Come John Fante raccontò la fine del sogno americano

Ogni appassionato di letteratura americana, prima o poi, farà la conoscenza di Arturo Bandini, e se ne innamorerà perdutamente. Non c’è tempo per riflettere, non ci sono tappe da bruciare, è un amore istantaneo e inconsapevole che scatta in poche righe. Come diceva Socrate, “solo ciò che il lettore già conosce può essere vivificato leggendo”. Ed è proprio questo senso di comunanza che rende Arturo Bandini un protagonista così amato e irripetibile: leggendo i romanzi di Fante, è quasi inevitabile entrare in simbiosi con questo  suo alter ego, comprendere la gioia infantile, “eccessiva” che prova per i suoi effimeri successi letterari, il dolore lancinante per la rincorsa disperata di un amore che appare impossibile già in partenza, la difficoltà di liberarsi dalla zavorra di un passato di provincia che puntualmente torna a tormentarlo. Di pagina in pagina, Arturo Bandini entra di prepotenza nella vita del lettore, come se lo si conoscesse da sempre.

Lo sapeva bene il giovane e squattrinato Charles Bukowski, quando trascorreva le proprie giornate a far passare il tempo per le strade di Los Angeles. Di frequente finiva in rosso, senza un soldo per il vino e con la padrona di casa alle costole, ferocemente determinata a recuperare mesi e mesi di affitti arretrati; a quel punto, Hank (come lo chiamavano gli amici) poteva contare su un unico rifugio per trovare un minimo di ristoro e, magari, un gabinetto in cui soddisfare i propri bisogni: la biblioteca civica. Come scrisse lui stesso: “Ero giovane, saltavo i pasti, mi ubriacavo e mi sforzavo di diventare uno scrittore. Le mie letture andavo a farle alla biblioteca pubblica di Los Angeles, nel centro della città, ma niente di quello che leggevo aveva alcun rapporto con me, con le strade o con la gente che le percorreva”.

Fu proprio tra gli scaffali della biblioteca che Bukowski pescò per caso una copia di Ask the Dust. Rimase in piedi a sbirciare qualche pagina e, subito dopo, si affrettò a raggiungere il tavolo più vicino per dare seguito alla lettura, “con l’aria di uno che ha trovato l’oro nell’immondezzaio cittadino”. In breve tempo, fece la conoscenza di questo aspirante scrittore italoamericano poco più che ventenne, Arturo Bandini: aveva pubblicato un solo racconto, “E il cagnolino rise”, registrando un discreto successo in termini di pubblico e critica, ma comunque insufficiente per uscire dai meandri dell’oblio letterario; viveva in un albergo in Bunker Hill, il suo migliore amico era un topo, rubava bottiglie di latte scaduto su commissione e, per combattere i morsi della fame, si nutriva di sole arance. Con ogni probabilità, nel caso di Bukowski, l’innamoramento per Arturo Bandini fu una questione di affinità elettive: di pagina in pagina, “Chinasky” trovò in Arturo una sorta di anima gemella, quasi un se stesso ante-litteram trasposto su carta. Trovare un trait d’union fu piuttosto semplice: entrambi aspiranti scrittori, entrambi poveri in canna, entrambi oberati dai vizi, entrambi con un ego più grande di Sunset Boulevard.

Charles Bukowski

Qualche anno dopo, Bukowski giungerà a definire Fante “il suo Dio” e convincerà l’editore della Black Sparrow Press, John Martin, a ripubblicare integralmente le sue opere. Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario dall’uscita di quel romanzo che colpì tanto Bukowski, Chiedi alla polvere, terzo capitolo della storica quadrilogia dedicata ad Arturo Bandini, preceduto da La strada per Los Angeles e dal prequel Aspetta primavera, Bandini e seguito da Sogni di Bunker Hill.

Nel 1939, quando Chiedi alla polvere fu mandato alle stampe, l’America era reduce da una profonda battuta d’arresto: i “ruggenti anni venti” si erano dissolti, il Giovedì nero aveva fornito il preludio per la grande depressione, gli echi della guerra in Europa si facevano sempre più preoccupanti e le “chiacchierate attorno al caminetto” di Franklin Delano Roosevelt tentavano faticosamente di risollevare il morale di centinaia di famiglie americane che, dopo un decennio di crescita economica esponenziale, si erano ritrovate a dover affrontare da vicino la povertà, all’insegna di mercati saturi e tassi di disoccupazione vertiginosi.

L’America in cui John Fante scrive e pubblica Ask the Dust è un’America che si è scoperta all’improvviso vulnerabile, che ha imparato a incassare, che non concede sconti a nessuno: il paradigma dell’American dream sbiadiva progressivamente, cedendo il passo a una nuova realtà in cui i sogni, sempre più frequentemente, si trasformavano in chimere. Ask the Dust è essenzialmente questo, un romanzo di sogni traditi: quello della consacrazione letteraria, che tarda ad arrivare, proprio come la risposta del “grande editore”, J.C. Hackmuth, ad una lunga lettera che Arturo gli invia; quello dell’amore con la cameriera messicana Camilla Lopez, che non comincia neppure.

