La satira, soprattutto ai tempi del web, non può e non deve far ridere tutti: ci sarà sempre qualcuno, a seconda della propria sensibilità, che non capirà il gioco e ci rimarrà male. Questo accade sicuramente anche con l’opera di un illustratore che con la sua caustica descrizione delle relazioni umane e la descrizione puntuale e grottesca del paesaggio virtuale nel quale ci troviamo coinvolti riesce a suscitare reazioni forti, di condivisione o disgusto. In uno qualsiasi degli spazi disegnati da Joan Cornellà, infatti, la profondità da cui proviene la coscienza è un laboratorio oscuro alla ragione, in cui si costruiscono le azioni più spietate contro il buonsenso e si riscrive la storia del perbenismo. L’interno della coscienza di questi personaggi capaci di concepire infanticidi o vandalismi, ad esempio per eccesso di zelo, è uno spazio cinematografico: tutto avviene all’interno di una specie di parco divertimenti a colori vivaci in cui nessuno mette in discussione il copione. Le illustrazioni di questo artista da due milioni e mezzo di follower su Instagram si nutrono dell’universo iconografico più popolare, aggiungendovi una propensione al surreale che si sviluppa all’interno di 6 cornici e che ci coglie di sorpresa perché subito si trasforma in farsa grottesca, nella quale tutto diventa forzatura e menomazione della Natura. L’imperativo dell’autore sembra essere quello di continuare a giocare a ogni costo, riutilizzando all’infinito iconografie politicamente scorrette, vergogne e bassezze morali che ci appartengono, puntando l’accento sulla loro carica esplosiva.
La produzione dell’illustratore e fumettista spagnolo, classe 1981, la cui inclinazione più evidente è quella di saper attingere al carattere orizzontale di un panorama iconografico globale e connesso come quello del web, è visionaria, eppure il suo è un racconto personale che gli osservatori comprendono e condividono. Pur cercando di fuggire dalla coerenza narrativa, con risultati che diventano confidenze intime e racconti di vita privata, moltissime vignette sembrano infatti una vera e propria denuncia rispetto agli usi e costumi della nostra civiltà, anche se l’artista ha negato questo aspetto. Anzi, raffinato giocoliere delle definizioni contraddittorie – in linea nuovamente con gli esponenti del Surrealismo – in alcune interviste Cornellà sembra voler spiazzare il suo interlocutore. A fronte di alcune domande di routine, le sue risposte giocano con l’irriverenza, esercizio di descrizione di situazioni rovesciate e paradossali: l’artista dice allora di aver fatto la comparsa in gioventù in alcuni film porno low budget e poi, in un eccesso di retorica, confessa di credere in un poco chiaro “popolo decoroso e freddo”. Contro le classificazioni politiche, Cornellà sperimenta un discorso ludicamente serio che lo porta alla sfida intellettuale di autodefinirsi un conservatore di destra timorato di Dio, finché, surrealista anche in questo modo di sperimentare il significato letterale delle parole, arriva a rovesciarne i significati, pregiandosi contemporaneamente d’essere nipote di un celebre presentatore televisivo, icona della comunità gay spagnola.
In questo universo personale e collettivo si avvicendano personaggi sgraziati, malati, addolorati e impotenti, un’umanità flagellata da tormenti di ogni tipo, che l’artista tratta come abbozzi di racconto, appunti sul diario da sviluppare con montaggi complessi che ricordano gli esiti visivi del Pop Surrealism della Los Angeles degli anni Ottanta. Facendo sorgere curiose possibilità del pensiero, l’artista stabilisce rapporti sorprendenti tra i suoi personaggi, dove spesso quel fattore di inspiegabile irrefutabilità ricorda gli esiti visivi del Surrealismo di Magritte, specie in quel modo di considerare la pittura luogo d’incontri straordinari. Utilizzando un’ampia varietà di temi, le 6 vignette che compongono le sue illustrazioni creano uno stato di sospensione e di interruzione, di deliberata incompletezza in cui niente sembra succedere o niente viene esplicitamente detto e tuttavia qualsiasi cosa può diventare possibile. Quelle messe in scena da Cornellà sono azioni assurde compiute da attori miopi, il cui sentimento più diffuso è l’indifferenza o una certa serena compiacenza che segue le azioni più efferate, tutte manifestazioni di sudditanza ai must con le quali questi personaggi assecondano le imposizioni della moda più effimera, prediligendo l’ascolto dei bisogni più transitori a un confronto, anche fugace, con l’etica. Nei disegni di Cornellà sperimentiamo la consapevolezza promossa dal Surrealismo di vivere in una realtà sottoposta a condizioni e leggi estreme, all’interno di un tempo unico che corrisponde a quel presente dilatato ed ebete che non fa tesoro del passato e della storia, interessato com’è a rispondere esclusivamente al dettato del momento.
