Quello della malattia è uno dei grandi temi della letteratura di tutti i tempi. C’è un ampio immaginario che esplora il microcosmo dell’epidemia, della paura dell’untore e della necessità, atavica e primordiale, di rimanere uniti per fronteggiare un nemico invisibile. In questi giorni di quarantena, possiamo avere il tempo di riprendere i classici e addentrarci nel loro mondo per capire meglio il nostro.
Innanzitutto c’è ancora molta confusione sui termini che da ormai due mesi ci sentiamo ripetere e ripetiamo a nostra volta in continuazione. Epidemia deriva dal greco “epì-demos”, letteralmente “al di sopra del popolo”, e si riferisce alla progressiva diffusione di una malattia in una zona più o meno vasta. Un focolaio è invece l’improvviso e rapido aumento di casi di una determinata malattia all’interno di una comunità o regione. Pandemia deriva sempre dal greco “pan-demos”, letteralmente “di tutto il popolo”. Per poter parlare di pandemia bisogna soddisfare, secondo l’Oms, tre criteri: diffusione tra le persone, alto numero di morti ed estensione a livello globale. Molte sono state le pandemie della storia: tra le più conosciute è doveroso citare la febbre tifoide durante la guerra del Peloponneso nel 430 a.C. e la peste nera del 1300, che sono state rappresentate con dovizia di particolari in letteratura.
Spostandoci su una linea cronologica più vicina a noi, troviamo l’epidemia di Sars tra il 2002 e il 2004 e causata un virus appartenente alla famiglia dei coronavirus, battezzato SARS-CoV. Non è stata una vera e propria pandemia, anche se la malattia, proveniente dalla Cina, si è diffusa a Hong Kong e da lì a Taipei, Toronto, Singapore e molti altri Paesi asiatici e non solo. C’è stata poi l’influenza A/H1N1, pandemia tra il 2009 e il 2010, conosciuta col nome di “influenza suina”, perché trasmessa da questo animale all’uomo, e cominciata in Messico e diffusasi in quasi 80 Paesi in due mesi. L’Oms ha stabilito che ormai anche la COVID-19 sia ufficialmente una pandemia: è una malattia infettiva respiratoria causata dal virus SARS-CoV-2 (conosciuto anche come coronavirus di Wuhan) sempre appartenente alla famiglia dei coronavirus, come la SARS.
Pandemia è una parola che incute timore, ci immobilizza e rende vulnerabili: nella storia dell’umanità, la letteratura ha sempre cercato di esorcizzare e indagare la paura, analizzarne le conseguenze e mostrare gli effetti distruttivi del terrore sull’uomo. La malattia è lo specchio in cui si riflette la paura più intima e connaturata nell’uomo, ossia quella della morte, e le opere letterarie sono sempre riuscite ad attraversarla. Laletteratura ci fornisce un saldo filo in grado di tenere insieme una vita che sentiamo, ora più che mai, minacciata dalla precarietà e dalla temporaneità.
Una testimonianza antica della perdita di valori dell’umanità davanti alla malattia ci è fornita da Lucrezio, nel De rerum natura, quando nel libro VI parla della peste di Atene del 430 a.C., ispirandosi all’episodio descritto da Tucidide nel secondo libro della Guerra del Peloponneso: la peste era scoppiata durante le ultime fasi della guerra, uccidendo un quarto delle truppe di Atene e della popolazione. La virulenza del morbo uccideva con una fretta tale da impedire la dispersione del bacillo. Lucrezio osserva la peste con un occhio da scienziato ante litteram e ne descrive gli effetti fisici con un realismo straziante: non risparmia le scene più macabre e i dettagli dei sintomi su uomini e animali. Emblematici i versi in cui, le vittime del contagio si accasciano col cuore afflitto e pensano già al proprio funerale, morendo in quello stesso luogo (vv.1230-1234, VI) o quelli in cui parla delle case piene di corpi senza vita dei genitori ammassati su quelli dei figli (vv. 1255-1257, VI). Lucrezio ci mostra l’inesistenza di un disegno tracciato dagli dèi, poiché il morbo colpisce allo stesso modo i coraggiosi e i vigliacchi, i giovani e gli anziani, non trattandosi di punizioni stabiliti dall’alto ma di fenomeni naturali. Leggendolo oggi, apprendiamo che l’uomo, impotente di fronte al manifestarsi delle calamità, non ha a sua disposizione che l’arma della ragione (per lui incarnata e sublimata nella dottrina epicurea).
