Nel febbraio 1909 Filippo Tommaso Marinetti pubblicò il Manifesto del Futurismo, atto ufficiale della fondazione del gruppo. Lo scrittore d’Alessandria d’Egitto, che da qualche anno frequentava l’ambiente parigino e aveva scritto le sue opere giovanili in francese, scelse il prestigioso Le Figaro per promuovere i princìpi ispiratori. Nel programma veniva proposta l’esaltazione del pericolo, del movimento aggressivo, della velocità e della tecnologia: “Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo…un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia”. La guerra rappresentava la “sola igiene del mondo” e andava pertanto glorificata, insieme al militarismo, al patriottismo e al disprezzo della donna. Al decimo punto, il poeta futurista si spingeva persino a invocare la distruzione dei musei, delle biblioteche e delle accademie, cioè di quanto si rifaceva alla “cultura imbalsamata” e ai valori vecchi e deboli del passato.
Ci si può chiedere fino a che punto ideali come questi siano frutto dello scherzo e della provocazione, eppure il Duce in persona intratteneva un forte rapporto d’amicizia con Marinetti, trasformato ben presto in un intellettuale di regime. Molti di loro furono accesi interventisti, parteciparono alla Grande Guerra e, in alcuni casi, non fecero più ritorno a casa. Alla base del Manifesto e delle loro azioni politiche si trovava – com’è chiaro – una nuova percezione dell’uomo, fondata sui valori dell’individualismo, dinamismo, violenza, forza e imperturbabilità d’animo, considerati distintivi della moderna realtà industriale e condensati nella mitizzazione della macchina. Il significato dell’individuo si risolveva interamente nell’azione: egli era qualificato in base all’essere o meno meccanico e produttivo. Non trovava alcun posto la narrazione della fragilità, che anzi faceva parte di quella letteratura precedente da rigettare in blocco.
L’esperimento futurista si consumò in pochi anni e restò un caso isolato. Altri autori, sia prima che dopo, tracciarono un’immagine del tutto opposta dell’essere umano, rappresentandone la dimensione psicologica, gli aspetti spirituali e sentimentali e le comuni debolezze. L’esempio più citato è quello di Giacomo Leopardi, il cantore della tristezza per antonomasia, che nella giovinezza provò sulla propria pelle la solitudine, l’oppressione derivante dall’autoritarismo della famiglia e diversi problemi di salute. In vari scritti l’autore osservava l’esistenza della “guerra d’ogni giorno, ora, momento” di “ciascuno contro ciascuno” e più propriamente del più forte contro il più debole. Come annotò nei Pensieri, che si differenzia dallo Zibaldone in quanto ordinato, “il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi”. Questi ultimi, proprio in quanto privi dell’astuzia e dell’egoismo che dominano la quotidianità, consapevoli delle proprie fragilità in quanto esseri umani, sono ritenuti dagli altri “creature d’altra specie” e quindi inabili all’arte del vivere. La rivincita del Leopardi, che chiaramente si rivedeva in questi ultimi, arrivò nelle Operette morali, con il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo. Questa discussione si svolge fra due personaggi fantastici in uno scenario apocalittico: il genere umano si è estinto e sia il Folletto che lo Gnomo constatano come questo, a differenza di quanto gli uomini hanno creduto con presunzione, non turbi minimamente gli equilibri sulla Terra e il procedere del mondo naturale. Attraverso ciò il poeta di Recanati voleva denunciare l’idiozia dell’antropocentrismo, la persuasione degli uomini di essere al centro nell’universo. Da questo cataclisma non si salvava neppure la lega di birbanti, che ha sempre tenuto nascoste le proprie fragilità inscenando una lotta contro l’altro, quell’uomo da bene che ha invece deciso di accettarle. Leopardi non escluse che potesse esserci un progresso, con una società più giusta e rapporti migliori fra gli uomini. Ma non la individuò nelle conquiste tecnologiche, tantomeno nella falsa idea della grandezza dell’uomo, bensì nella consapevolezza delle debolezze e della miseria comune. È un progresso civile e morale, che nasce rinsaldando i legami, raggruppandosi nella “social catena” de La Ginestra e disprezzando la sopraffazione.
