Nel 1992 il mondo si accorse di avere un problema in Somalia. Dopo decenni di dittatura, il popolo si ribellò contro Siad Barre, presidente sin dal colpo di Stato del 1969. Dopo le elezioni del 1986, vinte a tavolino data l’assenza di sfidanti, il potere di Barre iniziò a vacillare e le manifestazioni di protesta a crescere di intensità, fino a quando nel luglio 1990 il presidente diede ordine di sparare sulla folla durante una partita nello stadio di Mogadiscio per punirla dei cori di protesta nei suoi confronti. Fu l’atto iniziale di una repressione che tra stragi di civili, intere città bombardate e fucilazioni sommarie causò più di 50mila morti. Nel gennaio del 1991 Barre venne destituito e fuggì in una zona del Paese sotto il suo controllo, per poi ritirarsi in esilio in Nigeria l’anno successivo. Il Congresso della Somalia Unita scelse Ali Mahdi Mohamed come presidente ad interim già il 28 febbraio 1991, senza prima consultare tutte le tribù e le fazioni ribelli. In risposta, il capo militare del Congresso Farah Aidid, della tribù degli Habr Ghedir, iniziò un’azione armata contro il governo di Mahdi. Scoppiò così una guerra civile che fece crollare un’economia già di per sé fragile, trascinando il Paese in una crisi politica e umanitaria che continua ancora oggi.
Di fronte a questa emergenza umanitaria, la comunità internazionale decise di inviare aiuti in Somalia. Nacque così l’operazione Restore Hope, gestita dalle Nazioni Unite in seguito alla risoluzione n. 751 del 1992 e guidata dagli Stati Uniti. La missione di pace prevedeva da un lato il sostegno ai civili attraverso assistenza medica e distribuzione di cibo, dall’altro un piano di disarmo delle fazioni somale con la ricerca e distruzione degli arsenali militari delle diverse tribù. I miliziani locali si opposero, e anche i civili videro con sospetto questa operazione, ricordando gli anni del colonialismo. Nel dicembre del 1992 arrivarono in Somalia le truppe statunitensi, e pochi giorni dopo furono raggiunte da quelle di Belgio, Nigeria, Malaysia, Pakistan, India, Emirati Arabi Uniti e Australia.
Anche l’Italia mandò un suo contingente in Somalia, composto dai 2600 militari dell’Italfor che operarono nella zona da Mogadiscio fino al confine con l’Etiopia con la missione Ibis. Venne approvata in Parlamento sotto il governo Amato, grazie ai voti di tutti i partiti tranne il Partito della rifondazione comunista, mentre i Verdi e il Partito democratico della sinistra approvarono soltanto la parte della mozione legata ai soccorsi umanitari. La diffidenza dei somali verso gli italiani era in parte dovuto al nostro passato coloniale nel Paese, che a fine Ottocento divenne un protettorato e nel 1908 una colonia italiana. Sotto il fascismo venne annessa all’Africa Orientale Italiana, e questa fase terminò solo in seguito all’occupazione da parte del Regno Unito nel 1941. La Somalia tornò ancora sotto mandato fiduciario dell’Italia nel 1949 per volontà dell’Onu, in modo da accompagnarla verso l’indipendenza, decretata in via ufficiale il primo luglio 1960.
A distanza di quasi trent’anni, associamo l’esperienza in Somalia all’assassinio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, avvenuto il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, e alla battaglia al Checkpoint Pasta del 1993, la prima combattuta dall’Esercito italiano dai tempi della seconda guerra mondiale, nella quale i nostri soldati si scontrarono con le truppe di Farah Aidid, con un bilancio di 3 morti tra gli italiani e 67 tra i somali. Fu però molto altro, con alcuni atti di violenza nei confronti della popolazione somala. La più grave riguarda alcuni effettivi della Brigata paracadutisti Folgore, fotografati durante torture e stupri. La vicenda emerse soltanto nel 1997 grazie al settimanale Panorama, con la pubblicazione delle fotografie e le testimonianze dell’ex paracadutista Stefano Valsecchi e dell’ex caporale della Folgore Michele Patruno.
