Nel primo pomeriggio di sabato 10 luglio 1976 in alcuni paesi della Brianza si era diffuso un odore molto pungente. Diverse persone lamentavano anche un forte bruciore agli occhi. Proveniva dall’Icmesa, una fabbrica di cosmetici che già in passato aveva causato alcuni problemi con lo sversamento di rifiuti chimici nel Seveso. Un paio di giorni dopo, gli abitanti dell’omonimo comune cominciarono ad avere anche eruzioni cutanee. Alle 12:26 di quel sabato, infatti, un reattore malfunzionante dello stabilimento aveva provocato e sprigionato nell’aria una nube tossica di diossina. Quello che è passato alla storia come “disastro di Seveso” è considerato ancora oggi uno degli incidenti ambientali più gravi di sempre. Secondo l’Istituto superiore di sanità, il disastro ha provocato nelle zone interessate un aumento negli anni di neoplasie, linfomi e mielomi – soprattutto nelle donne – nonché di leucemie e malattie circolatorie. La storia di Seveso è importante non solo per la spinta che diede allo studio sulla tossicità della diossina, ma anche perché il disastro contribuì ad alimentare il dibattito su importanti temi civili, in primis quelli della tutela ambientale e dell’aborto. Per entrambi in prima linea c’era una donna, Laura Conti.
Nei primi giorni dopo il 10 luglio nessuno aveva davvero compreso la gravità dell’incidente, tanto che per più di una settimana i giornali non ne diedero notizia. Poi cominciarono a morire gli animali, le piante si seccarono e i casi di cloracne (una grave irritazione della pelle causata dalla diossina) aumentarono. Il 15 luglio, il sindaco di Seveso – che era stato informato dall’Icmesa dell’incidente solo due giorni dopo – emanò un’ordinanza che vietava di mangiare frutta e verdura, di toccare gli animali e di bere o lavarsi con acqua non bollita. Il 19 venne chiusa la fabbrica, anche grazie alle proteste degli operai che ci lavoravano, e si cominciò a sfollare la popolazione negli alberghi, per un totale di 676 persone.
Uno dei primi problemi che ci si ritrovò ad affrontare fu quello delle donne incinte. All’epoca nessuno sapeva quanto fosse realmente pericolosa la diossina, sia per le persone che per il feto. Ricorda Luigi Bisanti, uno dei primi epidemiologi a lavorare nella zona, che in passato all’estero c’erano già stati incidenti relativi a quella sostanza, ma gli effetti si erano limitati ai soli dipendenti delle fabbriche e non si era mai coinvolta la popolazione circostante agli stabilimenti. Si sapeva, però, che la diossina causava malformazioni nei feti degli animali. Il problema dell’interruzione di gravidanza era quindi molto urgente, ma all’epoca l’aborto era ancora illegale. La Legge 194 che lo depenalizzò sarebbe arrivata infatti solo due anni dopo.
Tuttavia, in quegli anni si era nel pieno del dibattito: erano passati tre anni dal caso di Gigliola Pierobon, una ragazza veneta che fu processata per aver abortito quando aveva 17 anni, e che aveva sollevato il grave problema dell’aborto clandestino; solo un anno era inoltre passato sia dalla prima proposta di legge sull’interruzione di gravidanza presentata dai Radicali che dalla sentenza della Corte costituzionale del 1975 che sancì la legittimità dell’aborto terapeutico nel caso in cui la gravidanza costituisse un pericolo grave per la salute della madre. Mancava però del tutto una legislazione sulle malformazioni del feto, per cui il caso di Seveso non rientrava nella legislazione dell’epoca. Le prime a sollevare il problema furono Susanna Agnelli ed Emma Bonino, recentemente arrestata per le sue attività al Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto del Partito radicale, a Firenze. Le due deputate chiesero con un’interpellanza parlamentare che alle donne venisse concesso di interrompere le gravidanze. Portare avanti la gestazione di un feto malformato, sostenevano, era un pericolo per la salute psicologica delle donne, per cui si sarebbe trattato di un aborto legittimo. Anche l’assessore regionale lombardo Vittorio Rivolta, pur essendo della Democrazia cristiana, era d’accordo che le donne venissero indirizzate alla clinica Mangiagalli con la possibilità di abortire. “Ogni decisione verrà lasciata alla libera determinazione delle interessate”, disse in una conferenza stampa. “Per libera determinazione intendo anche la possibilità di interrompere la gravidanza, in base ai risultati emersi e nel rispetto dei singoli problemi di coscienza”.
