La legalizzazione delle droghe protegge la libertà di scelta, dimostrò John Stuart Mill

Ogni volta che nei dibattiti politici viene rispolverata la proposta di legalizzare la cannabis, le motivazioni che animano la discussione sono sempre le stesse: lotta alle mafie, snellire il sistema giudiziario e importanti guadagni economici per il Paese. Basti ricordare, in questo senso, il parere espresso di recente da Roberto Saviano o quello del Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone. Nel gennaio del 2019 il senatore del M5S Matteo Mantero ha presentato addirittura un disegno di legge, spiegando le motivazioni al quotidiano Il Dubbio: “Se la marijuana fosse depenalizzata si risparmierebbero oltre 800 milioni all’anno. […] Consentire l’auto-produzione toglierebbe i consumatori dalle mani della criminalità organizzata e ne tutelerebbe la salute”. La proposta, che ha trovato d’accordo anche Di Maio e il Pd è stata però bloccata sul nascere. L’allora ministro della Famiglia Fontana si è dichiarato contrario e, qualche mese dopo, il governo gialloverde ha scelto la strada del proibizionismo, portando alla chiusura diversi negozi di cannabis light dove si vende erba con Thc inferiore allo 0,5%.

Le ragioni di chi si batte per la liberalizzazione sono giuste e condivisibili. Rendere legali le droghe leggere sarebbe un durissimo colpo per le mafie, che si vedrebbero sottratte, secondo le stime degli esperti, fino a 8,5 miliardi di euro l’anno e ridimensionato il traffico illegale. In effetti, quello dello spaccio delle sostanze stupefacenti rappresenta ancora il business più redditizio per la criminalità, organizzata e non. Attraverso un mercato controllato, invece, a giovarne sarebbe soprattutto l’economia dello Stato, con un beneficio pari a circa 6 miliardi, importanti riduzioni delle spese di magistratura carceraria (541 milioni) e di azioni di pubblica sicurezza (228 milioni). Sarebbe riduttivo, però, imbastire un discorso sull’argomento soltanto in relazione ai motivi pratici. Ne esiste uno, di tipo etico, che forse sfugge alla classe politica e che da solo basterebbe per condurre il discorso sui binari della liberalizzazione. A scriverne è John Stuart Mill in Essay on Liberty del 1859, saggio che riflette sulla possibilità di una applicazione radicale dei princìpi della libertà. Il filosofo, considerato tra gli esponenti più illustri del liberalismo inglese, fu anche marito della femminista Harriet Taylor. Come è raccontato nell’Autobiografia, proprio l’incontro e il successivo matrimonio con la donna portarono Mill a rivedere le proprie opinioni in materia di libertà e di diritti dell’altro sesso. Lottò contro le disuguaglianze sociali e guardò con acceso interesse al nuovo movimento socialista e all’estensione del voto alle donne. Anche l’Essay, che nella mente dell’autore era stato concepito come un breve opuscolo filosofico, venne poi influenzato da Taylor e cambiato nella forma e nel contenuto. Così, quando questa si spense nel 1858, decise di pubblicarlo, dedicandolo alla sua memoria.

John Stuart Mill

Già a partire dall’introduzione Mill si mostra contrario al proibizionismo. La società, scrive, ha sempre tentato di costringere gli uomini a conformarsi alle “sue nozioni di eccellenza”. Il pensatore porta l’esempio delle comunità antiche, dove con l’approvazione dei grandi pensatori veniva esercitato il controllo pubblico su qualsiasi aspetto della condotta del singolo. In questo modo, lo Stato ha finito per non badare alla libertà e alla felicità dell’individuo, che dovrebbe poter assecondare i propri impulsi e le proprie esigenze. A tal proposito, il filosofo scrive: “La natura umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di crescere e svilupparsi in ogni direzione secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una natura vivente”. La libertà, dunque, viene descritta come un bisogno necessario ed essenziale per ciascun essere umano. L’individuo, per Mill, non può essere considerato come un automa che si attiene all’osservazione di un sistema di leggi meccanicistiche, ma un organismo che deve esprimersi assecondando le proprie inclinazioni e senza restrizioni.