Valsecchi, autore di una fotografia di una ragazza legata a un carro armato e violentata, confessò al giornalista Marco Gregoretti di Panorama che durante la scena erano presenti parà, bersaglieri e carristi, e che tutti “ridevano, c’era tanto casino. Più che un gioco sessuale era un far qualcosa, un sentirsi grandi. Era stare nel gruppo”. È la legge del branco: “Quando gli ufficiali volevano divertirsi, tutta la banda gli andava dietro. E quella sera è stato così”. Valsecchi parlò anche dell’intera operazione italiana in Somalia: “C’era la guerra, non era una missione di pace. Una volta, a Mogadiscio, ero di vedetta, un bambino ha puntato una pistola ad acqua contro una camionetta di marines. Da lì sono partiti tre colpi di fucile a pompa. Di quel bambino non è rimasto nulla”.
Anche la testimonianza di Patruno parte da una documentazione fotografica che ritrae un ragazzo somalo torturato con elettrodi attaccati ai genitali. Il tutto in presenza di ufficiali della Folgore. Furono condotti con metodi brutali anche i rastrellamenti, con i soldati che entravano nei villaggi per perquisire le capanne alla ricerca di armi. Per farlo, distruggevano le strutture o rovesciavano le riserve d’acqua, lasciando i somali senza abitazioni e viveri.
I prigionieri che venivano sorpresi in possesso di armi venivano incappucciati e imprigionati. Inizialmente venivano privati di acqua e cibo e legati. Nel caso di un loro silenzio – per proteggere i membri della tribù o semplicemente perché non erano ribelli – si passava ad altri metodi: sigarette spente sulla pianta dei piedi, passeggiate sul filo spinato, scosse elettriche e bastonate. Secondo Patruno, “si arrivava a queste cose per puro sadismo”. Molte persone sottoposte a tortura morivano per la debilitazione fisica. Il racconto di Patruno continua soffermandosi su un episodio: “Ci fu un caso in cui i militari spararono contro un camion che non si era fermato a uno stop e uccisero due donne e un bambino. Sul camion fu poi verificato che non c’erano armi”.
Negli anni sono emerse altre testimonianze, come i diari del maresciallo Francesco Aloi, paracadutista del primo battaglione Tuscania, nei quali si suggerisce un legame tra queste vicende e le inchieste della giornalista Ilaria Alpi. Secondo Aloi, l’inviata era venuta a conoscenza delle torture dei soldati italiani contro i somali poco prima della sua morte.
Nei suoi diari Aloi fece anche il nome del generale Giovanni Truglio dei paracadutisti Tuscania dei Carabinieri, allora capitano durante l’operazione Ibis, in quanto “autore o persona informata delle violenze contro la popolazione somala”. Le inchieste successive, seguite dalla magistratura militare e in seguito da quella ordinaria, scagionarono Truglio, che continuò la sua carriera nell’Arma e nel 2001 fu nominato comandante delle compagnie di contenimento e intervento risolutivo durante il G8 di Genova.
Anche escludendo le tesi di Aloi, sulle torture dei soldati italiani in Somalia restano dei fatti incontrovertibili. La stessa Procura militare parlò di “azioni inopportune, gravi disfunzioni e sicure anomalie”. I generali di brigata della missione Ibis, Carmine Fiore e Bruno Loi, si autosospero. La Commissione Gallo, incaricata nel 1997 dal governo Prodi di far luce su questi eventi, giunse alla conclusione che “Gli episodi di maltrattamenti e torture ci sono stati, ma sono stati episodi del tutto individuali, che non hanno interessato lo spirito generale della missione e non hanno coinvolto tutto il contingente e taluni corpi”. Per tale motivo, Fiore e Loi furono riammessi ai loro ruoli, e nel 1995 venne concessa loro la croce di cavaliere dell’ordine militare d’Italia. Ci fu un solo condannato: Valerio Ercole, immortalato nella foto durante le torture al ragazzo somalo con gli elettrodi nei testicoli. Ercole fu condannato a un anno e sei mesi di reclusione, ma il reato cadde in prescrizione.
Anche se non si può generalizzare e far ricadere su tutta la Folgore o sulle Forze armate i crimini di alcuni suoi effettivi, insabbiarli e tacere sulla verità è un insulto al nostro Paese e in primo luogo ai militari che hanno svolto con responsabilità la loro missione in Somalia. Di solito si parla di torture e stupri degli italiani in Africa durante il periodo coloniale, culminato con le atrocità sistematiche espressamente autorizzate dal governo fascista. Fare luce anche sulle zone d’ombra della nostra recente storia repubblicana è però un atto dovuto nei confronti delle vittime e delle istituzioni democratiche che i nostri militari giurano di proteggere, sia in Italia che quando si trovano in missione all’estero.