La boxe era lo sport prediletto di Adolf Hitler, tanto che per motivi nazionalisti la rinominò: Deutscher Faustkampf, letteralmente “lotta coi pugni tedesca”. Troppo esterofilo il termine “boxe” per quella disciplina, di cui il Führer aveva parlato con toni entusiastici anche nel Mein Kampf: “Nessun altro sport desta un così grande spirito d’assalto, esige così fulminea decisione, rende forte e flessibile il corpo”. Hitler conosceva l’importanza dello sport per la propaganda nazista e, col tempo, si convinse che il pugilato fosse la disciplina perfetta per dimostrare la forza della Germania. Negli anni, scelse quindi i migliori lottatori tedeschi, cercandone uno che potesse incarnare il prototipo del perfetto atleta ariano. Max Schmeling non assomigliava esattamente nell’aspetto all’ideale hitleriano, ma fu considerato abbastanza forte per rappresentare la Germania nella “Battle of the Century”, il 22 giugno 1938. Davanti ai 70mila spettatori dello Yankee Stadium di New York, Schmeling venne però distrutto in pochi minuti dall’afroamericano Joe Louis: uno smacco che ebbe grande risonanza mondiale e che in Germania cercarono di nascondere e ridimensionare alla meglio.
Una sconfitta simile era capitata cinque anni prima a un altro boxeur teoricamente perfetto per incarnare la grandeur nazista: Adolf Witt. Witt, però, si era scontrato con quello che era il vero miglior pugile tedesco, ma che il nazismo non voleva riconoscere come tale: Johann Rukeli Trollmann. Sul ring, la presunta superiorità dell’uomo ariano venne quindi smascherata, nel giro di cinque anni e in contesti molto diversi, da un afroamericano e da uno zingaro tedesco che mai si sarebbero incontrati. Se Joe Louis divenne subito un simbolo nel suo Paese, facendo inorgoglire migliaia di neri scesi tra le strade di Harlem per festeggiarlo, la vittoria di Trollmann passò in silenzio e fu solo una delle tappe che lo portarono a una fine tragica.
Johann aveva iniziato a tirare di boxe da bambino con i suoi otto fratelli nella periferia di Hannover. Era un sinti e quindi apparteneva a una delle principali etnie nomadi europee. Il suo soprannome “Rukeli” – “alberello” in romanì – era dovuto a quel suo corpo magro e agile che gli permetteva di boxare come nessun altro prima di allora. Nel 1928, la sua abilità con i guantoni lo portò a un passo dal partecipare alle Olimpiadi di Amsterdam ma venne scartato per le sue origini: anche se Hitler non era ancora al potere, il clima era già abbastanza pesante per i sinti. Quell’anno a Monaco il Servizio Informazioni sugli Zingari, un centro di studi sulla popolazione zingara, si era trasformato nell’Ufficio Centrale per la Lotta alla Piaga Zingara: una chiara spia del crescente odio razziale che stava prendendo la nazione. La maggior parte dei tedeschi non avrebbe gradito che una persona di quella etnia rappresentasse la Germania. Per fortuna di Trollman, il manager Ernst Zirzow la pensava diversamente e decise di allenare quel ragazzo talentuoso che combatteva con una velocità e un’eleganza senza precedenti. Roger Repplinger, nel suo libro Buttati giù, zingaro descrive lo stile di combattimento di Trollmann in una maniera che lo fa somigliare molto a quello di Muhammad Alì: “È agile, abile come un gatto, molto veloce e così mobile con il tronco che non viene quasi mai colpito. I suoi riflessi sono impressionanti”.
L’ascesa sportiva di Rukeli sembrava inarrestabile: nel 1930 vinse 12 incontri su 13 e divenne un’icona. Ai giornalisti che lo chiamavano “zingaro”, rispondeva facendosi scrivere quella parola sui pantaloncini. Nonostante il suo fisico esile, sembrava troppo forte per essere messo al tappeto e puntava dichiaratamente al titolo tedesco dei pesi medi, in mano all’ebreo Erich Seelig. Le cose cambiarono nel 1933, quando Hitler prese il potere. Dopo aver imposto il ritiro a Seelig, che si rifugiò in Francia, il regime mise nel mirino Trollmann: non aveva la pelle abbastanza chiara, si vantava del suo essere zingaro e trasformava ogni match in uno show, diventando l’idolo di molti ragazzi ariani. In più, si muoveva sul ring con la stessa eleganza di un danzatore, cercava prima di tutto di schivare i colpi degli avversari e questo contribuiva a renderlo non abbastanza virile per gli standard nazisti.
