La letteratura è inutile. Serve solo ad ampliare le nostre prospettive e decifrare il presente. - THE VISION
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Sono in Perù, percorro uno delle centinaia di “inca trails” che portano a Machu Picchu, il viaggio dura tre giorni e con me ci sono altre otto persone di differenti nazionalità, tutte tra i venticinque e i trent’anni. Com’è facile che succeda tra sconosciuti, i dialoghi consistono nell’approfondire ciò che è stato detto al momento delle presentazioni: si parla dei nostri Paesi, dei nostri interessi, del nostro lavoro. Due dei ragazzi vengono da Montréal, la città più grande del Quebec, provincia autonoma canadese di lingua francese. Non appena lo scopro mi si illuminano gli occhi e comincio a fare loro domande legate al sentimento indipendentista quebechiano, a quanto sia diffuso e al rapporto tra la provincia autonoma e il resto del Paese, nonché alla rappresentazione mentale che il quebechiano medio ha dello statunitense medio. I due restano stupefatti e vogliono sapere cosa ha mosso in me questa curiosità nei confronti del loro luogo d’origine, ho forse letto qualche saggio o visto qualche documentario? No, gli rispondo, ho letto un romanzo in cui alcuni dei protagonisti sono indipendentisti quebechiani: Infinite Jest.

David Foster Wallace, uno scritto non legato a vicende realmente accadute ma, nonostante ciò, pregno di realtà. Sottolineo il carattere fantasioso del romanzo per ricollegarmi a un altro episodio avvenuto di nuovo durante il tour, stavolta con un ragazzo belga. Cominciamo a parlare del nostro futuro: lui ha studiato economia e vorrebbe lavorare in un’azienda di import export che ha adottato un tipo di marketing innovativo, comunque in modo entusiasta mi spiega come questo tipo di innovazione migliorerà il commercio, semplificherà e velocizzerà lo scambio di prodotti. Poi, conclusa la sua descrizione, si gira verso di me e mi chiede quali sono i miei progetti. Gli dico che mi piacerebbe insegnare letteratura. La sua fronte si corruga e mi domanda candidamente come penso di convincere le persone a leggere dei libri in un’epoca in cui per apprendere delle nozioni puoi tranquillamente guardare un documentario: spendi meno fatica e meno tempo e acquisisci un gran numero di informazioni.

David Foster Wallace

Probabilmente quel ragazzo non è il solo, anzi, sono probabilmente in molti a pensarla così. In un mondo in cui si va di fretta, in cui tutto cambia molto velocemente, in cui si può disporre senza fatica di migliaia di informazioni, perché non prediligere mezzi che ti fanno risparmiare tempo? In un mondo in cui l’importante è essere efficaci, produttivi, efficienti, e riuscire a monetizzare le proprie conoscenze al meglio. La letteratura si pone in netto contrasto con questo modo di vivere: non è veloce, non è nozionistica, non è immediata. Non si legge un romanzo per capire come aggiustare il tubo rotto del bagno, né per sapere come orientarsi quando ci si perde in una città straniera, né per imparare a gestire il personale di una fabbrica. Non lo si legge per questo, perché probabilmente non si acquisirà nessuna di queste competenze leggendo, o magari indirettamente sì. Potrebbe capitare di leggere un’opera il cui protagonista è un idraulico e in cui viene narrata nello specifico la passione che lo accende o la noia che lo invade o l’odio che lo assale ogni volta che è costretto ad aggiustare il tubo rotto del bagno, il narratore potrebbe soffermarsi su ogni singola azione compiuta dal personaggio durante il riassestamento del tubo, per trasmettere la pesantezza con cui il personaggio la vive, per farti entrare in empatia con lui o semplicemente perché l’autore stesso ha lavorato come idraulico e vuole utilizzare così le proprie conoscenze. Magari, com’è successo a me col Quebec, leggendo un romanzo scopri una determinata caratteristica culturale di un certo Paese e sei in grado di fare delle riflessioni politiche in merito. Ma non è solo per questo che si legge, e non è questo il grande merito della narrativa.

