Fotograferemo tutto e saremo incapaci di ricordare ciò che conta davvero, predisse Calvino nel 1970
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Nel 1970 venne pubblicata da Einaudi la raccolta di racconti che Italo Calvino scrisse tra il 1949 e il 1967: Gli amori difficili. Pur non rientrando forse tra le opere più conosciute dell’autore è sicuramente una delle più interessanti per quanto riguarda la profondità della caratterizzazione psicologica dei personaggi. I protagonisti dei racconti sono infatti uomini e donne comuni a cui non accade nulla di straordinario. Sebbene i titoli dei racconti suggeriscano grandi avventure, si tratta piuttosto di esperienze interiori, vissute nell’intimo della loro individualità. La trama scarna lascia spazio all’indagine dei desideri e dei timori, dei piccoli successi e fallimenti di persone che potremmo essere noi e di relazioni che sono potenzialmente quelle che abbiamo tutti. È per mezzo di queste storie fatte di dettagli, di gesti accennati e contorte reti di pensieri, che Calvino introduce e indaga temi che, lungi dall’esaurirsi nel tempo che raccontano, ci sanno ancora parlare della società in cui tuttora viviamo.

Ne “L’avventura di un fotografo”, uno dei racconti più densi del volume, Antonino Paraggi, impiegato con la passione di “sdipanare il filo delle ragioni generali dai garbugli particolari”, osserva con astio e sospetto la mania dei suoi coetanei di fotografare ogni movimento dei figli, ogni posa delle mogli, ogni giornata passata in compagnia degli amici. “Basta che cominciate a dire di qualcosa: ‘Ah che bello, bisognerebbe fotografarlo!’ e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, e che quindi per vivere bisogna davvero fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia”. Non importa se Calvino scrive in un’epoca in cui la fotografia è ancora quella analogica delle pellicole che una volta impresse devono essere sviluppate, la sostanza del gesto è la stessa di oggi. Nello sguardo critico di Antonino Paraggi – che diventa tuttavia a sua volta fotografo ossessivo – si cela un’osservazione sorprendentemente attuale, che mette in luce una delle dinamiche psicologiche collettive più rilevanti del nostro tempo.

Chiunque abbia visitato il museo del Louvre, a Parigi, ha potuto notare quanto sia difficile avvicinarsi alla Gioconda, costantemente assediata da visitatori-fotografi alle prese con il disperato quanto caricaturale tentativo di escludere dall’inquadratura gli smartphone degli altri visitatori, per evitare la paradossale foto della foto. Allo stesso modo, la vista che si ha ai concerti è sempre più simile a una costellazione di luci iridescenti: schermi che scattano, riprendono, registrano, nel tentativo di portare a casa un pezzetto di ciò che è successo, e che si pensa resisterà al tempo. Io stessa, in queste circostanze, sono costantemente alle prese con la tentazione di documentare ogni momento dell’esperienza, come se non facendolo l’esperienza stessa svanisse. Ormai siamo unanimemente corrosi dal bisogno atavico di aprire la fotocamera del nostro cellulare e scattare una foto, di documentare tutto ciò che ci accade.

Questa necessità viene in parte ricondotta dalla psicologia moderna alle logiche dei social network: fotografiamo un evento con il fine di condividerlo con chi ci segue e lo condividiamo con lo scopo narcisistico di mostrare una vita bella, appetibile, piena di eventi eccezionali e di esperienze invidiabili. Se Narciso si innamorò, non già di se stesso, ma del suo riflesso, noi ci rispecchiamo sulla superficie ambigua di Instagram. Le foto sono diventate sicuramente un mezzo necessario per narrarsi, permettendo di proiettare un’immagine mediata dall’idea che ognuno vuole dare di sé stesso. Ridurre però l’ossessione a fotografare ogni momento della propria vita a un vezzo egoriferito non sarebbe del tutto onesto e rischierebbe di demonizzare una pratica che apparentemente ha a che vedere con un’esigenza umana tra le più essenziali: l’intima e sempre più impellente necessità di ricordare.