L’intelletto non può di certo bloccare l’avanzata dell’epidemia, ma può aiutare a non farsi irretire da oscurantismi o facili superstizioni, dalla falsa informazione e da chi crede che le sciagure naturali siano un castigo divino. Lo sguardo scientifico e lungimirante di Lucrezio, che ha saputo discernere le calamità naturali da sedicenti punizioni degli dèi, e che ha propugnato l’arma della conoscenza al di sopra di ogni cosa, ha ancora molto da insegnare a noi uomini del 2020 che spesso annuiamo di fronte alle teorie complottistiche o religiose più disparate, o siamo semplicemente influenzati da un immaginario incosapevolmente pregno della morale cattolica.
D’impatto è anche la descrizione della peste nel Norico, nel terzo libro delle Georgiche di Virgilio. Il morbo che Virgilio descrive è circoscritto però al mondo animale: mostra infatti i buoi cadere sull’aratro, fumanti di sudore e intenti a emettere l’ultimo rantolo bavoso (vv. 515-530, III). La plasticità e il patetismo creano empatia verso il mondo agricolo dell’epoca che conosce una profonda crisi, poiché basato essenzialmente sul lavoro animale. Nemmeno Virgilio però attribuisce la peste alla volontà degli dèi, ma alle condizioni climatico-ambientali: la prova tangibile risiede nel fatto che il morbo si sia sfogato contro esseri incolpevoli come gli animali, estranei quindi a qualsiasi fantomatica colpa. Un’altra importante lezione dall’antichità.
Immortalata da Boccaccio nel Decameron, la peste nera del Trecento è stata il flagello del tardo Medioevo occidentale. Boccaccio è testimone della sua diffusione a Firenze nel 1348. Il morbo è l’“orrido cominciamento” che funge da cornice del Decameron, e l’“onesta brigata” di giovani deve modificare il proprio stile di vita, se vuole sopravvivergli. Dall’opera arriva un’importante lezione: se si vuole affrontare un evento così traumatico nel migliore dei modi, è necessario cambiare le proprie abitudini. I giovani, infatti, si ritirano in casa e “fatta lor piccola brigata, da ogni altra separati viveano, in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio”: è un vero e proprio monito a restare a casa, impiegare costruttivamente il tempo senza sottoporsi al rischio delle uscite, concentrandosi su tutto ciò che le mura domestiche possono offrire. Rileggendo quest’opera, è sorprendente osservare i punti di contatto tra l’epoca di Boccaccio e la nostra; vi è anche la critica a chi si perdeva a gozzovigliare, riunirsi in giro e bere senza controllo. Ed è un richiamo potentissimo a chi ignora le ordinanze e fa continuamente assembramenti, mettendo a rischio la salute degli altri: “il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura”.
Non si può poi prescindere da Manzoni: i Promessi sposi non ha certo bisogno di presentazioni, poiché è un serbatoio inesauribile di temi, motivi e tòpoi della società civile; come tutti i classici, la suo eco continua a riverberare sulle nostre vite, e in questo momento più che mai. Il trentunesimo capitolo di questo romanzo storico parla del diffondersi della peste del 1630 a Milano, mediante il passaggio dei lanzichenecchi: “Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza”. Manzoni evidenzia l’ignoranza del popolo e le accuse ai medici; alcuni credevano che le voci sulla peste fossero state addirittura messe in giro per dar lavoro a quest’ultimi. Il rimando a chi, da settimane, parla del virus come di un grande complotto ordito dai poteri forti è immediato. E già nell’Ottocento, prima dell’informazione di masse e dei social, qualcuno ci teneva a denunciare e a mette in guardia i lettori da tutto ciò.
