Nel suo reportage su Calais – la cittadina francese al confine con la Gran Bretagna in cui vivevano quasi ottomila profughi – Emmanuel Carrère coniava il termine “fasciosfera” per indicare la galassia multiforme delle recrudescenze destrorse che, in questi anni di deriva reazionaria, abbiamo imparato bene a conoscere. In un cosmo così variegato poche figure sono percepite come fondamentali e una di queste è sicuramente Steve Bannon, spin doctor di Trump durante la corsa elettorale, ideologo dell’alt-right, editore di Breitbart news – l’organo di stampa del populismo americano – e, ancora più tristemente noto come vicepresidente di Cambridge Analytica al tempo dello scandalo sulla violazione della privacy.
Bannon, che di recente ha fondato The Movement – una sorta di think thank del populismo mondiale – sembra voler dettare la linea culturale della destra internazionale. Non sorprende che si sia pronunciato favorevolmente nei confronti di Matteo Salvini, definendolo “un leader mondiale, un simbolo.” Ma la cosa più inquietante è che abbia definito l’Italia “un esperimento”. Più interessante constatare come Bannon da tempo citi, nel suo pantheon di autori di riferimento, il filosofo italiano Julius Evola. Fra i leader del populismo mondiale, non è il solo ad aver fatto menzione di Evola: Aleksandr Dugin – lo stratega di Putin e, per alcuni, il responsabile della diffusione delle fake news nel dibattito politico russo – ha dedicato diversi libri allo studioso italiano, ponendolo alla base della sua Quarta Teoria Politica. Il richiamo a Evola da parte delle nuove destre non è semplicemente un ricorso a santini conservatori per nobilitare il proprio operato, ma rientra in una precisa linea di pensiero che modifica il concetto di razzismo.
Evola non è la figura canonica di fascista della prima ora, il suo approdo a posizioni di destra è stato graduale e segnato da diverse esperienze. Nato a fine Ottocento da genitori siciliani, Evola si forma a Roma leggendo Nietzsche e partecipando alle sperimentazioni delle avanguardie del suo tempo, il Futurismo – al quale è introdotto dall’amico Giovanni Papini – e il dadaismo, attraverso il contatto con Tristan Tzara. Nel mezzo sperimenta le dure condizioni di vita nella prima guerra mondiale, i cui traumi lo spingono sull’orlo del suicidio.
Il nucleo originario del pensiero di Evola è il disprezzo per la morale borghese e per l’ordine dominante, in particolare per l’impalcatura ideologica del Cristianesimo. Sia il Dadaismo che il Futurismo, nonché l’influsso di pensatori orientali legati al Buddhismo, gli permettono di speculare sulle tendenze individualiste e antiborghesi che egli aveva desunto dal canone nichilista. In Evola si riscontra il disgusto – venato da un sentimento aristocratico – per tutto ciò che è massificato e legato al materialismo della società industriale. Già negli anni Venti, quando inizia a pubblicare trattati filosofici, Evola si muove nell’alveo dell’idealismo e, proprio come Giovanni Gentile – insieme a Croce, il massimo esponente dell’idealismo italiano – aderisce al progetto fascista pur non iscrivendosi mai ufficialmente al partito. Se inizialmente l’interesse di Evola si concentra, causa le sue credenze irrazionaliste, nell’ambito dell’esoterismo, a partire dagli anni Trenta il filosofo, come molti altri intellettuali, identifica nel movimento fascista il mezzo per rompere le convenzioni della società moderna e recuperare il rapporto originario fra uomo e mondo.
Per Evola, avido lettore di testi indiani, il tempo è circolare e diviso in cinque età. Ispirato da questi concetti “esotici” – presi in prestito e interpretati in modo non esattamente filologico – con un passaggio tra il maldestro e l’ardito, arriva a teorizzare che anche in Europa dall’età “dell’oro” originaria si è attuato un processo di decadenza, culminato con il razionalismo moderno. L’uomo ha perso il dominio del proprio spirito, e allora solo un movimento avverso alla modernità come il fascismo può riuscire a restaurare l’antico dominio: quello della razza italiana sul mondo, come al tempo dell’Impero romano.
Evola ha il massimo punto di contatto con la dottrina del regime dal ’34 al ’43 quando collabora con la scuola di Mistica Fascista ed elabora il suo concetto di razza. Il romano si discosta dalle posizioni del razzismo biologico, sposando una personale visione di “razzismo spirituale”. Per Evola la superiorità della razza ariana ha origine metafisica, gli ariani sono spiritualmente superiori perché in grado di raggiungere le vette più alte dell’interiorità e porsi alla guida della civiltà europea, la razza ebraica è culturalmente e intimamente materialista, per questo partecipa alla decadenza del mondo moderno. L’antimodernità e lo spiritualismo si fondono nel pensiero di Evola per rivestire il razzismo di una – ridicola – componente teleologica e para-religiosa. Alla dottrina dello spirito lo studioso affianca quella geopolitica del “Tradizionalismo”. Questa è una visione alternativa al comunismo sovietico, al liberismo e al nazionalismo tedesco, che vede tutti i popoli ariani europei uniti a lottare nella seconda guerra mondiale per costruire una civiltà basata sulla spiritualità e sul rifiuto dei cascami della modernità.
