Negli ultimi decenni sono state fatte scoperte legate al cervello e alla mente che potrebbero cambiare profondamente il nostro modo di vivere. Eppure, forse proprio per questo – oltre che a causa della loro grande complessità – faticano a essere accolte in modo orizzontale. La loro ricezione risulta destabilizzante, angosciosa e straniante, come ogni cambiamento di coordinate. Certi fatti ci mettono a disagio, ci rendono estraneo il mondo che fino a oggi ci è parso familiare. Queste evidenze vanno infatti a ribaltare le nostre radicate credenze rispetto ad alcuni dei pilastri più importanti su cui abbiamo strutturato usi, norme sociali e abitudini – e dunque la nostra stessa cultura: linguaggio, mente, pensiero, cognizione, cervello.
Come scrisse all’inizio degli anni Novanta il biologo Gerald Maurice Edelman ne La materia della mente: “Si è sviluppata una concezione straordinariamente erronea della natura del pensiero, del ragionamento, del significato e del rapporto di questi con la percezione; ed essa minaccia di mandare in pezzi l’intera impresa”. Lo sviluppo del linguaggio ha portato a una serie di evoluzioni inedite nell’Homo sapiens: la modifica delle strutture cerebrali; la nascita del pensiero astratto e l’elaborazione di tecniche, opinioni, credenze e valori. I comportamenti a cui tutto ciò ha dato origine, come scrivono Alessandra Falzone e Antonio Pennisi ne Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive, hanno reso l’essere umano una specie ecologicamente anomala, in cui si è progressivamente annullata la distanza tra evoluzione biologica e culturale.
Anche in questo caso, Miuccia Prada si mostra in anticipo sul senso comune, contribuendo a sviluppare una rete interdisciplinare che colleghi i nodi di questo discorso fondamentale per il futuro – per non dire per la sopravvivenza – dell’umano, con l’ambizione di riuscire a farli diventare spazio di riflessione condivisa. Dal 2018 Fondazione Prada ha intrapreso un’importante ricerca nell’ambito delle neuroscienze, con l’intenzione di comprendere sempre meglio il cervello umano e riconsiderare le nostre convinzioni a riguardo alla luce delle ultime evidenze. Dalla neurobiologia alla filosofia, dalla psicologia alla neurochimica, dalla linguistica all’intelligenza artificiale e alla robotica, “Human Brains” – sviluppato in collaborazione con un comitato scientifico presieduto dal neurologo Giancarlo Comi e composto dal filosofo Massimo Cacciari, dal neurologo cognitivo Jubin Abutalebi, dalla giornalista scientifica Viviana Kasam, dal curatore Udo Kittelmann, dalla neurologa e neurofisiologa Letizia Leocani, dal neurolinguista Andrea Moro e dalla neurologa cognitiva Daniela Perani – grazie alla convergenza tra i vari ambiti disciplinari ha voluto declinare il cervello umano al plurale.
Lo sviluppo del progetto è stato organizzato in quattro fasi: la prima delle quali è stata la conferenza “Culture and Consciousness”, svoltasi a novembre 2020 e focalizzata sullo studio della più avanzata funzione cerebrale; la seconda, intitolata “Conversations”, ha raccolto tra settembre 2021 e aprile 2022 una serie di interventi video di scienziati, filosofi e studiosi internazionali; la terza ha preso la forma di una mostra intitolata “It Begins with an Idea”, allestita nella sede veneziana della Fondazione, Ca’ Corner della Regina, in occasione della Biennale Arte 2022, fino al 27 novembre; l’ultima sarà “Preserving the Brain”, un convegno che si terrà a Milano tra settembre e ottobre di quest’anno sul tema delle malattie neurodegenerative e dei meccanismi fisiopatologici di reazione alle terapie, corredato da una mostra.
Tutto ha inizio con un’idea, e l’idea ha inizio dalla parola, il famoso “In principio fu il verbo”. In realtà, però, il linguaggio non è un “già da sempre”, un tempo non c’era e il suo avvento ha segnato un punto di discontinuità. Il linguaggio non è qualcosa che ci è stato dato dall’alto, una sorta di dono divino, come ancora spesso siamo involontariamente portati a credere, ma un evento evolutivo come tanti altri, peraltro ancora ampiamente da decifrare. Esso ci definisce, ci intrappola, ci illude, dà forma alla nostra stessa cognizione, eppure pensiamo sia qualcosa che viene da un luogo al di fuori di noi, così come la mente. Non è così, la parola è un fenomeno fisiologico, e il cervello, che un tempo pensavamo centrale, a sua volta sembrerebbe caratterizzato da un funzionamento a network molto più di quanto siamo mai stati disposti a ipotizzare.
