Nel tardo pomeriggio del 6 dicembre 1989, un ragazzo di venticinque anni entrò nel politecnico di Montreal, in Canada, con un fucile d’assalto AR-15. Si diresse verso l’aula di ingegneria meccanica e ordinò che tutti i maschi uscissero dalla classe. Quando si trovò davanti le sole studentesse, dichiarò che era lì per “combattere il femminismo”. Una delle presenti, Nathalie Provost, provò a convincerlo che non erano delle femministe: “Siamo solo donne che studiano ingegneria, non siamo per forza femministe pronte a marciare in strada e urlare che siamo contro gli uomini, siamo solo studentesse che fanno una vita normale”. L’appello di Provost non convinse l’attentatore, che urlò: “Siete tutte delle femministe, e io odio le femministe” e cominciò a sparare. Sei di loro morirono sul colpo, le restanti si finsero morte. Poi il ragazzo, che si chiamava Marc Lépine, uscì dall’aula e si diresse verso la caffetteria, sparando o accoltellando ogni donna gli capitasse a tiro. Entrò poi in un’altra aula al secondo piano, uccise altre otto studentesse e si sparò in testa. In totale fece 14 vittime, 13 studentesse e un’impiegata del personale amministrativo, tutte donne.
La polizia trovò nella tasca del giubbotto di Lépine tre lettere, una che spiegava le sue motivazioni e due indirizzate agli amici. Sin da subito trapelò che Lépine aveva agito perché “le donne gli avevano rovinato la vita”, anche se i media non diedero molto risalto a questa notizia nonostante tutte le vittime fossero di sesso femminile, ma si limitarono ad additare Lépine come un folle. Nella lettera, resa pubblica solo un anno dopo, era inclusa una lista di diciannove donne del Quebec che Lépine era intenzionato a uccidere, tra cui la scrittrice Naomi Klein e la giornalista Francine Pelletier, che lavorava per La Presse. Fu proprio Pelletier la prima a pubblicare il contenuto della lettera e a riconoscerne la natura profondamente antifemminista. Lépine odiava infatti le femministe perché riteneva volessero mantenere i benefici che le donne avevano nella società, come i congedi di maternità e le assicurazioni sanitarie più economiche, ma impadronirsi anche di quelli degli uomini. Il suo piano era di ucciderne il più possibile. Il massacro del Politecnico di Montreal è, a oggi, l’attentato con il maggior numero di vittime della storia canadese.
Per molti anni, questo tragico evento è stato considerato come l’azione di un folle, nonostante la relazione psichiatrica all’indomani dell’attentato avesse escluso patologie mentali significative. L’opinione pubblica canadese si concentrò subito sul problema delle armi: si scoprì infatti che Lépine aveva acquistato il fucile con cui aveva commesso l’attentato in un negozio di articoli per la caccia. Le famiglie delle vittime e alcune associazioni studentesche crearono una petizione per fermare la vendita dei fucili AR-15 per uso civile e nel 1995 il governo federale canadese introdusse alcune restrizioni sul tipo di armi che era possibile acquistare e possedere. Nonostante il grande impegno di Pelletier per dimostrare che la matrice dell’attentato era il sentimento antifemminista dell’autore – come dichiarato da Lépine stesso nella lettera – questa idea venne ignorata per anni. Paradossalmente, come raccontò Pelletier anni dopo sulla rivista La Vie en Rose, i suoi tentativi di portare in luce il movente misogino fecero esplodere in tutto il Paese il sentimento antifemminista tanto che molti uomini si mostrarono solidali con le motivazioni di Lépine. Nelle redazioni dei giornali, arrivavano decine di lettere e telefonate di ragazzi che si dicevano pronti a emularlo. Diversi giornalisti e opinionisti accusarono le femministe di aver provocato la morte di donne che nulla avevano a che vedere con il movimento e il direttore di La Presse decise di non pubblicare più gli editoriali di Pelletier perché facevano “propaganda sul femminismo”.
Trent’anni dopo, il 5 dicembre 2019, la città di Montreal ha finalmente riconosciuto la matrice antifemminista dell’attentato e ha aggiunto una targa commemorativa in Place du 6-décembre-1989. Un anno prima, un giovane di nome Alek Minassian aveva portato a termine un nuovo attacco terroristico in Canada, investendo decine di persone con un furgone in una strada trafficata di Toronto e uccidendo otto donne e due uomini. Subito dopo l’arresto, Minassian dichiarò alla polizia di aver agito perché era vergine e non aveva mai avuto una fidanzata, e di aver progettato l’attentato come forma di ritorsione per non aver mai fatto sesso. Lo infastidiva che le donne preferissero dei “bruti” a lui, che si considerava “un supremo gentiluomo”. Minassian si è definito un Incel, cioè un “celibe involontario”. Con questa espressione si indica una sottocultura che incolpa le donne per i fallimenti sessuali e relazionali degli uomini. Gli Incel si considerano incapaci di avere relazioni a causa delle loro caratteristiche fisiche e radicano le loro convinzioni in una teoria che mescola elementi di psicologia evolutiva a teorie pseudo-sociologiche. Credono che le donne siano le vere privilegiate in quanto ipergame, cioè propense a intrecciare relazioni sessuali con più uomini: secondo loro, nessun uomo rifiuterebbe mai un rapporto sessuale con una donna che, per quanto brutta possa essere, troverà sempre almeno un partner sessuale, a differenza di un maschio poco attraente. Particolarmente forte nella comunità Incel è l’odio per le femministe, che si approfitterebbero di questa situazione, già di per sé vantaggiosa per il genere femminile, cercando di impossessarsi anche dei pochi privilegi riservati a quello maschile.