In quest’ottica, l’unico aspetto di cui l’individuo deve rendere conto allo Stato è quello riguardante gli altri: ognuno, in quanto essere civilizzato, è chiamato a perseguire il proprio bene come meglio crede, purché non privi gli altri del loro o li ostacoli nella loro ricerca: “Il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata contro la sua volontà è per evitare danno agli altri”, scrive l’autore. Questo perché, secondo Mill, ciascuno è per natura interessato al proprio benessere, nonché “unico autentico guardiano della propria salute”. Tale discorso viene ampliato nel quarto capitolo, intitolato Dei limiti all’autorità della società sull’individuo. A coloro che lo accusano di alimentare l’egoismo e l’indifferenza, il filosofo risponde che un sistema del genere porterebbe le persone a praticare il bene assai più efficacemente di quanto non farebbero sotto un limite imposto dallo Stato. L’uomo ha il dovere di aiutare l’altro a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, incoraggiandolo a scegliere il primo e a tenersi lontano dal secondo. Nel caso non vi riesca, può disapprovarne la condotta, rifiutarsi di socializzare con lui, ma non costringerlo o esercitare pressione perché abbandoni il suo comportamento, se questo non rappresenta causa di danno ad altri.

È proprio attraverso il divieto – che finirebbe per rendere il vizio ancora più attraente – che si condanna l’individuo e, con lui, lo Stato. Un disincentivo efficace potrebbe essere la tassazione, ma la migliore arma restano comunque il dialogo e l’educazione: “I mali cominciano quando invece di far appello ai poteri dei singoli e delle associazioni, ci si sostituisce ad essi; quando invece di informare, consigliare, e talvolta denunciare, si impongono dei vincoli, ordinando ai singoli di tenersi in disparte e agendo in loro vece”. Dalla discussione sui “limiti all’autorità” vengono sollevati i bambini, le persone con problemi psichici e le società arretrate (secondo un’ottica colonialista), che non sono nella pienezza delle loro facoltà e dunque necessitano – purché il fine sia il loro progresso – di assistenza e protezione sia dalle proprie azioni che dalle minacce esterne.

Il problema sollevato dal filosofo inglese è più che mai attuale. La messa al bando dell’assunzione di cannabis danneggia la sfera intima dell’individuo, che si vede privato della libertà di scegliere cosa sia meglio per sé. Discuterne è dunque necessario. La soluzione potrebbe essere l’adozione di una legge che permetta la detenzione di una modica quantità per uso ricreativo, la possibilità di coltivarla, senza venderne il raccolto, e il commercio presso negozi e rivenditori autorizzati, forniti di licenza da parte dei Monopoli di Stato. A questo andrebbero affiancati il divieto di vendita ai minorenni, con pesanti sanzioni per chi trasgredisce, e quello di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti, già sancito dall’art. 187 del Codice della Strada.

Una azione del genere non è semplice, soprattutto perché quello della droga resta un tema divisivo, capace di provocare contestazioni e accesi dibattiti. L’attuale classe politica dovrebbe riuscire nell’impresa, forse oltre le sue capacità, di mettere in discussione princìpi solo all’apparenza morali e preconcetti cementati da tempo, in favore di una legislazione che faccia davvero l’interesse dei cittadini e delle istituzioni. Accusare lo Stato di “diventare spacciatore” o perseguitare chi, senza danneggiare terzi, si concede un piacere fumando erba non vuol dire soltanto fare il gioco delle mafie, ma anche negare l’esistenza di una sfera intima – e inviolabile – dell’individuo. Come testimoniato dagli oltre 6 milioni di italiani che hanno fatto uso di cannabis almeno una volta, il proibizionismo e la tolleranza zero sono misure anacronistiche e inefficaci. Serve un dibattito libero dai pregiudizi e dal tornaconto elettorale, per arrivare a una regolamentazione che combatta davvero le organizzazioni criminali, per il bene dei singoli e, soprattutto,per difendere la libertà di scelta.

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