Il comune di Seveso diventò così il terreno di una guerra tra femministe e radicali uniti contro il clero locale e i conservatori, una guerra consumata soprattutto sui corpi delle donne incinte che non avrebbero mai pensato di dovere – e di potere – interrompere la gravidanza. “Il loro dramma [era] aggravato dalla visibilità”, ricorda Bisanti. “Spesso quelle donne già dilaniate di per sé venivano trattate in modo impietoso”. I giornalisti le assaltavano fuori dalle cliniche e le colpevolizzavano nei loro articoli, i quotidiani facevano terrorismo mediatico con titoli come Aborto o mostro in pancia, mentre negli ospedali i medici cattolici cercavano di persuaderle a non interrompere le gravidanze. D’altro canto, c’era anche chi spingeva per forzare le donne ad abortire, magari per legge, sovrastando le loro convinzioni personali.
Tra le tante voci si distingueva però quella di Laura Conti, che oltre a essere un medico e a collaborare con il Corriere della Sera era anche consigliera regionale con il Pci. Il Partito comunista aveva una posizione tutt’altro che cristallina sull’aborto: guardava con sospetto tutte le tematiche legate alla liberazione sessuale avanzate dalle femministe, anche da quelle comuniste, e cercava un’alleanza con la Dc, che sul rifiuto dell’interruzione di gravidanza era inamovibile. Conti denunciò sin da subito il sopruso che le donne brianzole stavano vivendo, trattate sia da una parte che dall’altra come una specie di esperimento sociale, “come se una donna gravida fosse soltanto un’incubatrice, e non una persona che ha lei stessa una salute da salvaguardare; implicitamente [si] imponeva l’immagine di una fattrice che impazzisce se il prodotto del concepimento non riesce bene, ma che ai rischi suoi propri rimane completamente indifferente”, ha scritto nel reportage dedicato a quei giorni, Visto da Seveso.
Il 7 agosto, quasi un mese dopo l’incidente, il ministro della Sanità Luciano Dal Falco e quello della Giustizia Francesco Paolo Bonifacio, con il consenso del presidente del Consiglio Andreotti, autorizzarono le donne a ricorrere all’aborto terapeutico. Laura Conti, pur riconoscendo l’importanza di quella concessione, puntò il dito contro l’ipocrisia di chi considerava la salute delle donne solo in relazione al loro stato di gravidanza e, ancora di più, contro chi le colpevolizzava per aver scelto di interrompere la gravidanza ma taceva sugli aborti spontanei causati dalla diossina, che si stavano verificando in numero sempre maggiore. Sembrava, scrisse Conti, che “provocare aborti per produrre e vendere triclorofenolo [venisse] considerato legittimo” mentre “provocare aborti per andare incontro al desiderio delle donne di non generare bambini infelici [venisse] considerato orridamente peccaminoso”. Conti cominciò così la sua battaglia per garantire alle donne la facoltà di scegliere in autonomia, per individuare le responsabilità ambientali e sociali del disastro e per far sì che l’attenzione sull’incidente non si concentrasse esclusivamente sulle donne che abortivano, che alla fine furono soltanto 36.
Laura Conti rimase così in contatto con il territorio, monitorando ogni sviluppo dell’incidente. Oltre al reportage Visto da Seveso del 1977 pubblicò anche un romanzo sulla vicenda, Una lepre con la faccia da bambina, nel 1978. Il suo intento era soprattutto quello di smascherare la condiscendenza che i politici e la Givaudan, la multinazionale proprietaria dell’Icmesa, mostravano sull’accaduto, denunciando sia i tentativi di minimizzare quanto successo che la politica risarcitoria. Per Conti, gli indennizzi non bastavano: l’azienda doveva assumersi anche le responsabilità penali del disastro ambientale e la politica doveva schierarsi senza riserve dalla parte dei cittadini. Secondo la consigliera, le persone avevano il diritto di sapere cosa stesse succedendo al territorio e ai loro corpi, in particolare se donne. Solo così potevano disporre pienamente della capacità critica necessaria per decidere per se stesse. Con le sue riflessioni e battaglie, Conti non solo è stata una pioniera delle lotte per il clima – nel 1980 ha fondato l’associazione che oggi è Legambiente –, ma anche una intellettuale capace di analizzare quella stretta relazione tra medicina, salute riproduttiva e ambiente alla base di tante delle lotte che ancora oggi sono lontane dal poter essere considerate vinte.