Qualche tempo fa mi è capitato di dover resettare il mio cellulare senza preavviso e di perdere quindi tutte le foto che avevo scattato negli ultimi anni. La prima cosa che ho pensato, presa dallo sconforto, è stata: “Ho perso tantissimi ricordi”. Non è un caso, infatti, che il luogo virtuale in cui i nostri smartphone immagazzinano le foto e i documenti si chiami proprio “memoria”. E a questa memoria fatta di codici che non capiamo e a cui tuttavia affidiamo le nostre foto attribuiamo la responsabilità di ricordarci: che cosa abbiamo fatto, che persone ci hanno accompagnati e, in ultima analisi, chi siamo. La fotografia, dunque, diventa in primo luogo l’immagine stessa che abbiamo di noi.

A proposito dei cosiddetti “fotografi della domenica”, ossia tutti coloro che non fotografano per mestiere, ma piuttosto per diletto – ovvero ciò che tutti noi siamo diventati da qualche anno a questa parte – Calvino scrive: “Solo quando hanno le foto sotto gli occhi sembrano prendere tangibile possesso della giornata trascorsa, solo allora quel torrente alpino, quella mossa del bambino col secchiello, quel riflesso di sole sulle gambe della moglie acquistano l’irrevocabilità di ciò che è stato e non può esser più messo in dubbio. Il resto anneghi pure nell’ombra insicura del ricordo”.

A questo proposito, però, uno studio del 2018, pubblicato nel Journal of Experimental Social Psychology, ha rilevato che le persone che fotografano un’esperienza dimostrano in seguito di averne un ricordo meno intenso e dettagliato rispetto a chi la vive senza filtri. Se infatti la foto ci illude di aver catturato l’esperienza nella sua totalità, ciò che quella invece è riuscita a catturare non è che una parte infinitesimale di ciò che compone l’intera esperienza. L’immagine sullo schermo restituisce un solo lato di un poliedro le cui facce tendono all’infinito. “Non è soltanto una scelta fotografica, la vostra; è una scelta di vita, che vi porta a escludere i contrasti drammatici, i nodi delle contraddizioni, le grandi tensioni della volontà, della passione, dell’avversione”, continua Calvino. E ancora, quando Antonino Paraggi, il protagonista ormai avvinto dalla sua ossessione, inizia a fotografare costantemente la sua compagna Bice, si scopre sempre insoddisfatto del risultato: “C’erano molte fotografie di Bice possibili e molte Bice impossibili da fotografare, ma quello che lui cercava era la fotografia unica che contenesse le une e le altre”. E questo può farlo soltanto la vita.

La fotografia, come suggerisce Calvino, permette di cristallizzare momenti che altrimenti rimarrebbero soggetti alla fragilità e all’insicurezza ombrosa dei ricordi. La foto sembra rendere eterno ciò che invece sarebbe oggetto di rimaneggiamenti successivi o dell’oblio. La psicologia moderna sostiene che i ricordi svolgano un ruolo fondamentale nel plasmare la nostra identità, e le immagini, così come le emozioni, abbiano un ruolo fondamentale nella memoria. “È probabile [però] che troppe immagini ci portino a ricordare il passato in modo fisso, bloccando altri ricordi”, scrive Giuliana Mazzoni, docente di psicologia.

L’impossibilità di fotografare tutte le Bice possibili, e la frustrazione che questa impossibilità comporta, pone quindi una questione fondamentale: i ricordi appartengono al tempo e come il tempo sfuggono, gravitano, si moltiplicano in continuazione. La memoria, ci ricorda Calvino, non è un registratore fedele della realtà e dell’identità, ma è una sua interpretazione sempre in evoluzione, sottoposta a trasformazioni continue. “Ormai ti ho persa”, dice Antonino alla sua Bice mentre la fotografa, e qui davvero sembra aver letto i risultati dei moderni studi sul tema. “La realtà fotografata assume subito un carattere nostalgico, di gioia fuggita sull’alta del tempo. […] La vita che vivete per fotografarla è già in partenza commemorazione di sé stessa”. E se la commemorazione è celebrativa, solenne, univoca, la memoria deve essere labile, incerta, sfuggente. Calvino lo aveva capito, e forse oggi dovremmo ascoltarlo, per ritrovare un contatto immediato con il mondo di immagini libere che ci circondano e con la percezione che abbiamo di noi stessi immersi in quel flusso.

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