Al giorno d’oggi, in cui il linguaggio occupa una parte sempre più grande delle nostre vite, attraverso prima di tutto i social e più in generale la diffusione di notizie sul web, L’ordine del discorso di Michel Foucault può essere un vero e proprio kit di sopravvivenza per opporsi ai meccanismi di potere veicolati dalle parole. Secondo Foucault, infatti, il discorso ha una quantità di parole controllabili dal potere e questo meccanismo non si può cogliere in modo “intuitivo”, per questo va analizzato con metodo, fino a ottenere uno strumento scientifico, ed è proprio questo uno dei compiti che si prefigge una certa branca della filosofia.
Lo scopo di questo controllo da parte del potere è quello di selezionare i soggetti parlanti, in modo da determinare differenze, e quindi gerarchie. Questi freni, tesi a escludere e selezionare, agiscono in ogni genere di contesto dove è presente un’istituzione vigilante: famiglia, luoghi di lavoro, università, ospedali, all’epoca manicomi, e oggi molti altri. Ciò accade ogni volta che il singolo si confronta con un contesto che voglia impedire qualsiasi tipo di violazione alle sue regole implicite o esplicite, o controllare e inibire la manifestazione del desiderio – secondo Foucault il bisogno di esprimere se stessi e dunque di apportare modifiche al contesto. Dopo aver lavorato allo studio del potere esercitato sui corpi con testi come Sorvegliare e punire, le parole oggetto della riflessione del filosofo francese, “controllo” ed “esclusione”, risuonano ancora oggi con grande potenza. Essendo inscindibile dalle manifestazioni del potere, la questione del come parliamo sarà sempre un tema fondamentale di analisi e discussione politica e sociale.
L’ordine del discorso è la trascrizione di una lezione che il filosofo tenne nel 1970 per presentare ai suoi allievi del Collège de France il nuovo programma di studi. L’epoca è proprio quella della protesta e della messa in discussione delle strutture che controllano, organizzano e gestiscono il potere, o meglio i poteri. In un mondo che ha necessità di combattere i segreti del sistema, secondo Foucault, l’impegno è quello di analizzare le strutture e le parole di cui il potere si è avvalso nel corso del tempo per poi scardinarle e contrastare i pericoli dell’epoca e del futuro. Non a caso, infatti, molti studiosi sostengono che gli studi di Foucault abbiano validità e siano applicabili tuttora.
Oggi molti studiosi hanno notato il modo in cui le procedure d’esclusione studiate da Foucault si verifichino anche nell’apparentemente illimitata capacità democratica di un social. Anche qui, vediamo all’opera la lezione più importante di Foucault, quella che il filosofo chiama “interdetto”, che ci ricorda che non tutti possono produrre qualsiasi tipo di discorso. Chiunque, insomma, non può parlare di qualunque cosa. Bisogna rispettare il “tabù dell’oggetto”, il “rituale” e il “diritto del privilegiato”. In questi tre concetti la posta in gioco è alta: da una parte non a tutti è concesso di esprimersi con efficacia e soprattutto con auctoritas: ci sono taciti rituali da rispettare, che influiscono perfino sul contenuto del discorso; infine solo a pochi privilegiati viene riconosciuto il diritto di parlare, rispetto ad altri magari ugualmente preparati e motivati. Ogni discorso impone un ordine, un metodo e una fitta rete di limitazioni e concessioni da rispettare acriticamente, pena la possibilità di non poter agire al suo interno. Se non si soddisfano certe esigenze, il controllo del discorso si adopererà per accerchiare e sconfiggere ciò che diciamo con un esercito a difesa di se stesso, volto a escludere l’imprevisto. Anche la speranza che chiunque possa provarci sembra sempre più un’illusione, specie laddove si realizzino quei discorsi a seguito di particolari rituali, ai quali bisogna conformarsi in ragione dell’esigenza di mantenere inalterata la propria “brand reputation”. Quando finalmente s’impara a parlare la lingua della nicchia la possibilità di interagire autorevolmente con la rete dipenderà da una serie di altri fattori non valutabili in cui prevale il registro dell’ambivalenza e dell’ambiguità, espressione di un micropotere sempre in attività, e che secondo il filosofo si realizza non più nell’idea del sovrano o di un inesistente re del mondo. Il potere si è trasformato in micropotere quando si sono moltiplicati e decentrati quei meccanismi che si occupano di ogni dettaglio della vita pubblica, ma soprattutto privata. Il filosofo parla di micropotere nella relazione uomo e donna, datore di lavoro e dipendente, maestro e allievo o tra chi possiede beni e strumenti e chi no.
Ciò che il filosofo scriveva a proposito della libera espressione, che fu poi ripreso dalla teoria della “spirale del silenzio”, proposta negli anni Settanta dalla sociologa Elisabeth Noelle-Neumann, sui social accade in modo ancor più manifesto: siamo tutti convinti di sapere quale sia la tendenza della maggioranza in merito a uno specifico tema, e quindi cosa le si opponga. Ma siccome subiamo la paura dell’isolamento, quando ci capita di avere opinioni divergenti da questa, preferiamo tacere piuttosto che condividere quello che pensiamo davvero. Si realizza così, ancora una volta, il meccanismo del controllo dei nostri desideri di felicità e salvezza e ritorna il messaggio di Foucault sull’interdetto, e il divieto di trattare certi argomenti tabù.
