La storia del lavoro è fatta di sfruttamento e prevaricazione. Il cinema l’ha dimostrato.

Secondo gli ultimi dati Istat, nell’ultimo trimestre un giovane su tre è in cerca di lavoro: il tasso di disoccupazione nella fascia di età 15-24 si attesta al 32,8%, mentre per la fascia 35-49 c’è un calo di occupazione di circa 74mila unità. È dunque necessario non solo pretendere delle risposte e delle soluzioni dalla classe politica in tema di occupazione, ma approfondire questo problema sociale con ogni strumento educativo e culturale.  

Il cinema, come tante altre arti, ha sempre messo al centro del suo impegno il tema del lavoro. “Un regista deve innanzitutto mostrare i fatti e puntare il dito su ciò che non va,” sostiene il cineasta Ken Loach. Attraverso cinque film girati nell’arco di 80 anni – dalla Grande depressione alla povertà ereditata dal fascismo, dal miracolo economico italiano al governo conservatore inglese dei primi anni Settanta, fino ad arrivare al precariato odierno – indagheremo uno dei temi più importanti del nostro tempo.

 

Tempi moderni, Charlie Chaplin, 1936

Tempi moderni, capolavoro di Charlie Chaplin, mescola con delicatezza commedia e tragedia. Nonostante Chaplin sia famoso per le gag esilaranti e la camminata buffa, il suo cinema pone sempre una grande attenzione ai problemi sociali: Tempi moderni è infatti un film sull’alienazione dell’operaio in catena di montaggio e sullo sfruttamento capitalistico. Charlot, vittima del sistema industriale americano segnato dalle conseguenze della prima guerra mondiale, tenta di fuggire in ogni modo dalla sua condizione di miseria umana e materiale, arrivando persino a farsi arrestare per assicurarsi vitto e alloggio. In Tempi moderni la grande crisi del Ventinove è rappresentata da sequenze memorabili che, pur strappando un sorriso, fanno riflettere sulla drammaticità delle condizioni di vita e di lavoro degli operai: l’attenzione maniacale del padrone della fabbrica, la macchina per nutrire gli operai, l’esaurimento nervoso che colpisce il protagonista, le manifestazioni di protesta dei disoccupati; ogni figura, ogni scena, ogni espediente narrativo è un attacco diretto al sistema capitalista, accusato di produrre sfruttamento e ingiustizie. Non è chiaro se l’epilogo sia comico o crudele, ma le parole di Charlot alla Monella (“Non ti dare per vinta. Ce la caveremo!”) conferiscono al messaggio finale un barlume di speranza: continuare a combattere per tentare di raggiungere il tanto agognato “sogno americano”.

 

Ladri di biciclette, Vittorio De Sica, 1948

In Ladri di biciclette, Vittorio De Sica mostra un duro affresco dell’Italia del secondo Dopoguerra e del modo in cui la gente, condizionata dai pregiudizi sociali, tentava di rifarsi una vita. La parabola di Antonio Ricci, un disoccupato che trova un lavoro come attacchino municipale, racconta la guerra tra poveri, la dignità perduta e la lotta quotidiana per la sopravvivenza. Per iniziare il nuovo impiego, il protagonista riscatta la sua bicicletta al Monte di Pietà, dando in pegno delle lenzuola, ma, proprio durante il primo giorno di lavoro, la bici gli viene rubata. È da qui che inizia un susseguirsi di amarezza e di desolazione, di rivalsa e di coraggio; Antonio si dispera, ma poi non si dà per vinto e, insieme al figlio Bruno, si mette alla ricerca della propria bicicletta, vagando tra i rioni e i mercati della Roma postbellica. “A tutto si rimedia, meno che alla morte,” sussurra il protagonista al figlio, quasi come se stesse cercando di autoconvincersi, di fuggire da quella triste realtà che sembra non voler accettare, come dimostra la scena in cui compie il reato di cui lui stesso è stato vittima. Oltre a rappresentare l’essenza del neorealismo italiano, Ladri di biciclette è la voce delle periferie e di chi si trova solo a combattere per affermare i propri diritti.