Il pensiero di Evola è ricco di echi misticheggianti e fantasie di potenza che hanno affascinato da sempre gli ambienti nazionalisti dell’epoca. La corrispondenza fra la dottrina del Tradizionalismo e le teorie politiche di Dugin e Bannon appare evidente: il compito del populismo mondiale è quello di prospettare un nuovo ordine sociale basato sulla rivalsa degli stati nazionali a scapito del globalismo neoliberista. Ma Evola è stato anche figura di riferimento per i movimenti neofascisti del Dopoguerra: negli anni Cinquanta è stato implicato nel processo ai Far, un gruppo terrorista neofascista colpevole di numerosi attentati dinamitardi, e fino alla sua morte – nel 1974 – non ha mai abiurato la matrice razzista del suo pensiero.
Nel libro Futurabilità il filosofo Franco Berardi enuclea i tratti del razzismo contemporaneo, facendo un distinguo con il passato: “ll razzismo del periodo coloniale si fondava sulla convinzione di saper fare le cose meglio, di essere più dotati dei popoli di colore e sottomessi, di essere insomma eredi di una civiltà che si pretendeva superiore perché aveva anticipato i tempi dello sviluppo tecnico sin dai tempi dell’Umanesimo e poi della rivoluzione scientifica e industriale.” Il nuovo razzismo, al contrario, non si fonda sul sentimento di superiorità, ma è generato dalla sconfitta: “Il neorazzismo del Ventunesimo secolo è invece il sentimento ansioso di una popolazione bianca miserabile e impoverita, che non possiede più neppure il privilegio della tecnica, dato che le tecniche digitali si sono diffuse rapidamente in ogni area del pianeta e un adolescente africano può avere in questo senso una competenza superiore a quella di un cinquantenne europeo.” Il richiamo alla tecnica è fondamentale per capire la penetrazione di Evola nell’Olimpo dei nuovi fascisti. Se il declassamento della popolazione bianca occidentale si esplicita nell’impotenza economica, l’unico modo per recuperare terreno è rivendicare una superiorità sul piano simbolico.
Il razzista contemporaneo si deve scontrare con due evidenze: l’assoluta mancanza di scientificità della superiorità biologica della razza ariana e l’impossibilità di dominare, in un contesto globalizzato, attraverso la sola superiorità tecnologica. Il razzismo spirituale di Evola funge da escamotage: giacché sposta il problema della superiorità sul piano metafisico, ancor prima che culturale e genetico, dunque a un livello di astrazione per cui è irrilevante trovare riscontro della propria superiorità nella realtà. Questo tipo di razzismo, che presenta aspetti fortemente fideistici, si radica così nel profondo da divenire l’orizzonte in cui operare. Ecco che Bannon e Dugin trovano una dottrina individualista da spacciare come religione che agisce pure a fin di bene.
Su una cosa diverge, però, il pensiero di Evola e dei nuovi populisti: l’utilizzo della tecnologia. Se Evola era spietatamente antimoderno, Bannon e Dugin lo sono solo in materia di diritti democratici. Quando si tratta di controllo delle masse caldeggiano l’uso della tecnologia a scopo propagandistico, anche, come abbiamo visto, in forme che non sono assolutamente legali. Qui si scopre il gioco dei signori della fasciosfera.
D’altronde è la stessa cultura italiana a fornire un antidoto a chi riprende il pensiero di certi intellettuali misinterpretandolo o piegandolo arbitrariamente ai propri scopi. Lo storico Furio Jesi, che negli anni Settanta studiava l’ideologia dei gruppi neofascisti, dava una definizione stringente di cultura di destra: “La cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione”. Nella ripresa che i fascisti fanno di Evola c’è tutto questo: l’appropriazione culturale di una simbologia remota, la tendenza a sottolineare l’affinità “spirituale” con il pensiero di Evola, e il ricorso a parole, mai spiegate a fondo, come “tradizione”. Un minestrone ideologico che può essere utile in tutte le occasioni: lo stesso Bannon descrive The Movement come un think tank il cui scopo è “Portare tutti i populisti sotto lo stesso tetto: dall’Europa agli Stati Uniti al Sud America, Israele, India, Pakistan, Giappone.” Un progetto fumoso che ha bisogno di parole d’ordine indefinite, e che non tiene neanche conto delle specificità nazionali in cui si vuole sobillare il discorso sovranista. Non basterà tirare fuori Evola o qualche altro pensatore per dare dignità a un’ideologia che non vuole il bene dei popoli, ma solo di chi li governa.