Un romanzo, un racconto, una poesia, un poema, hanno il grande merito di darti dei punti di vista diversi dal tuo. Quando si legge un’opera di fantasia si entra nella vita di un’altra persona, nella sua testa, nel suo modo di affrontare le cose. La persona in questione può essere l’autore, il narratore, il protagonista, l’antagonista o il personaggio secondario o tutti loro, ma avrà comunque un modo di ragionare che non è necessariamente il tuo. Leggere un romanzo vuol dire non solo immergersi in una storia, ma se è ben scritto immergersi in una mente, anzi in più menti, ognuna delle quali ha una propria logica, delle proprie ossessioni e debolezze. Questo tipo di attività apparentemente inutile, improduttiva, ha il pregio di espandere la prospettiva di chi la pratica attraverso esperienze che non si sarebbero presentate altrimenti nella quotidianità del lettore.

Sono cresciuta in un piccolo paese, in cui è facile restare intrappolati in schemi culturali che influenzano nettamente il modo in cui si sceglie di condurre la propria vita. Nel mio paese l’amore era monogamico (almeno in via ufficiale), l’uomo corteggiava la donna e il rapporto di coppia dava la legittimità di impossessarsi della vita dell’altro, impedirgli di uscire con gli amici, di parlare con altre donne o uomini. Quando a sedici anni lessi L’insostenibile leggerezza dell’essere, capii che l’amore è pieno di sfumature e che la monogamia non è l’indiscutibile criterio per valutare la solidità di un legame spirituale (e nel frattempo scoprii anche cosa fosse la primavera di Praga). Nel mio paese la famiglia è sacra, è un’istituzione che non si può mettere in discussione, i genitori vanno seguiti e presi a modello: lessi I fratelli Karamazov e mi resi conto del fatto che i rapporti familiari sono complessi ed entrano spesso in crisi. Delitto e castigo mi fece riflettere sul rapporto tra l’uomo e gli schemi sociali di cui parlavo sopra e in cui mi sentivo intrappolata, capivo benissimo i sentimenti di Raskol’nikov che aveva bisogno di mettersi alla prova e che si sentiva debole. Così in pochi anni e vivendo in una realtà provinciale in cui i giorni trascorrevano tutti uguali, io ho preso parte a omicidi, rivolte, guerre civili, amori travagliati e crisi esistenziali. Ho sentito il peso di un’accusa infondata e l’esigenza di redenzione (La versione di Barney), ho esplorato nuove galassie (Guida galattica per gli autostoppisti), ho sentito l’amarezza della fine di un’epoca, le illusioni e le delusioni che la accompagnano (Tempo di seconda mano), e poi ho vissuto sotto il comunismo, in epoca vittoriana, nella Parigi degli anni Venti, eccetera.

Se vogliamo parlare in termini utilitaristici, la narrativa ti permette di conoscere meglio sia determinate epoche storiche e regioni del mondo, sia la sottigliezza della psiche umana: si tratta sempre di conoscenze non precise, non nozionistiche, ma che, intersecando diversi ambiti del sapere permettono al lettore di capire come la storia, la filosofia e addirittura anche la matematica e tutte le materie che siamo abituati a studiare siano parte di un unicum e diventino in un certo senso sterili e più povere se isolate (sterili nel senso letterale del termine, poiché è difficile sviluppare un pensiero originale e dunque permettere l’evoluzione della disciplina in questione se non la si fa interagire con gli altri campi del sapere). Il lettore di narrativa, proprio perché “ha preso parte” alla risoluzione dei problemi più disparati, sviluppa generalmente la capacità di orientarsi anche all’interno di un testo che non conosce, di fare associazioni non scontate e dunque di mettere in pratica il famoso problem solving oggi tanto richiesto in ambito lavorativo con una flessibilità maggiore rispetto a chi è abituato a pensare in maniera schematica. La narrativa pone degli interrogativi insospettabili, ti obbliga a riflettere su qualunque cosa, a non dare mai nulla per scontato, a provare empatia per un assassino e a cercare di capire cosa succede nella testa di un pazzo.

A livello sociale, dunque, questo ampliamento di prospettiva potrebbe avere il pregio di favorire una maggiore tolleranza e di contrastare l’odio nei confronti del diverso che ha di nuovo preso piede in questa epoca di populismi, di formare un cittadino più empatico, meno livoroso e più resistente ai tentativi di lobotomizzazione propagandistica. Per tutti questi motivi insegnare letteratura in una scuola, e promuovere la lettura, vuol dire creare una generazione futura meno esposta ai pericoli del mondo moderno: l’individualismo, l’intolleranza ma soprattutto la mancanza di una visione critica della realtà. Leggere dunque non è un’attività inutile, un vizio per persone che hanno tempo da perdere, ma uno degli strumenti principali per costruire una società migliore.

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