La parola, anche quando rivelata, non è qualcosa che ci trascende, ma è ciò che ci forma e ci informa, finendo per apparire come una sorta di patologia evolutiva, per questo dovremmo occuparcene con molta più attenzione, perché ne va letteralmente della nostra esistenza. Il linguaggio, infatti, non è semplicemente uno strumento di comunicazione, ma una funzione cognitiva profonda, che ha reso l’essere umano tutt’altro che eccezionale, ma semplicemente diverso, per non dire anomalo, disadattato ed estremamente invasivo – come i cinghiali che si preoccupa tanto di ammazzare e tutte le altre specie in grado di adattarsi come lui in maniera eccellente a vari habitat e proliferare.
La mostra “It Begins with an Idea”, curata da Udo Kittelmann in collaborazione con Taryn Simon, ospita su tre livelli vari approcci al tema del cervello (e quindi della mente e del linguaggio). Al primo e secondo piano sono esposti più di cento oggetti che codificano secoli di tentativi di comprensione del cervello umano da parte dell’umano stesso. Questa selezione raccoglie manufatti storici, disegni, dipinti, stampe e libri che segnano alcuni dei momenti più significativi di questa ricerca che affonda le sue origini diversi millenni fa, almeno dalle civiltà mesopotamiche ed egizie, e proseguono poi attraverso le culture indiane, fino al Rinascimento italiano, il Periodo Edo giapponese e alle contemporanee tecniche di imaging sviluppate negli ultimi tre decenni.
La riproduzione, grazie alla stampa 3D, dei Cilindri di Gudèa (del XXII secolo a.C.); due reperti archeologici sumeri trovati in Iraq e conservati al Louvre, che riportano i più lunghi testi cuneiformi che ci siano pervenuti e testimoniano la più antica narrazione di un sogno, nella fattispecie quello del sovrano di Lagash, Gudèa, in cui il Dio Ningirsu gli ordina di costruire il tempio di Eninnu. Il Papiro Edwin Smith – del XVII secolo a.C. – uno dei più antichi testi chirurgici che ci siano arrivati dall’Antico Egitto, in cui vengono riportate operazioni chirurgiche su tumori; la copia ottocentesca dell’antico trattato del III secolo d.C di medicina tradizionale cinese Huangdi Neijing – il Libro Interno (o Esoterico) dell’Imperatore Giallo, attribuito al leggendario dio-antenato Huangdi; uno Shiva Nataraja del Diciottesimo secolo; un manoscritto di Leonardo Da Vinci con appunti e disegni anatomici; testi di Cartesio sulla ghiandola pineale.
Poi si passa agli oggetti più vicini a noi e all’idea che abbiamo oggi della scienza: le prime raffigurazioni dei neuroni realizzate separatamente dai Nobel per la Medicina nel 1906 Camillo Golgi e Santiago Ramón y Cajal (in realtà in grande disaccordo e competizione); un modello anatomico in cera proveniente dal Museo La Specola di Firenze; le pubblicazioni scientifiche delle ricerche di Rita Levi-Montalcini e Viktor Hamburger, che nel 1960 hanno condotto alla scoperta del fattore di crescita delle cellule nervose; e un articolo pubblicato sulla rivista New Scientist che documenta la prima risonanza magnetica di un cervello umano ottenuta da Ian Robert Young e Hugh Clow nel 1978.
Ultimo ma non ultimo, spicca il dipinto di Hieronymus Bosch intitolato “L’estrazione della pietra della follia”, o “Cura della follia”, del 1494. Il dipinto riprende una famosa storia popolare che parla di un credulone che si fa convincere da un ciarlatano a fargli togliere dalla testa “la pietra della follia”, ovvero la stoltezza. Nell’iscrizione che corre intorno al cerchio in cui è racchiusa l’immagine si legge: “Maestro cava fuori le pietre, il mio nome è stolto”. Al raggiro del ciarlatano, che sta tagliando con un bisturi la fronte dell’uomo per estrarne un fiore, assistono senza intervenire un monaco e una suora. Il chirurgo indossa un copricapo a forma di imbuto, simbolo a sua volta della stupidità, come critica contro chi crede di sapere ma che senza rendersene conto è più ignorante di colui che deve curare. Inutile dire che anche in questo caso il linguaggio e la trasmissione delle credenze vengono messe sul tavolo degli imputati. Solo l’interrogazione filologica della grammatica sembra poter essere usata come chiave per comprendere.