Per rappresentare il meglio della Germania pugilistica, il Terzo Reich sognava un campione come Adolf Witt e il 9 giugno 1933 ebbe l’occasione perfetta per dimostrare la superiorità dell’atleta ariano di fronte all’avversario zingaro. Alla birreria Bock di Berlino, davanti a più di mille persone, l’incontro decisivo per il titolo tra Trollmann e Witt venne tuttavia dominato dal primo, la cui vittoria appariva ormai certa. Quando suonò l’ultimo gong, il pugile nazista era rimasto in piedi, ma la sua sconfitta sembrava inevitabile. Rukeli era già sul punto di festeggiare, quando i giudici (controllati da Georg Radamm, neopresidente della Federazione) emisero un verdetto inaspettato: pareggio, il match non poteva avere un vincitore perché nessuno dei due contendenti aveva onorato la boxe. Trollman era incredulo quanto il pubblico, che iniziò a ribellarsi a un risultato palesemente pilotato. Ad eccezione delle SS presenti, tutti intonarono il soprannome del pugile zingaro e sia i giudici che Radamm rischiarono il linciaggio. Alla fine, per evitare ulteriori disordini, la vittoria e il titolo di campione di Germania furono comunque assegnati a Trollmann, che a quel punto alzò le braccia, stremato e commosso.
Furono proprio quelle lacrime, però, a segnare l’inizio della sua fine. La settimana dopo, infatti, il suo successo venne revocato proprio a causa di quel pianto, “indegno di un vero pugile”, e Rukeli fu costretto a combattere di nuovo, contro un nuovo avversario: il possente Gustav Eder. Eder era più grosso e potente di Trollmann ma anche più lento: stavolta, per evitare un risultato diverso da quello sperato, la federazione decise di obbligare Rukeli a combattere diversamente, niente più schivate o movimenti rapidi: doveva stare fermo al centro del ring e rispondere ai pesanti pugni dell’avversario solo con la forza. Il boxeur sinti si rese conto che in quelle condizioni era condannato a perdere, e anche se avesse vinto il regime gli avrebbe opposto di nuovo qualcun altro. Gli stavano facendo capire che quello sarebbe stato il suo ultimo incontro, e che avrebbe dovuto perderlo. Ma Trollmann decise di dire addio alla boxe nella sua maniera.
In una birreria Block riempita di SS che tifavano contro di lui, Rukeli si presentò ricoperto di farina e con i capelli tinti di biondo, determinato a prendere in giro chi aveva orchestrato quella triste messinscena. Quando il match iniziò non fece un passo, rimase immobile come se fosse stato davvero un alberello piantato nel mezzo del ring. Incassò tutti i pugni di Eder, senza accennare alcuna reazione. Al quinto round, un colpo più forte mise fine alla pantomima. Trollmann era al tappeto, l’incontro e la sua carriera di pugile professionista finiva sette giorni dopo aver toccato l’apice, nello stesso luogo in cui aveva trionfato.Dopo il ko non ricevette quasi più nessuna offerta di incontri e anche il suo manager, Zirzow, che un giorno aveva creduto in lui, lo abbandonò per diventare direttore del Palazzo dello Sport di Berlino. Negli anni successivi Zirzow avrebbe allestito grandi manifestazioni sotto l’egida di un’organizzazione nazista chiamata Forza attraverso la gioia. Rukeli fu così costretto a tornare ad Hannover, dove partecipò a incontri clandestini e iniziò a combattere nelle feste di paese, diventando un’attrazione da luna park. Giorno dopo giorno la sua vita diventava più difficile. Nel 1935 sposò Frieda Bilda ed ebbe una figlia, l’unica luce sembrava arrivargli dalla famiglia.
Nel 1936, però, iniziarono le prime deportazioni di rom e sinti nel campo di concentramento di Dachau. E lo stesso anno, in concomitanza con le Olimpiadi di Berlino, a Est della capitale venne aperto il campo di raccolta di Marzahn. Al suo interno furono internati rom e sinti perché, stando alla comunicazione ufficiale della polizia del Reich, “potevano rovinare l’immagine della Germania”. Poco dopo, in diverse città tedesche vennero ghettizzati e controllati dalla polizia. In quei mesi, erano state prodotte dal regime una serie di ricerche mediche senza alcun fondamento scientifico per giustificare la loro persecuzione. Il direttore del Centro ricerche per l’Igiene e la Razza, Robert Ritter, definì gli appartenenti a etnie nomadi “un miscuglio pericoloso di razze deteriorate”, mentre la sua collaboratrice Eva Justin li etichettò come “indegni individui primitivi”. Sia Ritter che Justin avrebbero continuato a occupare le loro cattedre nelle università tedesche anche dopo la caduta del nazismo, mentre centinaia di migliaia di persone appartenenti a queste etnie erano morte nei campi di concentramento.
