A distanza di 75 anni, in Italia parlare di Resistenza è ancora un’enorme fatica. Chi lo fa deve confrontarsi con due problemi, uno esterno e uno interno. Quello esterno è l’ostinato e incessante lavoro pseudostorico dei revisionisti, se non dei negazionisti, che dall’ambiente strettamente neofascista ormai hanno invaso l’opinione pubblica, a causa dello sdoganamento operato da scrittori, testate giornalistiche e programmi televisivi ostili all’antifascismo. Ma c’è anche un nemico più insidioso, interno, ed è quello della memoria parziale della Resistenza, che si è concentrata sulla figura mitizzata e quasi archetipica del partigiano, lasciando fuori tutti quegli altri soggetti che hanno contribuito in maniera fondamentale alla Liberazione dell’antifascismo. Tra questi, assieme alla storia delle partigiane o della “Resistenza creola”, c’è anche quella degli internati militari italiani, i soldati dell’esercito italiano che dopo l’8 settembre 1943 rifiutarono di combattere per i nazisti, e che per questo vennero deportati in Germania.
Al momento della firma dell’armistizio, secondo i calcoli svolti dagli storici Mario Avagliano e Marco Palmieri – autori anche del recente volume I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943-1945), edito da Il Mulino – sono 3 milioni e mezzo i connazionali in divisa, di cui 2 presenti sul territorio italiano. Con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e, ancor più, dopo l’8 settembre, i soldati in Italia si trovano allo sbando. Giorgio Rochat, nella sua prefazione al volume di Avagliano e Palmieri Internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945, spiega che in quel momento i soldati sono “degli sconfitti che (vivono) il fallimento del regime fascista in cui erano cresciuti”. Si tratta infatti di ragazzi giovanissimi, imbevuti da anni di propaganda militarista, che improvvisamente si ritrovano a dover fare i conti con il “tradimento” di Mussolini, profondamente sfiduciati nei confronti del governo Badoglio e ormai convinti dell’inutilità del servizio militare.
Più della metà dei militari italiani, compresi quelli di stanza all’estero, vengono catturati immediatamente dopo l’8 settembre e posti di fronte a un ultimatum: o dichiarare fedeltà al nazifascismo o la deportazione. La maggior parte di loro, 650mila, sceglie il lager. Come fanno notare Avagliano e Palmieri, per molti si tratta della prima scelta politica presa in autonomia, spesso non motivata da un antifascismo “ideologico”, ma da quella che lo storico Giorgio Rochat chiama “fedeltà alle stellette”, in riferimento alle stelle a cinque punte sul bavero della divisa militare italiana, abolita dal fascismo. Per la prima volta nella loro vita, questi uomini si sentirono liberi di scegliere – per quanto la scelta fosse obbligata – e, di fronte all’aderenza a un regime in cui non si riconoscono, preferiscono la prigionia.
I soldati vengono deportati ovunque si trovino, dall’Italia, dai Balcani, dalla Polonia o dalla Grecia, verso i campi di concentramento tedeschi. A volte lo fanno a piedi, attraverso lunghe e penose marce forzate che attraversano mezza Europa, altre volte vengono stipati nei vagoni dei treni merci, incrociando il loro destino con quello di ebrei e prigionieri politici. La destinazione è diversa a seconda del rango militare: i soldati semplici e i sottufficiali vengono avviati agli Stammlager, i campi per prigionieri di guerra, e destinati al lavoro coatto; gli ufficiali sono invece internati negli Offizierslager, campi per soli ufficiali; infine, i militari accusati di sabotaggio o di altri reati, finiscono nei campi di lavoro o in strutture dipendenti dai campi di sterminio.
La Germania nazista, come è noto, non lascia nulla al caso. Ai prigionieri italiani, particolarmente odiati perché provenienti da un Paese ex alleato e quindi percepiti come traditori, riserva un trattamento peggiore rispetto agli altri prigionieri politici. La dicitura “internati militari italiani” (Imi) viene introdotta da Hitler nel 1943: è uno stratagemma per non definirli “prigionieri di guerra”, e quindi privarli della protezione, per quanto minima, della Convenzione di Ginevra. Così, nei diari degli internati, si legge la frustrazione degli italiani che, dalla finestrella della propria baracca, vedono la Croce Rossa consegnare cibo e curare i prigionieri francesi. I nostri connazionali invece sopravvivono nelle condizioni più disumane: nessun servizio igienico, 12 ore di lavori forzati ininterrotti al giorno, una sola razione di minestra ogni 24 ore, nessuna assistenza sanitaria. Anche per gli storici tedeschi Schreiber e Hammermann, gli italiani sono vittime di una particolare efferatezza da parte dei loro carcerieri: sono quasi 5mila i morti per mano dei nazisti, a causa di percosse, fucilazioni, impiccagioni o eccidi collettivi.