John Fante (secondo da sinistra) a Santa Monica, 1952

Bandini è l’archetipo di questo mutamento di prospettiva. Quando Arturo a Los Angeles è in preda alla più completa esaltazione: distribuisce fieramente le copie della rivista sulla quale è stato pubblicato il suo primo (e unico) racconto, “E il cagnolino rise”, nel motel fatiscente di Bunker Hill in cui vive, persuaso del fatto che quella città, finalmente, avrebbe potuto consacrarlo alla gloria letteraria e a una vita degna del miglior Jay Gatsby (“Los Angeles dammi qualcosa di te! Los Angeles, vienimi incontro come ti vengo incontro io, i miei piedi sulle tue strade, tu, bella città che ho amato tanto, triste fiore nella sabbia”); la realtà che gli si para davanti è però ben diversa: la grande depressione non ha risparmiato neppure gli angeli, le strade sono silenziose, gli sguardi dei passanti rassegnati e, come se non bastasse, l’unica persona disposta a leggere per intero il suo racconto è una ragazzina di quattordici anni.

Il personaggio più celebre di Fante è, quindi, lo specchio della nazione in cui vive: confuso, insicuro e fragile almeno quanto l’America del tempo. Arturo è consumato dalle preoccupazioni per le sue difficoltà finanziarie e per la sua mancanza di esperienza sessuale, acuite dagli echi della rigida educazione cattolica impartitagli dalla madre, Maria, che lo portano a individuare di volta in volta un pretesto per chiedere perdono a Dio per le proprie azioni, tanto da arrivare a considerare il terremoto di Long Beach come la punizione divina per una notte di passione trascorsa con una donna sposata qualche giorno prima. Il cattolicesimo, per Bandini, non rappresenta un elemento edificante, ma un ostacolo, un fardello che lo induce a interpretare la vita come un’eterna sequenza di colpa e castigo, sfociando nella più completa inettitudine.

L’amore, insieme all’ossessione per il successo e alla fede, è l’altro grande tema al centro del romanzo, e simboleggia una volta di più quella “distruzione del sogno americano” che Fante sembra aver inscritto nel codice genetico della sua opera.

Sin dal primo incontro, la relazione tra Arturo e Camilla disconosce il lieto fine, assumendo contorni tossici: è un goffo incontro di pugilato tra due ubriachi, un ballo schizofrenico, un eterno sfiorarsi e respingersi di cui ambedue i danzatori conoscono in partenza gli esiti disastrosi (“Una specie di fiore grigio si schiuse tra noi, un pensiero che, quando prese forma, parlò dell’abisso che ci separava”). I caratteri dei due sono agli antipodi: Arturo è ingenuo, megalomane, autocelebrativo e sognatore; Camilla pragmatica, svilita e masochista, disposta ad accettare passivamente i continui rifiuti di Sammy, l’uomo che veramente ama ma che, di contro, la ripudia con disprezzo.

L’atteggiamento di Arturo è altalenante e lunatico, proprio come la prosa di Fante, bravissimo a coinvolgere il lettore nel terremoto emotivo che scuote il suo personaggio attraverso un flusso di coscienza incostante che lo porta a riferirsi nei confronti di Camilla in maniera mutevole e delirante, ora con toni crudi e razzisti (“Sei un vergogna per il tuo popolo”), ora in termini lirici e intrisi di senso di colpa (“A una principessa Maya, da un gringo immeritevole”). Da questa passione velenosa, Arturo riesce a ricevere in dote soltanto una fugace carezza (“Pur sforzandosi passò le dita fra i capelli e la sua gioia calda mi si trasmise dentro come un fluido; sentii la gola che mi scottava e una profonda felicità insinuarsi in ogni mia fibra”), dovendo rassegnarsi ad assistere passivamente al processo di autodistruzione di Camilla, al suo lento sprofondare nei meandri della depressione e della follia, a vederla dissolversi nel deserto del Mojave, proprio come quella “polvere da cui non cresce nulla” che dà il titolo al romanzo, che è l’America stessa, con tutte le sue contraddizioni e crisi d’identità, “una cultura senza radici, una frenetica ricerca di un riparo, la furia cieca di un popolo perso e senza speranza alle prese con la ricerca affannosa di una pace che non potrà mai raggiungere”.

La definitiva dipartita del “sogno americano” è descritta da Fante alla fine del libro, quando Arturo, appresa la scomparsa di Camilla, scaglia il suo romanzo d’esordio, il primo frutto concreto della sua ossessione per la consacrazione letteraria, nel deserto, condensando in quel gesto tutta la rabbia e la frustrazione per la sconfitta del proprio sogno d’amore. Un dolore ben riassunto dalla tormentata dedica conclusiva, che Bandini scrive a matita sul risguardo: “A Camilla, con amore, Arturo”.

A distanza di ottant’anni, Chiedi alla polvere è ancora un romanzo di formazione imprescindibile, il più rappresentativo di un autore, John Fante, che è stato immeritatamente sottostimato nel corso della sua vita, venendo investito della fama che meritava soltanto sul finire dei suoi giorni. Arturo Bandini, al pari di Holden Caulfield e Jay Gatsby, è tra i grandi personaggi della narrativa americana contemporanea: conoscerlo è un po’ come conoscere l’America stessa.

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