Dalla creazione dell’immagine divenuta mito nei social, alla condivisione oggi anche da parte del pubblico più inconsapevole, sono state formulate teorie diverse e intriganti sulla ricezione psicologica, filosofica o neuroscientifica delle sue tavole. Prendendo coscienza del fatto che esiste il senso della percezione anche laddove si presume che questa sia stata sostituita e filtrata dai media, la narrazione attivata dalla singola tavola risuona nella testa e sprigiona interpretazioni forti che ritrovano senso in questo labirinto di immagini, e ciò non dipende dalle condizioni tramite le quali vengono recepite. La rete non è responsabile di quel deflusso di energia che è il riso suscitato da queste immagini. Il lavoro di Cornellà attiva di per sé la nostra immaginazione, porta ad avere prima una reazione immediata, e poi una successiva fase di riflessione. È l’osservatore che sente le cose disegnate come satiriche e le vive come tali senza alcun bisogno di mediazione verbale. Per di più, l’immagine acquisisce un’ambivalente tensione: da un lato si colloca nella tradizione del passaparola e dall’altro paga il prezzo di tutte le opere d’arte che sul web fanno i conti con cicli di attenzione compressa e con la ricerca di cose impressionanti, più che con l’immersione nell’opera d’arte. L’arte visiva tradizionale lamenta il fatto che il pubblico cerchi esperienze estetiche forti, in grado di regalare sensazioni intense, senza spesso ritagliare il giusto tempo alla contemplazione. Le immagini di Cornellà invece esercitano una presa immediata sull’osservatore, lo affascinano e mettono in gioco rapporti di identificazione tramite meccanismi inconsci di riconoscimento e disconoscimento. L’osservatore è preda, coinvolto affettivamente.
Queste tavole non possono che essere corroborate da un rigoroso e soggettivo tirocinio filosofico, che sollecita la riflessione e ci invita a interrogarci su come la pensiamo, andando oltre la facilità dello spettacolo anche di fronte a uno spettatore passivo. Sono immagini sottoposte a un pubblico “accidentale”: un pubblico non di settore che, diversamente dal pubblico dei musei, non è nemmeno in cerca di arte quando se la ritrova sulla propria dashboard. Eppure chiamano a una osservazione intenzionale, ed è in questa forma di attenzione che la percezione si rivolge verso ciò che è forse l’aspetto più interessante: l’insinuazione del dubbio che esista un reale da interpretare. Ogni vignetta è una storia a sé, con ovvi legami con quelle precedenti e successive, ma senza che tali rapporti siano vincolanti e necessari. I personaggi anonimi e stereotipati di Cornellà sembrano un attacco al soggettivismo autoreferenziale dell’uomo medio, ma sono anche ostili a un oggettivismo semplicistico che impone la sua assurda legge nostro malgrado. Esattamente come nel Surrealismo, i suoi personaggi sono proiettati su mondi differenti e propongono uno sguardo “terzo”. Ogni situazione apparentemente non-sense ci parla di coscienze non come monoliti ma come processo.
Se da un lato sorgono le domande, altra conseguenza determinata da queste immagini è che lo spettatore si diverta e condivida queste illustrazioni, sentendosi chiamato a partecipare attivamente. Di fronte alle vignette cioè, siamo tutti osservatori dotati di un corpo ad esempio, a cui la percezione di quei moncherini si impone come un’accettazione della tensione in cambio del male minore di essere come siamo. Dopo quindi un automatico senso di rifiuto, ci sentiamo di riderne e di cercare complicità nel nostro gruppo di follower. Siamo portati alla dimensione pubblica della condivisione del riso amaro con gli amici, e insieme toccati dall’immagine anche nella nostra dimensione più privata, ricevendo così conferma del chi siamo e cosa pensiamo, eticamente parlando. Queste immagini, come tutte, ci invitano ad attivare la memoria e in questa dimensione più pedagogica delle illustrazioni di Cornellà, il “contributo didattico” dell’artista risponde al tentativo di chiarire il processo storico che stiamo vivendo, portando più persone possibili a riflettere su questa forma di gioco terribilmente serio e rendersi conto che tutti noi utenti del web – e non solo i nativi digitali – siamo dei veri e propri anarchici dell’immagine. Trovata e condivisa sui social quella che ci stupisce o ci rispecchia, la facciamo nostra, totalmente disinteressati al diritto d’autore, ma forti del potenziale sovversivo della ripetizione diventiamo aperti ai pensieri alternativi.
Abbiamo tutti ampliato la nostra cultura visiva attraverso l’uso e il consumo di immagini che in molti casi sono oggetto di reblogging, ma diventiamo capaci di elaborare alternative al politically correct, produciamo sapere politico attorno alle questioni che vengono spacciate per troppo tecniche o filosofiche e inventiamo pratiche di conflitto per abitare il nostro quotidiano, anche in forma di ironica protesta. Ciò che mi chiedo è se siamo davvero coscienti che la stragrande maggioranza delle nostre esperienze visive avviene nella forma immateriale del pixel. Una forma che però è di così facile accesso da conseguire effetti impensati, come l’occasione di mettere in discussione l’interpretazione comune del disgustoso come segno di decadenza culturale. Esattamente come aveva già fatto il Surrealismo di Magritte, con Cornellà siamo un’altra volta costretti ad accettare il mistero indefinibile della mostruosità dell’uomo medio. Una creazione la sua che stabilisce strettissimi rapporti con l’immaginazione, la storia dell’arte e con questo nuovo significato sociale del riso. Anzi, in quest’immensa occasione di socializzazione, il comico di Cornellà offre l’occasione di toccare con mano non solo la scelleratezza e il cinismo delle situazioni da lui rappresentate, ma la nostra intrinseca crudeltà e cattiveria, di cui a volte proviamo vergogna.