Rukeli capì che ormai anche la sua famiglia era in pericolo: divorziò e fece in modo che moglie e figlia potessero scappare in Francia senza portare il suo ingombrante cognome. Anche in Italia, il suo collega pugile ebreo Leone Efrati venne deportato insieme al figlio ad Auschwitz, poco dopo essere tornato a Roma apposta per stare vicino alla famiglia: tra i due boxeur, la scelta giusta l’aveva fatta Trollmann, che allontanandosi dai suoi affetti, li aveva salvati. Da quel momento, però, il suo incubo divenne un viaggio solitario verso un tragico epilogo: finì dapprima prigioniero in un campo di lavoro e ne uscì solo per combattere in guerra con la divisa del Paese che lo aveva ripudiato. Ferito lasciò il fronte per tornare, ma la sua relativa tranquillità durò poco: Il 16 dicembre del 1942 il capo delle SS, Heinrich Himmler, emanò il “decreto di Auschwitz” che ordinava di spedire nei campi di concentramento tutti i ventimila zingari ancora presenti sul territorio tedesco.
Johann venne arrestato e condotto nel campo di concentramento di Neuengamme, vicino ad Amburgo. Riconosciuto dall’SS Albert Lütkemeyer, che era stato un arbitro di pugilato, venne costretto ogni sera a combattere contro SS e prigionieri più grossi di lui. Gli altri prigionieri, per aiutarlo, con uno stratagemma riuscirono a fargli assegnare il numero di un internato morto che doveva essere trasferito nel campo di Wittenberge. Anche qui, però, la fama di Trollmann si rivelò presto la sua rovina e l’ormai sfiancato ex campione venne di nuovo costretto ad altri incontri, fino all’ultimo, contro un kapò più feroce e forte degli altri: Emil Cornelius. Rukeli era ormai l’ombra di se stesso, magro e malato, e non ce la faceva più ad andare avanti con quella vita: con pochi colpi firmò la sua condanna a morte, umiliando Cornelius davanti a prigionieri e colleghi. Poteva prendere un pugno e buttarsi a terra, ma era stanco di quell’esistenza. Probabilmente disse, a chi lo implorava di fermarsi, qualcosa di simile a ciò che gli mise in bocca Dario Fo in Razza di zingaro: “Sono anni che ingoio tutto e mi faccio mortificare. Prima nascondendomi nei boschi come un animale braccato, poi con addosso la loro divisa mi becco pure qualche proiettile per difendere l’onore del Reich, e così facendo attraverso tutta l’Europa ammazzando gente che non mi aveva fatto niente di male. Volete ridere? Ho dovuto far la guardia anche a prigionieri di guerra. E adesso sono qui a vivere da deportato con addosso l’abito di un morto. Lo so che se lo faccio rischio la vita, ma uno non può vivere solo di umiliazioni e ingoiarle come un caffè caldo”.
L’esistenza di Johann Trollmann terminò la sera dopo: stava finendo di lavorare quando Cornelius lo colpì alle spalle con un badile, uccidendolo. Insieme a lui, in quel momento, c’era un compagno di prigionia, che essendosi poi salvato raccontò della sua triste fine. Quattro mesi dopo, ad Auschwitz, morirà anche suo fratello Heinrich, pugile anch’esso. Rukeli è stato uno dei 500mila zingari morti in quegli anni. Per indicare questa tragedia, sono state coniate due parole in romanì: una è porrajmos che sta per “divoramento”, mentre l’altra è ancora più forte, sampudarien, “tutti morti”. Johann Trollmann non fu l’unico internato costretto a boxare nei campi di concentramento: a Auschwitz, l’ebreo polacco Hertzko Haft si batté più volte solo per assecondare i sadici gerarchi nazisti, che lo soprannominarono “la bestia giudea”. Alla fine però si salvò e continuò a combattere da professionista in America. Trollmann non ebbe la sua stessa fortuna e, come lui, nei lager persero la vita anche altri pugili come Noah Klieger, Salamo Arouch e il già citato Efrati.
Nel 2003, la Federazione Pugilistica tedesca (BDB) ha consegnato ai discendenti di Trollman la cintura di Campione dei pesi mediomassimi che gli era stata sottratta nel combattimento-farsa con Eder. Oggi ad Hannover esiste una strada intitolata a suo nome e nel 2010 gli è stato dedicato un monumento a forma di ring, inclinato e bianco come la farina di cui si cosparse il corpo nel suo ultimo vero incontro. Quel teatrino fu il suo modo di mostrare quanto ridicolo fosse Hitler e di ribellarsi a quel mondo terribile che stava costruendo: non era una farsa ma un atto di grande coraggio, un tentativo di far aprire gli occhi a molti e l’invito a non abbassare mai la testa davanti alle ingiustizie e alla crudeltà.