Un’altra denuncia agli standard che la società ha imposto all’uomo arriva da Franz Kafka. La sua stessa esistenza può esserne una limpida testimonianza. Lo scrittore boemo visse costantemente con la paura di non essere adeguato, di non riuscire a conformarsi alle regole della vita borghese per via della sua fragilità. Si sentì, fino alla prematura morte, schiacciato e spersonalizzato dalle imposizioni esterne e anche quando trovò un lavoro d’ufficio, come assicuratore, lo accettò malvolentieri, riconoscendosi come escluso dalla società, che lo sfruttava pur considerandolo di poco valore. Non a caso, nella Lettera al padre lamentò di non essere un vero Kafka, a differenza del suo genitore, “in quanto a forza, salute, appetito, autosufficienza, senso di superiorità, tenacia, presenza di spirito”. Questo senso di inadeguatezza a cui l’aveva indotto in primis la figura paterna e poi la società – imponendo delle norme rigide a cui attenersi per essere considerati uomini – venne narrato ne La metamorfosi. Nel racconto Gregor Samsa, alter-ego dell’autore, si risveglia un mattino e si ritrova trasformato “in un enorme insetto immondo”. Proprio Samsa, che era sempre stato un figlio rispettabile e uno scrupoloso lavoratore, si ritrova a essere ripugnante nell’aspetto e odiato dalla famiglia, che non riesce a scorgere più niente di umano in lui e lo vede soltanto come un peso insostenibile. La sua condizione di diverso lo fa vergognare a tal punto che, fra chi lo prende in giro e chi tenta di fargli del male, decide di lasciarsi morire. Settant’anni dopo l’uscita dell’opera, che aveva lasciato diversi dubbi circa la sua interpretazione, Vladimir Nabokov –- che oltre a essere scrittore era un entomologo – decise di disegnare l’insetto descritto da Kafka, accorgendosi che non si trattava affatto di uno scarafaggio ma di uno scarabeo sacro, quindi capace di volare. A questo punto, affermava l’autore di Lolita, bisogna chiedersi come sarebbe cambiata l’esistenza di Gregor Samsa se si fosse accorto del suo reale potenziale e del fatto che fosse possibile vivere anche tradendo quell’ossessiva ricerca della normalità.
Di parere simile fu anche Italo Svevo, che ne La coscienza di Zeno rappresentò la diversità del protagonista come qualcosa di positivo. Zeno, infatti, ha un disperato bisogno di salute, cioè di normalità e di integrazione nella società borghese: vorrebbe essere un buon padre di famiglia e abile negli affari ma, nonostante tenti di assomigliare a quel tipo compiuto e definitivo di uomo, non ci riesce. Nella lotta che intraprende con se stesso ha modo di scoprire però che la “salute atroce” di chi lo circonda è anch’essa una forma di malattia, e ben più grave della sua. A differenza della sanità in cui gli altri sono cristallizzati e bloccati per sempre, l’inettitudine del protagonista è una condizione aperta e quindi disponibile a ogni forma di sviluppo. Un uomo come Zeno Cosini, consapevole delle proprie debolezze e propenso al cambiamento, diventa perciò un esempio ben più nobile degli altri.
A questo punto viene piuttosto naturale il confronto col presente. L’uomo moderno sempre più spesso si vede costretto a inseguire modelli tossici vecchi di secoli, che prevedono l’anestesia dei sentimenti, la corrosione dei rapporti interpersonali e un acceso individualismo. L’avvento e l’imperversare di un capitalismo malato e della corsa alla produttività ha reso tutto ancor più tremendo: gli uomini sembrano disposti ad annientare se stessi e gli altri, negando le proprie fragilità attraverso sforzi pericolosi e difficilmente sostenibili per lungo tempo. Sembrano aver preso piede quella serie di disvalori morali e culturali, come il dinamismo, il torpore affettivo, lo slancio egoistico, la prepotenza dell’uomo sull’altro uomo, che i futuristi ritenevano essenziali per il procedere della modernità e della società industriale. Attraverso la diffusione di standard e tipi di uomini ideali, l’essere umano è stato svuotato della propria dimensione personale, delle proprie debolezze, ed è divenuto simile agli automi. L’antidoto a una società del genere esiste e parte di esso è veicolato dalla letteratura, che ci ha insegnato, attraverso innumerevoli testimonianze, che non c’è niente di male nell’essere fragili e che proprio l’ammissione delle comuni debolezze e la lucida consapevolezza dei propri limiti garantirebbero una società più giusta e civile, unita in nome della solidarietà reciproca, dove non è necessario lottare come bestie, per tentare di non soccombere.