Manzoni affronta magistralmente anche il rapporto tra il popolo e i cosiddetti untori: l’autore narra che, la sera del 17 maggio 1630, alcune persone credono di vedere dei tizi ungere un’asse che fa da parete divisoria tra i fedeli nel duomo di Milano. Si diffonde la voce che il duomo sia unto, quindi l’asse e le panche vengono lavate davanti a tutti, causando un allarmismo fomentato anche da persone istruite, e non solo dai popolani ignoranti. Il giorno dopo un lungo tratto delle mura di Milano viene sporcato da una sostanza giallastra, e l’ipotesi dei luoghi unti viene avvalorata: ormai quella degli untori era una certezza. La psicosi si impossessa del popolo, che sospetta soprattutto degli stranieri e li cattura per consegnarli alla giustizia. Le analogie diventano sempre più puntuali e inquietanti, soprattutto nel saggio storico dello stesso autore Storia della colonna infame, che si riferisce a quella eretta sulle macerie della casa di Gian Giacomo Mora, additato come untore assieme a Guglielmo Piazza. Fu la popolana Caterina Rosa ad avviare la caccia ai due, poi processati ingiustamente per dare alla folla l’illusione di un capro espiatorio. La società odierna sembra ripetere le stesse dinamiche di quella di diversi secoli fa, basta pensare agli episodi di razzismo contro persone di origine cinese avvenuti all’inizio dell’epidemia.
Una lezione importante ci arriva anche da Camus, con La peste e Lo stato d’assedio. La peste, pubblicata in Francia nel 1947, propugna un umanesimo laico, che affonda le radici proprio in quella “social catena” di cui parlava Leopardi. “Quando scoppia una guerra, la gente dice: ‘Non durerà, è cosa troppo stupida’. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare”, si legge, e una pandemia è qualcosa di molto simile a una guerra sotto certi aspetti. L’opera, ormai in vetta alle classifiche di vendita in Italia e Francia, è una bruciante metafora della peste come morbo esistenziale, e un riferimento al nazismo. Camus ci mostra la nudità dell’essere umano davanti a un nemico invisibile, alla paura di non farcela, al discrimine tra sani e ostracizzati. Ci fa però capire che, anche in situazioni limite, l’essere umano possa scoprire il proprio potenziale, quel quid che non emerge nella normalità quotidiana.
Ne Lo stato d’assedio, opera teatrale pubblicata l’anno dopo, la peste diventa un vero e proprio personaggio, e si incarna nel potere, nell’ideologia rigida che schiaccia gli uomini e che cambia continuamente volto, per confondersi e camuffarsi con sorrisi accattivanti. La peste è incarnata nelle derive totalitarie del pensiero, quelle che hanno come cifra stilistica l’esclusione dello straniero e del diverso. Leggere quest’opera oggi è più che mai illuminante, perché il grimaldello ideologico di chi propugnava l’esclusione coatta del diverso si è ritorto contro i mittenti stessi, dal momento che l’Italia ormai si vede chiudere porte, negare accessi, proprio per via di un morbo che ha ribaltato qualsiasi dottrina di tipo realistico-pragmatico, in maniera che se non fosse tragica la si definirebbe ironica.
La società e gli individui che attraverseranno questo periodo non saranno più gli stessi, ma i classici possono fornire utili coordinate per aiutare a orientarsi nel marasma, in maniera lucida e concreta, al di là del facile citazionismo da social e di qualsiasi slogan. “Io mi sento,” afferma Camus ne La peste, “più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”. Non sappiamo che tipo di uomo ci consegnerà la fine di questo periodo storico, si spera sia un essere umano più empatico, più attento, più umile, più consapevole, ma senz’altro sarà un essere umano mutato.