“Nel matrimonio la donna, privata del suo nome, perde la sua identità e ciò significa il passaggio di proprietà che è avvenuto tra il padre di lei e il marito”; “Riconosciamo nel matrimonio l’istituzione che ha subordinato la donna al destino maschile. Siamo contro il matrimonio”. Questi sono soltanto due dei punti programmatici del manifesto redatto da Carla Lonzi, Elvira Banotti e Carla Accardi per Rivolta femminile, che nel luglio del 1970 tappezzò prima i muri di Roma e poi quelli di Milano. Un presagio e una dichiarazione di intenti in sessantacinque punti che dichiarava guerra a un mondo e a una concezione della famiglia e della donna che, di lì a qualche mese, avrebbe cominciato a sgretolarsi inesorabilmente.
C’è voluto tanto, troppo tempo, perché anche nel nostro Paese le donne fossero considerate dalla legge alla pari degli uomini, come persone, dentro e fuori la famiglia. Cinquant’anni fa, in quella che è ricordata come la seduta più lunga del parlamento italiano – durata dal 24 novembre al 1° dicembre 1970 –, e dopo una lunga battaglia sostenuta da radicali e laici contro l’opposizione di cattolici, fascisti e monarchici, venne approvata in via definitiva la legge Baslini-Fortuna, ovvero la n. 898 sul divorzio, che fra le altre cose garantì alle donne il diritto di scegliere come e con chi vivere. Fu la vittoria dell’Italia civile, laica e liberale su quella che fino al 1956 aveva considerato normale, perché sancito dalla legge, che un uomo picchiasse la moglie per “correggerla” (ius corrigendi); un primo passo avanti che portò all’abrogazione di tante altre leggi ingiuste, contribuendo in modo significativo all’inizio dello scardinamento di quella cultura patriarcale e maschilista che anche attraverso l’esercizio della legge, da secoli, aveva tenuto le donne relegate nelle case, escludendole dalla politica, dal lavoro, e considerandole cittadine incomplete, proprietà privata di padri e di mariti. Fu un iter parlamentare lungo, difficile e conflittuale che rispecchiava in parte le contraddizioni del tempo e in parte i mutamenti profondi che nel frattempo erano avvenuti nel costume e nella cultura del Paese, legati all’esplosione del lungo Sessantotto dei nuovi attori sociali, dei “soggetti imprevisti” del femminismo e, in generale, di tutte quelle spinte al cambiamento che si erano incarnate in una generazione nuova, decisa a ricostruire le fondamenta della società dalla parte della giustizia dei diritti umani e civili.
La prima mobilitazione fu quella promossa dalla “Lega Italiana per il divorzio” (Lid) fondata da Marco Pannella nel 1965 in concomitanza con la presentazione alla Camera dei deputati di un progetto di legge in materia. La Lid iniziò la mobilitazione per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’istituzione del divorzio, con la convinzione che fosse il punto di partenza inderogabile per la trasformazione del Paese e per combattere quella concezione limitante e coercitiva, molto radicata all’epoca, che vedeva nella famiglia e nel matrimonio la cellula fondante della società. Fu inizialmente questo a scatenare l’attenzione dell’intero Paese e a dividere l’opinione pubblica su un tema che fino a quel momento era stato considerato un tabù anche fra le forze laiche e liberali che si erano fatte promotrici dell’iniziativa parlamentare.
Permanevano infatti forti differenze fra socialisti, radicali e femministe e molte resistenze venivano anche da buona parte del Partito comunista, che sul tema preferiva trattare con la Democrazia Cristiana. Nel novembre dell’anno successivo la Camera approvò la legge Fortuna, alla quale nel frattempo si era associato come proponente anche il liberale Antonio Baslini, con il sostegno dei comunisti che, dopo molti tentennamenti, si erano uniti al fronte divorzista; da qui prenderà il via una stagione di mobilitazioni di massa e dibattiti pubblici sul tema. Alla prima votazione alla Camera nel novembre del 1969, la legge ottenne la maggioranza contro Dc e Msi, che si opponevano strenuamente, nonostante il leader del movimento, Giorgio Almirante, avesse già alle spalle un matrimonio civile e fosse in procinto di unirsi nuovamente con un matrimonio religioso con la sua seconda moglie. Il primo dicembre del 1970 la proposta di legge “Fortuna-Baslini” fu approvata con 325 sì e 283 no alla Camera e 164 sì e 150 no al Senato. Votarono a favore Partito Socialista Italiano, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, Partito Comunista Italiano, Partito Socialista Democratico Italiano, Partito Repubblicano Italiano e il Partito Liberale Italiano. Contro si espressero Democrazia Cristiana, Movimento Sociale Italiano, Sudtiroler Volkspartei e monarchici.
Ben presto, però, su pressione della Democrazia Cristiana e del Vaticano, il testo di legge tornò in discussione con una consultazione popolare e, neanche tre anni dopo, il fronte antidivorzista guidato da Almirante chiese il primo referendum abrogativo della storia repubblicana. Un referendum a colpi di “La famiglia deve vincere, vota sì” e “Il mondo ci guarda, gli italiani votano no”. Nella data del 12 maggio 1974, l’87,7% degli italiani aventi diritto al voto si recò alle urne e con circa il 60% dei voti favorevoli al no la legge non fu abrogata.
Fu l’inizio di una grande e importante trasformazione sociale del Paese, che portò alla ribalta le lotte per i diritti civili e una nuova e rinnovata consapevolezza delle questioni sociali. Le lotte e le rivendicazioni del femminismo dopo l’approvazione della legge sul divorzio, infatti, subirono una grande accelerata, conquistando ulteriori e fondamentali traguardi giuridici: nel 1975 venne approvato il nuovo Codice di diritto di famiglia che per la prima volta garantiva la parità legale fra i coniugi; nel 1978 venne legalizzato l’aborto; nel 1981 vennero abrogate le disposizioni sul delitto d’onore e il 12 giugno 1984 fu infine istituita la Commissione Nazionale per la parità e la pari opportunità tra uomo e donna. Dalla fine degli anni Sessanta, infatti, erano stati soprattutto i gruppi femministi a rivendicare non solo l’applicazione dei principi costituzionali di eguaglianza, ma anche a mettere un chiaro accento su questioni di diritto specificamente femminili.
La legge sul divorzio fu in seguito modificata dalle leggi 436/1978 e 74/1987, e con quest’ultima il periodo di separazione fu ridotto da cinque a tre anni. Il 22 aprile 2015 è entrato in vigore il divorzio breve, che ha ridotto ulteriormente il tempo di separazione a sei mesi o un anno. A seconda che la separazione sia consensuale o giudiziale – necessaria quando una delle due parti non è disposta a concederla – serve attendere rispettivamente sei mesi o un anno per poter procedere con la domanda di divorzio, che continua a essere al centro di discussioni e modifiche. È necessario celebrare l’importanza storica e il ruolo cruciale di questa legge affinché i diritti guadagnati in anni di lotte e di rivoluzioni non siano più smantellati da chi invece vorrebbe riportarci costantemente indietro.
Ma soprattutto oggi che con la pandemia la nostra idea di famiglia e di parentela sta subendo un ulteriore cambiamento, è necessario utilizzare la lezione storica e sociale della legge sul divorzio per fare ulteriori passi in avanti, ridiscutendo e rifondando la nostra idea di famiglia su altri tipi di rapporti e su altri tipi di parentele, che non sono necessariamente di sangue, e che non si esplicano solo e unicamente in un sistema binario ed etero normato. Così da trasformare l’idea della famiglia e della parentela in un sistema nuovo che riconosca la diversità e la includa.