A riprova del ruolo fondamentale giocato dal linguaggio rispetto a questo tema, trentadue autori di narrativa, provenienti da diverse parti del mondo, hanno scritto testi (interpretati da George Guidall) ispirati agli oggetti esposti nella mostra, facendo emergere le vicende sociali, politiche e personali che sottendono. Oggetti e storie, d’altronde, sono ciò che più rende tangibile la capacità e al tempo stesso il limite del cervello umano di raccogliere, ricordare e rielaborare le informazioni sensibili che lo stimolano. Questa caratteristica spontanea a volte ci fa soffrire e ammalare, perché la subiamo senza controllarla. Sempre Edelman, nel 2002, diceva che la coscienza è presente ricordato. Le incrostazioni del sensibile ci permeano e ci invischiano, si mescolano alle nostre parole e vengono registrate nell’inconscio. Anche la cognizione del presente assume così la forma di una memoria “istantanea” e immediatamente verbalizzata, trasformata in un participio passato, che pure ci dà l’illusione di essere continuo. Proprio come “citta” (la cognizione) di Asanga, Vasubandhu e Patañjali – tra i primi a costruire tra il III e IV secolo d.C. una teoria estremamente convincente e attuale della mente e della semantica che la circonda. Il termine citta (participio di “cit”, che rimanda alla cognizione in senso lato), come sostengono i sanscritisti Federico Squarcini e Gianni Pellegrini, indicherebbe qualcosa che è un tutt’uno con il turbamento, che è condizione effettuata invece di effettuante, perciò impossibile da stabilizzare (anche se linguisticamente ci proviamo di continuo, come dimostra l’uso della locuzione “stato di coscienza”), che nulla ha a che vedere né con la “coscienza divina”, né con lo “spirito eterno”.
A coronamento di questo percorso, all’ultimo piano della mostra si trova l’installazione “The Conversation Machine”. In una serie di estratti – orchestrati da Taryn Simon e realizzati a partire da una base di 140 ore di interviste – appaiono su 32 schermi neuroscienziati e filosofi provenienti da tutto il mondo, che parlano di esperimenti neuroscientifici e della loro dimensione filosofica ed etica. Grazie al complesso montaggio e al raffinato lavoro di editing sembrano ascoltarsi l’un l’altro e reagire di conseguenza, anche a livello spaziale, entrando e uscendo dagli schermi. Gruppi di studiosi si spostano da un monitor all’altro, mentre alcuni restano seduti, in un silenzio prolungato ma attivo. Brevi flash mostrano oggetti connessi al loro lavoro. La conversazione, ispirata ai meccanismi del nostro cervello, si sviluppa seguendo una logica di previsione e sorpresa.
Attenzione e distrazione, nelle più svariate attività della nostra vita quotidiana, possono portare a un livello massimo o minimo la reattività del cervello. In questo caso gli ascoltatori del dialogo si fanno indicatori di questa tensione. Oltre al linguaggio, infatti, e ai contenuti verbali che trasmette, il cambiamento delle immagini, l’apparizione di oggetti, di sedie vuote, i piccoli movimenti involontari, gli scambi fra altoparlanti e schermi si fanno catalizzatori nello spazio circostante della distrazione – elemento conduttore dell’attenzione – dell’ascoltatore. Mentre i ricercatori parlano di esprimenti, concezione dell’Io, mutamenti biologici provocati da traumi e sopravvivenza, il cervello degli ascoltatori si nutre di incompatibilità, connessioni, stimoli che lo distraggono, letteralmente, ovvero “lo tirano in diverse direzioni”, lo disperdono, lo sparpagliano. Allo stesso modo, la storia della conoscenza neuroscientifica – e non solo – è segnata da rigore e concentrazione, ma anche da errori, trasgressioni e incertezze.
Un ruolo fondamentale, poi, in questo gioco della percezione, lo gioca l’assenza: lacune, tracce, tratteggi, prospettive mancate, livelli nascosti. All’inizio dell’esperienza c’è la capacità di notare qualcosa. “Ciò che viene notato è sempre una caratteristica singolare, un elemento distintivo, un tratto,” scrive il filosofo Paolo Godani in Tratti. “I tratti,” continua, “sono entità al contempo singolari – identificabili come tali, indivisibili in quanto specie ultime – e soggette a ripetizione – dunque non uniche”. I tratti sono le differenze ultime che costituiscono l’essere stesso in quanto molteplicità. Secondo il filosofo, dunque, non esisterebbe assolutamente nulla al mondo che abbia la natura di individuo, se con questo termine si intende un’entità unica e irripetibile, come già sostenuto da importanti autori duemila anni fa. Se la cognizione è una patologia, perché ci fa pensare di essere qualcuno, la cura è non essere nessuno. Con questi pensieri sembra entrare in risonanza il titolo Human Brains – cervelli umani, singolari e molteplici a un tempo, plurali eppure accomunati da differenze specifiche – nel tentativo di capire cosa e come siamo e di ritrovare una conoscenza spinoziana delle cose sub specie aeternitatis, purificata da una lettura morale e religiosa, che ci permetta di spingerci, se lo vogliamo, fino agli estremi di una mistica della fisiologia. Progetti come questo, intrapreso ormai quattro anni fa da Fondazione Prada, appaiono quindi come importanti occasioni per farci procedere in questa direzione.
In cover: Introduzione al cervello umano, 2015. Suzanne S. Stensaas, Dipartimento di Neurobiologia e Anatomia e biblioteca di Scienze della salute Spencer S. Eccles, University of Utah, Salt Lake City. Immagine della mostra “Human Brains: It Begins with an Idea” Fondazione Prada, Venezia 23 aprile – 27 novembre 2022. Foto: Marco Cappelletti. Courtesy: Fondazione Prada.