Vivere con meno è possibile. La storia dei kibbutz ce lo insegna.

Lo scrittore israeliano Amos Oz, scomparso lo scorso dicembre, era nato a Gerusalemme nel 1939, ma a 15 anni – in rotta con il padre e il resto della famiglia, rigidamente di destra – dopo aver aderito al Partito Laburista, era andato a vivere nel kibbutz Hulda, e lì era rimasto per trent’anni, lasciandolo solo per un clima più adatto all’asma del figlio. In un’intervista a Repubblica di qualche anno fa, Oz suggerì che recuperare lo stile di vita del kibbutz permetta di sottrarsi alla corsa al guadagno (superfluo) a tutti i costi, all’arrivismo e al consumismo della nostra epoca, abbracciando la semplicità e il legame con la comunità: “Perché non riproporre allora la formula del kibbutz, in una versione più soft e tollerante del passato? Penso a piccole cellule sociali improntate sulla solidarietà. Per alcuni funzionerebbe”. La crisi economica, sosteneva lo scrittore, ci ha costretti a mettere in dubbio il nostro stile di vita e una riedizione del kibbutz, smussato laddove era troppo rigido, potrebbe essere una prospettiva vincente.

In realtà, quello che nell’immaginario collettivo è un rifugio per hippie alla ricerca di una vita allo stato primitivo, a contatto con la terra, senza possedimenti materiali, è decisamente lontana dalla realtà, anche perché i kibbutzim (plurale di kibbutz) sono cambiati parecchio dai tempi in cui Degania Aleph, il primo, fu fondato, nel 1910, nelle vicinanze del lago di Tiberiade, nel nord-est di Israele. Nacque su iniziativa di un gruppo di immigrati ebrei europei aderenti al Movimento Sionistico impregnati del fermento culturale del Vecchio Continente di fine XIX e inizio XX secolo. Si trattava di una fattoria collettiva di ispirazione socialista, una sorta di comune agricola dalla vita povera e spartana i cui pionieri costruirono l’idea assurda di coltivare terreni desertici e inadatti all’agricoltura. Il modello, però, si rivelò vincente, e attirò altri ebrei desiderosi di fare aliyah (il biblico “ritorno” alla Terra Promessa) e divenne una struttura fondamentale per la crescita e l’affermazione dello Stato di Israele.

Da un lato i valori all’avanguardia su cui si basava – uguaglianza, parità tra i sessi, rifiuto della proprietà privata, educazione collettiva – suscitarono interesse nel mondo, esercitando un forte potere attrattivo e l’immagine di un Paese giovane e ottimista, che lavorava sodo per costruire una società giusta; con l’ambiguo risvolto del contributo dei kibbutzim al conflitto con i palestinesi, essendo spesso dei “baluardi di frontiera” lontani dalle città ed essendo i membri del kibbutz, come tutti i cittadini israeliani, tenuti a due anni di servizio militare. D’altro canto, i kibbutzim diedero un grande impulso all’agricoltura di Israele, tanto che oggi rappresentano il 40% della produzione agricola nazionale e il 9% di quella industriale, per un valore rispettivo di 1,7 e di 8 miliardi di dollari, e ciò in un territorio desertico e povero di risorse in cui il settore agricolo prima della loro nascita era a livelli di sussistenza.

Le rigide regole che ne determinavano la vita interna però fecero sorgere divergenze, ora tra un kibbutz e l’altro, ora all’interno di uno stesso insediamento, man mano che emergevano nuovi temi. Ad esempio, nel Dopoguerra ci si chiese se fosse lecito che i singoli tenessero per sé le riparazioni pagate dalla Germania ai sopravvissuti dell’Olocausto, andando contro le regole del kibbutz che obbligavano invece a mettere in comune ogni proprietà, compresi eventuali regali ricevuti all’esterno. A ciò si aggiungevano differenze culturali non sempre facili da contenere tra cittadini provenienti da aree geografiche e culturali estremamente diverse, dalla Mitteleuropa alla Russia, al Nord Africa, oltre che, talvolta, quelle politiche: tra i pionieri c’erano simpatie comuniste, anarchiche e in alcuni casi persino una certa ammirazione per Stalin.

Riflette Oz: “I padri fondatori […] avevano ambizioni monumentali, irrealistiche: pensavano di poter cambiare la natura umana di colpo, eliminare la solitudine con la vita comunitaria, cancellare crudeltà, avidità, egoismo con l’eguaglianza. Un sogno meraviglioso che – va detto a loro merito – tentarono senza gulag e polizia”. Ma i principi fondanti non ebbero gli effetti sperati e le utopie a poco a poco si sgretolarono, come racconta Uri Zilbersheid dell’Università di Haifa: i membri del kibbutz, animati dalle utopie egalitarie, si accorsero ad esempio che i bambini, educati per essere giusti e solidali, quando giocavano tra di loro mostravano la tendenza egoista a impossessarsi dei giocattoli; le seconde generazioni (quindi i nati nel kibbutz, cresciuti secondo i suoi principi) sentivano il desiderio di avere i propri figli a casa con sé, invece di limitarsi a vederli 3-4 ore al giorno per poi lasciarli all’educazione comunitaria il resto del tempo e nelle “case dei bambini” di notte. Quest’usanza, introdotta per liberare la donna dai ruoli di cura e renderla uguale all’uomo (anche se molte svolgevano  comunque lavori tradizionalmente considerati femminili, dalla cucina al cucito) si accompagnava a una malintesa forma di parità che passava per il divieto per le donne di femminilizzarsi (truccarsi sarebbe stato considerato un atto di indecenza borghese, ricorda ancora Amos Oz), senza togliere, invece, agli uomini i loro ruoli tradizionali. Come se non bastasse, i giovani, cresciuti insieme fin dalla nascita, si percepivano l’un l’altro come fratelli e sorelle e non come possibili partner sessuali e così molto spesso abbandonavano il kibbutz per trovare un compagno o una compagna.

