman Butler e Thomas Hagan, non si trovassero nemmeno sul luogo dell’omicidio. Il terzo imputato, Talmadge Hayer, è stato colto in flagrante ed è quindi l’unica persona la cui colpevolezza sia certa. Prima di morire, Hayer ha scritto un affidavit in cui indicava i nomi dei quattro complici, proclamando l’innocenza di Butler e Hagan. In ogni caso, è indubbio che l’FBI, una volta catturati i presunti esecutori materiali, non abbia indagato sui mandanti, di fatto lasciando una lacuna enorme nelle indagini.
Cinquantacinque anni dopo la sua morte, Malcolm X è ancora una figura controversa. Mentre altri leader dei diritti civili, come Martin Luther King (che X mal sopportava perché contrario alla pratica della non violenza) sono celebrati all’unanimità come eroi dei diritti umani, questo titolo ancora oggi viene applicato a X con riluttanza. “Martin è l’eroe perfetto che predicava la non violenza e l’amore, e Malcolm è il cattivo perfetto che fungeva da sua controparte violenta, predicando odio e militanza”, ha scritto il famoso imam e docente di Studi Islamici della Southern Methodist University Omar Suleiman su Al Jazeera, a proposito del modo in cui queste due figure vengono raccontate nelle scuole.
Dopotutto, Malcolm era tutto fuorché moderato: nero, musulmano, di estrema sinistra, radicale, convinto che la liberazione degli afroamericani dovesse avvenire “con ogni mezzo necessario” e non porgendo l’altra guancia. Per X, i neri non devono adattarsi al mondo bianco, o chiedere ai bianchi di essere accettati. Se vengono colpiti, malmenati, danneggiati dal potere, devono colpirlo, malmenarlo e danneggiarlo a loro volta. Nella teologia islamica, Malcolm X trova il principio dell’uguaglianza tra gli uomini che il cristianesimo sembrava aver tradito, riservandola ai soli bianchi. X ha cambiato la percezione che gli afroamericani avevano di se stessi nella società americana, aprendo loro gli occhi sul ruolo subalterno che ricoprivano. Ha dato loro la consapevolezza di un’identità e del fatto che a volte, per sovvertire un sistema, le buone maniere non bastano.
Il documentario Chi ha ucciso Malcolm X? ha contribuito a rimarcare l’importanza dell’eredità del pensiero di Malcolm X: se la tesi proposta da Abdur-Rahman Muhammad fosse vera, e cioè se l’FBI avesse in qualche modo collaborato all’assassinio dell’attivista, sarebbe la prova della legittimità della sua politica radicale. La violenza razzista negli Stati Uniti da parte delle istituzioni, d’altronde, è ancora una realtà: secondo l’associazione Mapping Police Violence, una persona nera ha tre volte le probabilità di una bianca di essere uccisa dalla polizia. Il 21% delle vittime afroamericane della polizia nell’anno 2019 erano disarmate e nel 99% le forze dell’ordine non devono rispondere di alcuna conseguenza legale. Abbiamo ancora bisogno di figure militanti e controverse come Malcolm X, in grado non solo di indicare da lontano i problemi del sistema, ma anche di suggerirci un modo per sovvertirlo.