Nel 1989, l’anno del massacro del Politecnico, gli Incel non esistevano, dal momento che la nascita del movimento è collegata alle community online, ma erano già attivi diversi gruppi mascolinisti o MRAs, cioè di “attivisti per i diritti degli uomini”. I gruppi MRAs nascono inizialmente come risposta positiva al femminismo degli anni Settanta, nel tentativo di applicare all’inverso le istanze femministe, in particolare l’idea della “liberazione maschile”. All’inizio del decennio successivo, alcuni di questi gruppi prendono però una strada diversa, non accettando che all’idea di liberazione femminile corrispondesse anche una messa in discussione degli assi di potere. Con il passare degli anni, quella che in seguito verrà chiamata “maschiosfera” (manosphere), cioè la galassia di questi movimenti, si radicalizza e riversa nei confronti delle femministe il proprio risentimento. Se da un lato alcuni gruppi diventano sempre più estremisti, dall’altro le istanze mascoliniste si diffondo anche a livello mainstream, diventando sempre più diffuse e accettate. Spesso le rivendicazioni della maschiosfera si concentrano su problemi legati al ruolo che ci si aspetta che gli uomini ricoprano nella società, ma anziché provare a decostruire questo ruolo, gli MRAs se la prendono genericamente con le donne, e in particolare con le femministe. Come spiega la sociologa Giovanna Vingelli, “il panorama semiotico di riferimento dei MRAs include un universo di parole, narrazioni, ricostruzioni alternative sempre fortemente polarizzate che sintetizzano, stravolgendone il significato, categorie classiche dei movimenti sociali emancipativi (compresi i movimenti femministi) e allo stesso tempo fa leva sulle passioni, le fragilità, la crisi identitaria e sociale degli ‘uomini contemporanei’”.
In molti casi, il desiderio di vendetta e di rancore che anima gli MRAs si trasforma in azione violenta. Lo fu il massacro del Politecnico di Montreal, quello di Isla Vista compiuto da Elliot Rodger nel 2014 con sei morti – diventato un’icona degli Incel – quello di Minassian a Toronto e di tanti altri giovani uomini che hanno fatto in tutto una cinquantina di vittime, in prevalenza donne. Progettava un’azione simile anche Andrea Cavalleri, arrestato a Savona il 21 gennaio scorso con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo e propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale aggravata dal negazionismo. Cavalleri pensava proprio a una manifestazione femminista come luogo ideale per compiere la sua prima strage.
Nonostante i segnali sempre più preoccupanti, il problema del terrorismo misogino o antifemminista è sottovalutato a livello internazionale e ancor più nel nostro Paese. Per il momento, è solo il Canada ad aver riconosciuto il movente misogino in due attacchi terroristici, nel caso del Politecnico del 1989 e in un recente attacco perpetrato da un ragazzo di 17 anni che si è introdotto in un centro massaggi e ha accoltellato due donne, uccidendone una. Dopo le prime verifiche, la polizia ha dichiarato che si trattava di un atto di “terrorismo incel” e il giovane sarà processato con questa accusa. Lo scorso anno l’International Center for Counter-Terrorism ha riconosciuto che il “terrorismo suprematista maschile” è una “minaccia crescente”. L’Icct ha individuato due convinzioni dietro a questi attacchi: l’idea che per gli uomini il sesso sia un diritto e che la violenza di massa sia una forma di compensazione quando questo viene negato, e l’idea che le femministe siano una forza malvagia che controlla la società a spese dei maschi, “con una narrazione simile alle teorie cospirazioniste antisemite che credono che le élite ebraiche controllino il mondo”.
La notizia dell’arresto del “suprematista di Savona”, così come è stato chiamato sin da subito Cavalleri, è segno che anche in Italia questa minaccia comincia a essere presa sul serio. Alle azioni dell’antiterrorismo andrebbe però affiancata una corretta divulgazione e informazione del fenomeno, che eviti di indicare gli Incel come “gli sfigati che nessuna ragazza nota”, ma come una minaccia reale che prende di mira le donne, e in particolare le femministe. Ed evitare che, come successe al Politecnico di Montreal, quando si dovrà malauguratamente piangere qualche morte, nessuno si azzardi a dare la colpa a loro.