Il saggio parla di procedure d’esclusione capillari e visibili, oggi sottolineate da Noelle-Neumann quando dice che le opinioni che i mass media trascurano subiscono nella mente delle persone un processo di svalutazione e di vergogna nell’essere espresse. Poche persone sono abbastanza forti e libere da sostenere il peso psicologico di percepirsi isolati nel loro contesto sociale. Si teme la procedura che Foucault chiama “partizione”, nella quale il potere crea distinzioni tra le parole “sensate” e quelle senza senso del folle, che sarà ascoltato solo nel caso gli si riconosca capacità profetiche o di vaticinio.
Ma quando tutto è visibile e dunque almeno apparentemente ascoltato e ogni discorso trova spazio le cose cambiano. E alcune parole evidentemente inesatte non risultano subito come false, o non-vere. Lo psicologo Daniel Kahneman nel suo studio sulle teorie della decisione che gli è valso il Nobel per l’economia nel 2002, ha dimostrato che le persone, anche quando sono dotate di informazioni di qualità, le elaborano in maniera errata, creando sillogismi privi di logica, per poi attuare risoluzioni incongrue. Ciò sembra dovuto al fatto che accettiamo superficialmente informazioni che confermano le nostre convinzioni e rifiutiamo quelle contrarie.
Oltre a ciò che accettiamo o rifiutiamo, anche le categorie vero/falso – ovvero quelle che una qualsiasi disciplina adotta per determinare la scientificità e l’esattezza del discorso – sono procedure d’esclusione a tutti gli effetti, ma la loro definizione cambia insieme alla Storia. Nella Grecia del VI secolo, ci dice Foucault, il discorso era vero se era pronunciato da un’autorità che ne aveva i diritti. Un secolo dopo lo era in base al suo contenuto. Con l’emergere della democrazia il discorso viene quindi disincarnato e ridotto al contenuto. Poi la possibilità di conoscere della popolazione si è ampliata sempre di più, fino ad arrivare a superare anche le distinzioni di classe, diventando sempre più democratica, e infine sono arrivati i media e i social, in cui accade che fonti sempre meno autorevoli spostino la nostra percezione del vero, all’atto del dirla anziché a ciò che si dice e al suo significato.
Foucault parla di procedure di controllo “interne al discorso” che lui più propriamente definisce “commento”. Esistono allora i discorsi che si dicono ma non restano e poi ci sono i “commenti”, ovvero discorsi che originano nuovi pensieri in attesa di essere diffusi e trasmessi di nuovo. La novità non sta dunque in quel che è detto ma nel suo ritorno. In questo caso si potrebbe dire che il ritorno nel web è qualcosa di inevitabile e che riproporre e riattualizzare un discorso moltiplicandolo è forse la sua caratteristica principale. Tuttavia, come previsto da Foucault questi tentativi di coinvolgimento del pubblico, danneggiano proprio la lettura. La volontà di avere la verità è stata così compromessa, cioè, la “verità” che il pubblico vuole non può che essere mascherata. La volontà di avere il “vero” diventa così il peggiore dei macchinari atti ad escludere tanto dalla verità che dalla conoscenza.
Anche nel caso si abbia a che fare con qualcosa di molto elusivo e sfuggente come ciò che sperimentiamo a volte sul web, Foucault nota che il potere trova sempre un’altra procedura che permetta di creare condizioni e regole atte ancora a escludere. Il “rituale”, come complesso di norme da rispettare per l’individuo che parla, il quale deve esprimersi, agire e muoversi secondo modi convenzionali, è stipulato dalle cosiddette “società di discorso”, ambienti chiusi con regole restrittive che esercitano ognuna il proprio micropotere. Queste società assicureranno la veridicità di gran parte delle informazioni trasmesse e moltiplicheranno i soggetti parlanti secondo la loro volontà, o secondo un nuovo rituale anche a costo di fare della casualità dei contenuti un punto di forza.
La dittatura del discorso, che pretende l’abbandono totale di ogni esigenza d’espressione, può intimidire e frustrare. La questione è che l’ordine del discorso pretende non tanto che si “capisca” quanto “che si accetti” il mare di poteri distanti, anonimi e particellari e che si agisca nel rispetto delle loro regole. Alcuni arrivano dunque a sfruttare a loro volta controllo e desiderio, altri non si accorgono neppure della regola, dibattendosi sempre più rassegnati, arrabbiati o confusi. Alla luce del pensiero di Foucault, le infinite forme di esclusione non devono però essere recepite come fatalità o ingiustizie, non sono questioni magiche e incontrollabili ma esiti e fatti stabiliti a priori che hanno presa diretta sul nostro agire e dire quotidiano, scene di un rituale perfettamente discernibile, se abbiamo il kit per vederlo.