Le partenze sempre più numerose e lo sciogliersi delle certezze al sole portò l’istituzione del kibbutz alla crisi, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, l’epoca in cui i kibbutzim furono sommersi di debiti. Era necessario cambiare qualcosa. Già precedentemente fu introdotto il matrimonio (mentre nei primi decenni dalla fondazione le coppie facevano semplicemente richiesta di una stanza comune), poi il divieto di proprietà privata – già ammorbidito un poco negli anni Cinquanta, quando iniziarono a essere concessi alcuni effetti personali – si fece via via più permissivo. Oggi, la maggioranza dei kibbutizm accorda ai suoi membri uno stipendio corrispondente al lavoro svolto, abbandonando il principio dell’uguaglianza di salario. Il governo israeliano dal 2004 ha permesso ai kibbutzim di introdurre la proprietà privata e dei circa 260 kibbutz – per un totale di circa 120mila abitanti – ancora esistenti in Israele la maggior parte ne sperimenta alcune forme. Una scelta che da un lato snatura quel modello utopico alla base, ma dall’altro diventa obbligata per evitare lo spopolamento di queste colonie agricole, messe a dura prova dal seducente richiamo che attira i giovani in città, anche perché la vita comunitaria ha i suoi contro: se da un lato insegna valori forti, dall’altro incentiva pettegolezzi, invidie e dicerie, che per uno scrittore – come Oz, che in un kibbutz ha ambientato più di un romanzo – sono materiale fecondo di lavoro, ma per tutti gli altri possono essere fastidiose.

Oggi è ancora la democrazia diretta a governare nei kibbutzim, attraverso l’assemblea, ma i membri possono possedere case e auto di proprietà, vivono con i propri figli, possono anche lavorare fuori dal kibbutz, mentre, per far fronte alla necessità di braccia nei campi, si accettano anche lavoratori che non abitano nel kibbutz e si ricorre spesso a immigrati dal sud-est asiatico. La vita nel kibbutz resta molto diversa da quella di qualsiasi città israeliana, ma sono state introdotte altre attività redditizie e molti kibbutzim si sono dati alla manifattura e all’industria, anche tecnologicamente avanzata: il kibbutz Shamir, uno dei più prosperi del Paese, produce ad esempio sofisticati strumenti ottici attraverso la società Shamir Optical Industry, mentre il kibbutz Hatzerim produce e distribuisce impianti di irrigazione di precisione attraverso la società Netafim. Il kibbutz Sasa, poi, è dedicato alla ricca industria bellica, con clienti quali l’esercito degli Stati Uniti. Altri invece si dedicano all’accoglienza, tanto da assomigliare a villaggi turistici. E in effetti molti kibbutzim hanno programmi per turisti, per studenti o per chi desidera sperimentarne lo stile di vita prima di fare aliyah. Sono organizzati con attività ricreative, escursioni e corsi di lingua per accogliere i volontari, che prestano il loro lavoro in cambio di vitto e alloggio, ma che per avere accesso al kibbutz devono ottenere l’approvazione del ministero dell’Interno israeliano e pagare una quota di registrazione.

Ripresi dalla crisi, i kibbutzim hanno trovato un nuovo ruolo che risponde alle necessità di chi è insofferente ai difetti della società odierna e così in anni recenti la loro popolazione è tornata a crescere: intere famiglie arrivano attratte dall’ambiente sano e genuino e sottolineano il valore della comunità, del darsi una mano l’un l’altro. Molti tra coloro che hanno vissuto il cambiamento di questi anni, però, lamentano in toni malinconici e delusi la mancanza di partecipazione alle riunioni serali, perché la gente ormai preferisce starsene a casa a guardare la televisione. I grossi compromessi portati dal sistema capitalistico hanno salvato i kibbutzim dalla scomparsa, ma li hanno anche allontanati dalle origini, così tanto da snaturarli. Sono oggi più vicini alla vita “normale” che scorre al di fuori dei loro confini, con i suoi pregi e i suoi difetti, ma conservano poco di quegli ideali utopici che li hanno fatti nascere. Forse rinnegare se stesse è stato per queste comunità l’unico modo per sopravvivere, forse la natura umana insegna che non può essere altrimenti, o forse il rifiuto verso il consumismo, l’ambizione e l’avidità che oggi in tanti percepiscono è pronto ad aprire una nuova fase della loro storia.

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