 

Il posto, Ermanno Olmi, 1961

Ne Il Posto di Ermanno Olmi il tema del lavoro viene trattato con rigore e leggerezza attraverso lo sguardo di un ragazzo che, spinto dalla famiglia, partecipa a una selezione per lavorare in un’azienda di Milano. Sullo sfondo di una città dinamica in pieno boom economico, Domenico, profondamente legato alle proprie origini rurali, entra in contatto con una realtà che corre veloce, alla quale, fin da subito, non sente di appartenere. È il posto fisso, in questo contesto, la gabbia da cui fuggire: le ambizioni e gli obiettivi lavorativi sono capaci di inquinare gli affetti, l’amore per le proprie radici e un’attrazione nata in pochi istanti verso un’altra candidata, Antonietta, che insieme a Domenico verrà assunta dall’azienda. Ma anche lei, come confesserà al giovane protagonista, sembra intenzionata a soffocare la propria volontà, e in ogni caso ad arrendersi a un futuro già scritto: “Sai, volevo studiar lingue, ma poi mi sono stufata. Sai com’è, tanto una donna prima o poi si sposa e buonanotte.” Questo film ha il grande merito di analizzare il peso del quotidiano e la realtà lavorativa in veloce evoluzione, che lo stesso Olmi definisce “desolata, intristita, squallida”. Il titolo è un invito allo spettatore a riflettere sulla propria identità e su quale sia il prezzo da pagare per aver conquistato un “posto” nel mondo impiegatizio. 

 

Grazie, signora Thatcher, Mark Herman, 1996   

Nel South Yorkshire la banda di ottoni locale rischia la fine a causa della chiusura della miniera in cui molti membri lavoravano. I provvedimenti dell’allora prima ministra britannica Margaret Thatcher, liberista e antisindacale, paralizzarono l’industria manifatturiera nazionale, riducendo improvvisamente sul lastrico migliaia di famiglie. È in questo clima di profonda sfiducia che si muovono le vicende di questo gruppo di persone che, oltre a perdere il lavoro, si ritrova costretto a cessare anche l’attività musicale. In mezzo a incomprensioni, scioperi e tragedie familiari, la musica è l’unica terapia, l’unico antidoto alla depressione e allo sconforto. Grazie, signora Thatcher (il titolo originale, Brassed Off, un gioco di parole tra il verbo “brass off”, cacciare via, e “brass”, ottone) si chiude con quella che apparentemente sembra una scena triste e malinconica, ma piena di coraggio: nella Royal Albert Hall di Londra la banda si aggiudica il primo premio nel Campionato Nazionale delle Brass Band, ma sul palco irrompe Danny, il leader del gruppo che, con una voce consumata dall’emozione, urla al pubblico tutta la sua rabbia: “Il punto è che se loro [le persone che hanno perso il lavoro] fossero foche o balene sareste tutti indignati. Ma loro non lo sono, no. Purtroppo no. Loro sono normalissimi, comunissimi esseri umani, gente perbene a cui non è rimasta neanche una dannatissima oncia di speranza”. Questa storia è un invito a non perdere la propria identità di cittadini, ma soprattutto lavoratori, nonostante l’orgoglio ferito e calpestato.

 

Io, Daniel Blake, Ken Loach, 2016

La ricerca di un nuovo impiego è il problema che ogni giorno tormenta la vita di Daniel Blake, un carpentiere di Newcastle di 59 anni, costretto a chiedere aiuto allo Stato in seguito a una crisi cardiaca, per la quale non può più fare il suo vecchio lavoro. Ma la burocrazia britannica, lenta e priva di buonsenso, lo mette di fronte a una realtà che non aveva previsto nel corso della sua vita. Le sue lunghe giornate, infatti, sono scandite dalle visite al centro dell’impiego, dai corsi per imparare a usare il computer, a scrivere un curriculum vitae, dai ricordi con la sua moglie defunta e da incontri inaspettati, come quello con Katie, madre single di due bambini che, per motivi diversi, si trova ad affrontare le sue stesse difficoltà burocratiche. Le due facce della disperazione e della rabbia, a questo punto, si intrecciano al coraggio nell’affrontare situazione umilianti e trafile grottesche che, in più occasioni, strappano allo spettatore un sorriso amaro. Io, Daniel Blake, oltre a raccontare il degrado economico, politico e sociale della working class e delle periferie inglesi – elemento cardine del cinema di Ken Loach – mette in scena le condizioni infernali del precariato, le difficoltà odierne causate dalla crisi, le falle del sistema e delle sue leggi, affermando che l’unico modo per arginare questo sentimento di rabbia è quello di reagire con forza, moralmente e politicamente. 

Il cinema, in quanto mezzo democratico e universale, ha quasi sempre saputo raccontare i mutamenti in atto nel mondo del lavoro. Sin dal suo avvento, infatti – come dimostrato dai fratelli Lumière in quello che viene considerato il primo film della storia, L’uscita dalle officine Lumière (1895) – il cinema ha avuto al suo centro l’uomo, e il lavoro è una parte fondamentale della sua individualità. Dal cinema di Petri, che ha saputo raccontare le lotte dei sindacati e i ritmi infernali della fabbrica, al già citato Ken Loach – che assieme alla dimensione lavorativa ha affrontato le aspettative, le abitudini e le fragilità psicologiche degli ultimi – il cinema si dimostra ancora oggi uno dei mezzi più efficaci per indagare a fondo la realtà.  

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