A mietere più vittime è però la fame e in 23mila muoiono di stenti prima della Liberazione. Anche se gli internati possono ricevere pacchi dalle proprie famiglie, spesso i viveri (quelli che arrivano non deperiti) bastano solo per pochi giorni e sono comunque insufficienti per sopperire ai durissimi turni di lavoro coatto. Per raggiungere le fabbriche, i militari vengono fatti camminare per chilometri nella neve. Chi si lamenta viene frustato o picchiato. Quelli che lavorano nelle miniere vengono fatti dormire direttamente nelle cave, dove è vietato accendere fuochi per riscaldarsi. Accomunati perlomeno dalla stessa lingua – cosa che non avviene, ad esempio, nei campi di sterminio, dove molti testimoni ricordano l’impossibilità di comunicare con i propri compagni – i prigionieri si sostengono come possono: il filosofo Enzo Paci, internato in Polonia a Beniaminów, organizza lezioni e “conferenze” sul Rinascimento. Gianrico Tedeschi, celebre attore milanese, recita per i compagni dello stesso campo L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello.
Ai soldati che nei lager presteranno fedeltà al regime nazista e alla Rsi (Repubblica Sociale Italiana) è promessa la scarcerazione, ma l’85% dei 650mila internati rifiuta queste condizioni. Le testimonianze delle lettere e dei diari raccolte da Avagliano e Palmieri dimostrano il coraggio del rifiuto di tanti italiani. I soldati sono anche consapevoli del valore politico della loro scelta: “Qui non siamo solo semplici prigionieri”, scrive il capitano Guido Baglioni sul suo diario, “bensì combattenti della prima battaglia per il nostro rinnovamento spirituale, politico, economico. Battaglia che concluderemo in Italia dopo il rientro”.
A ogni prigioniero, e in particolare agli ufficiali, viene data la possibilità di firmare un’abiura ma, secondo le fonti della stessa Rsi, il 70% degli internati rifiuta: “Aderisco all’Idea Repubblicana dell’Italia Repubblicana Fascista e mi dichiaro volontariamente pronto ad impiegare senza riserve sino alla vittoria finale le mie forze lavorative, in Italia, nella lotta contro il nemico (…) del Duce e del Reich germanico”. Dal 1944, vista la strenua resistenza dei soldati italiani, il Reich cambia strategia. Gli internati vengono smilitarizzati d’autorità dalla Rsi, che vuole dimostrare all’Italia di aver aiutato i suoi connazionali. In questo modo, infatti, il loro status cambia da “internati militari” a “liberi lavoratori” in Germania e la Rsi può scrivere sui propri giornali di propaganda di aver liberato i prigionieri. La formula è però ancora una volta solo una facciata, perché si tratta comunque di lavori forzati, spacciati per “volontari”: gli internati non sono più rinchiusi in un lager, ma di fatto sono schiavi di Hitler.
Proprio nel 1944, con l’avvicinarsi della fine della guerra, le condizioni dei prigionieri rimasti nei lager diventano ancora più disperate. Per non dover consegnare i prigionieri al nemico i nazisti chiudono un campo dopo l’altro, obbligando gli internati a lunghe marce verso le zone non ancora liberate del Reich, e costringendoli a scavare trincee sulla linea del fronte. Le modalità di liberazione dei campi sono molto diverse: alcuni vengono liberati dall’Armata Rossa, che però non ha molta simpatia nei confronti dei soldati italiani, fino a poco prima nemici sul campo di battaglia. Già alla fine di quell’anno il governo Badoglio nomina un Alto commissario per i prigionieri di guerra, che ha il compito di organizzare i rimpatri, anche se l’operazione si rivela più complessa del previsto, a causa di difficoltà burocratiche e logistiche. Per questo moltissimi soldati preferiscono rientrare in Italia da soli, spesso affrontando a piedi lunghi viaggi che durano mesi, a volte anni.
Alla fine saranno in 495mila a riuscire a tornare in Italia. Il rientro è per tutti traumatico: i soldati, molti dei quali in pessime condizioni fisiche e devastati dal disturbo da stress post-traumatico, si ritrovano catapultati in un Paese completamente diverso da quello che avevano lasciato. Ma soprattutto, incontrano un’Italia indifferente alle loro storie, se non ostile. L’amor di patria che li aveva spinti a rifiutarsi di combattere per il nazismo è visto come uno sgradito ricordo del Ventennio. Inoltre, sono considerati un elemento di disturbo rispetto a quello che Avagliano e Palmieri chiamano “il monopolio della memoria”, dal momento che la sinistra considera chiunque abbia prestato servizio nell’esercito responsabile della guerra d’aggressione fascista. A differenza degli altri prigionieri dei lager nazisti, che già nei primissimi anni dopo la fine della guerra cominciano il loro lavoro testimoniale, gli internati militari italiani, forse consapevoli di essere inascoltati, non hanno conservato la loro memoria.
Il lavoro di ricostruzione storica sugli Imi è cominciato solo in tempi molto recenti, nonostante la costituzione già nel 1946 dell’Associazione nazionale ex internati e nel 1949 dell’Associazione nazionale reduci dalla prigionia. Dal 2006, lo Stato italiano riconosce la Medaglia d’onore ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti tra il 1943-1945, consegnata ogni anno nel giorno della memoria ai pochi superstiti e alle loro famiglie. Tuttavia, ancora oggi, in pochi conosco la storia di quegli italiani che pagarono a caro prezzo la fedeltà a un Paese che si era dimenticato di loro.